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Una Nuova Alleanza tra i saperi

(in memoria di Ilya Prigogine)

Raffaele Prodomo

Due certezze hanno fatto da sfondo, spesso implicito, alla scena culturale occidentale nel secolo scorso: la separazione netta tra scienza e saperi umanistici (con una precisa gerarchia tra essi) e la presenza nel mondo fisico di una regolarità e una necessità assolute contrapposte alla responsabilità e libertà individuali tipiche del mondo umano. Contro entrambi questi veri e propri miti della modernità ha speso il suo impegno intellettuale Ilya Prigogine, spentosi il 29 maggio scorso a 87 anni, Nobel per la chimica nel 1977 e tra i principali teorici del cosiddetto pensiero della complessità.
Appena nato, il metodo scientifico si inserì subito nella disputa tradizionale sulla supremazia dei saperi che per secoli nel medioevo europeo aveva visto imporsi, spesso con metodi violenti, il sapere teologico (fondato sulla rivelazione) nei confronti della filosofia. La scienza dopo le iniziali difficoltà nel caso di Giordano Bruno e Galileo, grazie anche al progressivo processo di secolarizzazione sociale e di laicizzazione della politica, si liberò da tutele religiose ma incappò nella tutela, non meno pericolosa, della filosofia. Ricordiamo come nello schema epistemologico hegeliano la filosofia dialettica rappresenti il superamento non solo del sapere mitico della religione ma anche di quello, incompleto, offerto dalla scienza empirica della natura. Alla fine dell’ottocento, poi, si impose il modello positivista che capovolse le gerarchie e assegnò alla conoscenza empirica il primato nella gerarchia dei saperi. Alla metà circa del secolo scorso, infine, si cristallizzò la distinzione, proposta da Snow in un famoso saggio, delle cosiddette <>, scientifica e umanistica, e si sviluppò un dibattito circa i possibili rapporti tra loro.
La proposta di Prigogine rispetto a questa situazione, si può riassumero nell’idea di una Nuova Alleanza tra saperi scientifici e umanistico-religiosi (dal titolo del suo libro forse più famoso scritto in collaborazione con Isabelle Stenders). Un’alleanza che si proponga l’obiettivo non di creare separazioni quanto, piuttosto, correlazioni tra i vari ambiti disciplinari, sostituendo all’immagine della piramide e della gerarchia tra i saperi quella di una rete tra le conoscenze. Questo rappresenta il nocciolo duro del pensiero della complessità: l’idea che la separazione tra saperi sia il frutto di una scelta riduzionistica che impoverisce la conoscenza della realtà mentre invece il raccordare e a volte anche contaminare metodologie conoscitive proprie di ambiti disciplinari tradizionali sia molto più fecondo epistemologicamente. In tal modo, i saperi scientifico e umanistico non entrano in competizione ma si pongono in un rapporto di distinzione che non esclude, anzi incoraggia, la loro reciproca collaborazione. Distinzione che già Croce aveva posto al centro del suo sistema in cui, contrariamente a quello hegeliano, le scienze empiriche non sono conoscenza imperfetta da convalidare filosoficamente ma sono altra cosa rispetto alla conoscenza storico-filosofica, ossia prevalentemente sapere tecnico (senza escludere la presenza nelle scienze empiriche di momenti importanti di conoscenza storica vera e propria). Non si capisce quindi, come ancora oggi in Italia si lamenti, spesso giustamente, la carenza della cultura scientifica addebitandola, a torto, all’egemonia crociana e alla sua presunta svalutazione del sapere empirico!
La specializzazione è figlia legittima del riduzionismo e della cosmologia deterministica. Questo è il secondo mito che Prigogine ha tentato di abbattere. Già da Kant fu posto con lucidità il dramma della dicotomia tra conoscenza scientifica fondata sul rapporto causa-effetto e l’idea di una volontà umana libera e responsabile. L’universo newtoniano, di cui la filosofia critica rappresenta la cornice epistemologica, è assolutamente determinato, per cui al filosofo di Konisberg non restò altra strada che immaginare una ragion pratica interna all’animo umano e capace di orientarne liberamente il comportamento, pagando il prezzo di un dualismo difficilmente sanabile tra mondo fenomenico e mondo noumenico. In tale mondo, sospeso tra caos e necessità secondo l’efficace metafora di Monod, l’uomo si sentiva estraneo e isolato, con il forte sospetto che la propria intima convinzione di essere libero e responsabile fosse frutto di una mera illusione. Lo studio da parte di Prigogine dei sistemi termodinamici lontani dall’equilibrio (che gli valse il Nobel) ha contribuito a cambiare le cose e a interpretare il mondo in maniera meno eterogenea rispetto all’uomo. I sistemi termodinamici, infatti, sono capaci di pervenire a un ordine partendo da un caos iniziale. Si pensi, ad esempio, al nostro sistema solare esito di un delicato equilibrio fondato su esplosioni e fusioni nucleari continue e caotiche in cui, tuttavia, ha trovato posto e origine la vita, ossia un’organizzazione particolarmente sofisticata e improbabile da un punto di vista termodinamico classico. Caratteristiche essenziali dei sistemi lontani dall’equilibrio sono quella di non essere reversibili, ossia di seguire la cosiddetta freccia del tempo, e non essere completamente prevedibili, in quanto la complessità e la contingenza giocano un ruolo importante nella loro evoluzione (si pensi, come altro esempio di sistema complesso, alle previsioni atmosferiche e al loro grado di incertezza).
Facendo irrompere nella fisica teorica l’irreversibilità del tempo si introduce la logica della Storia nel mondo fisico nel quale, secondo parametri newtoniani, le regole e le leggi erano considerate atemporali e assolute. Se l’approccio narrativo è comune sia alla storia umana che, in qualche modo, alla storia della realtà fisica e biologica, allora l’uomo non deve più temere di essere solo. Chiedendosi in maniera retorica se Il futuro è già determinato? e sancendo La Fine delle certezze, titoli di altri suoi libri importanti, Prigogine ha aiutato l’uomo, anzi, a sentirsi, finalmente, a casa nell’Universo. Napoli, 6 giugno 2003

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