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Lavori scientifici e mondo dell'industria:

serve una riflessione approfondita

Vincenzo Montrone

Direttore U.O. Complessa di “Fisiopatologia, terapia del dolore e cure palliative” A.O.R.N. Antonio Cardarelli di Napoli

(questo articolo è tratto da "Italian Journal of The Management of the pain & Palliative care", Volume 1 n°0, Novembre 2002)

Molti ricercatori sono convinti che le ricerche che hanno prodotto risultati negativi non vadano pubblicate. Questo fenomeno, chiamato positive result bias[1]-[2] ha assunto notevole importanza da quando si sono iniziate ad eseguire valutazioni sistematiche della letteratura scientifica con il metodo della meta-analisi. Si è osservato che la mancanza di dati negativi distorce il risultato finale a favore dei trattamenti positivi. Per tale motivo, nella nostra rivista daremo particolare spazio a tutti quei lavori scientifici in cui si sono osservati risultati negativi sul piano della efficacia terapeutica o che hanno messo in evidenza complicanze, lavori troppo spesso o quasi sempre non pubblicati e che pure dovrebbero essere numerosissimi.
La coscienza degli errori facilita l’apprendimento. Ammetterli pubblicamente aiuta a non commetterli più ed a non sentirsi onnipotenti. Non possediamo poteri assoluti, soltanto intuito, esperienza ed una parvenza di conoscenza.
I medici in genere sottolineano i risultati delle loro ricerche che, guarda caso, sono sempre o quasi sempre positivi ma un osservatore attento noterà che ogni anno, in occasione dei congressi nazionali delle rispettive società scientifiche o di congressi internazionali, i relatori, quasi sempre gli stessi, portano molto spesso contributi di lavori innovativi, quasi sempre caratterizzati da benefici terapeutici e suffragati da ingenti casistiche. In verità dovrebbe sorgere spontaneo un dubbio Amletico: sono tutti ispirati da una “Dea benefattrice” che ha guidato il loro intuito indirizzandoli verso filoni di ricerca che, guarda caso, hanno sempre apportato risultati utili alla comunità scientifica o possono contare su un numero notevole di collaboratori a cui affidare vari filoni di studio per scegliere poi solo quei lavori che hanno dato risultati utili sul piano terapeutico?
Ma un altro atroce dubbio si affaccia alla mente e non solo di chi scrive, quanti sono i lavori che vengono sponsorizzati da aziende produttrici di presidi farmaceutici o da aziende farmaceutiche? Dubbio inquietante che, se confermato, potrebbe inquinare il mondo della ricerca.
Tutti sappiamo come la pubblicazione di lavori scientifici condiziona il comportamento di numerosi medici che ad essi si ispirano nei loro atti professionali, da qui ne scaturisce un filone di pensiero che condiziona poi la politica sanitaria con i relativi risvolti economici. Il pericolo comunque non si annida solo nelle pubblicazioni di studi clinici che appaiono su riviste di prestigio, che certamente hanno il loro peso nel lanciare sul mercato nuovi presidi o farmaci, ma anche in una strategia di marketing industriale che, avvalendosi di una serie numerosa di sponsorizzazioni, contribuisce alla pubblicazione di numerosissimi lavori, spesso non ben condotti, su varie riviste di minore importanza, al fine di creare intorno ad un argomento ed a vari livelli, un consenso generale. Ad implementare questa strategia si aggiungono le numerose comunicazioni e relazioni congressuali, anch’esse sponsorizzate, con lo scopo di aumentare il consenso sull’utilizzo di un certo presidio o di un particolare farmaco.
E’ noto a tutti che molti studi clinici vengono condotti solo per facilitare l’approvazione di un farmaco o di un presidio medico-chirugico e non tanto per validare una ipotesi scientifica.
Un grido di allarme in tal senso è stato lanciato nel febbraio del 2000 dalla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine che ha ammesso di aver pubblicato articoli in cui gli autori si trovavano per qualche motivo in una situazione di conflitto d’interesse[3].
Anche il direttore della eminente rivista Science, in un suo articolo ha sostenuto la tesi affermando che era impossibile trovare editorialisti di valore che non ricevessero compensi dall’industria farmaceutica.[4]
Stiamo osservando sempre di più l’instaurarsi di un fenomeno pericoloso, caratterizzato da opinion-leaders e relatori stipendiati.
Angell M., in un editoriale apparso su NEJM dedicato al proliferare dei conflitti d’interesse nel mondo accademico americano ha così titolato: “L’Accademia è in vendita?”[5]
Rennie Drummond, editore del Journal of American Medical Association ha presentato, in occasione della quinta riunione annuale del centro Cochrane italiano, una serie numerosissima di casi di “distorsione” dei risultati di ricerca caratterizzati da: sponsorizzazione remunerata del ricercatore, interessi economici diretti del ricercatore nell’industria, simposi ed atti relativi sponsorizzati, mancata trasparenza nel riportare i risultati, pubblicazione selettiva solo dei risultati positivi ed addirittura influenza ed intimidazione verso autori di studi i cui risultati non erano graditi agli sponsor.
Che il fenomeno sia dilagante e che si sia generata una crisi di credibilità nell’ambito della comunità scientifica internazionale lo attesta il fatto che numerose prestigiose riviste, prima fra tutte Nature, ha divulgato un documento in cui, i ricercatori che intendono pubblicare sulla rivista i risultati delle loro ricerche, devono dichiarare se hanno o meno interessi legati alla azienda produttrice del presidio o farmaco che hanno sperimentato.[6]
Un mese dopo questa presa di posizione, nel settembre del 2001, ben tredici editori hanno annunciato che pubblicheranno solo articoli in cui gli autori chiariscono dettagliatamente, in una lettera di accompagnamento con valore di “assunzione di responsabilità”, il ruolo che essi hanno avuto nello studio e quello dello sponsor, e dichiarino la presenza o meno di un conflitto d’interesse mostrando gli eventuali contratti di sponsorizzazione, gli editori infine si riservano di pubblicare il lavoro solo dopo aver valutato il protocollo di studio[7].
A tutto ciò ci sentiamo di aggiungere che una eventuale manipolazione dei dati ( nociva per i pazienti) dovrebbe essere legalmente perseguita e punita severamente.
La nostra rivista, pur senza avere le pretese delle più famose testate, vuole ispirarsi a questi principi.

[1] Easterbrook PJ et al. Publication bias in clinical research. Lancet 1991; 337:867-72
[2] Dickersin K et al. Publication bias and clinical trials. Controlled clin Trials 1987; 8:343-53
[3] Angell M et all. Disclosure of authors’ conflicts of interest: a follow-up. New Engl. J. Med 2000; 342:586-7
[4] Holden C. Conflict of interest. NEJM admits breaking its own tough rules. Science 2000; 287:1573
[5] Angell M. Is academic medicine for sale? N Engl J Med 2000; 342:1516-8
[6] Davidoff F. et all. Sponsorship, authorship and accountability. Lancet 2001; 358:854-6
[7] EDITORS: Davidoff F.: Annals of Internal Medicine; De Angelis C.: Journal of the American Medical Association; Drazen J.M.: New England Journal Medicine; Hoey J.: Canadian Medical Association Journal; Hejgaard L.: Journal of the Danish Medical Association; Horton R.: The Lancet; Kotzin S.: MEDLINE/index Medicus; Nylenna M.: Journal of the Norvegian Medical Association; Gary N.M.: The New Zealand Medical Journal; Overbeke P.M: Dutch Journal of Medicine; Sox H.C.: Annals of Internal Medicine; Van Der Weyden M.B.: The Medical Journal of Australia; Wilkes M.S.: Western Journal of Medicine.

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