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Neuroscienze tra epistemologia ed etica

Raffaele Prodomo

Mentre lo studio del cervello era esclusiva di discipline scientifiche classiche quali l’anatomia e la neurofisiologia, l’analisi della coscienza e del comportamento umano è stata da sempre affidata a discipline specifiche, quali la psicologia o la filosofia, rientranti nell’ambito delle cosiddette scienze umane. Con le neuroscienze contemporanee si tenta un’integrazione tra questi e altri saperi interessati allo studio globale della coscienza.
Questo scritto, preso atto con favore della tendenza a elaborare un sapere complesso, si propone di analizzare, senza avanzare pretese di esaustività, alcune questioni epistemologiche ed etiche sollevate dalle ricerche più recenti. Il principale obiettivo delle neuroscienze è, secondo Gerald Edelman, incorporare anche la coscienza, finora paradossalmente esclusa, nel cosiddetto “arco galileiano”, ossia il territorio di competenza delle scienze empiriche[1]. Il paradosso consisterebbe nel fatto che le basi della conoscenza, ossia le capacità cognitive speciali dell’uomo sarebbero state capaci di dare una spiegazione scientifica del mondo esterno ma non sarebbero state in grado finora di dare una spiegazione di se stesse! Più in dettaglio il percorso esplicativo neuroscientifico dovrebbe portare a una spiegazione della correlazione riscontrata tra eventi neurologici e le principali classiche manifestazioni della coscienza: la sensazione, la coscienza intenzionale, l’autocoscienza.
Alle radici della soggettività: la sensazione
In primo luogo una premessa, tutti gli studi sulla correlazione tra eventi mentali e attività neuronale sono limitati da un problema di fondo, l’incommensurabilità dei due fenomeni: ossia gli eventi mentali soggettivi e le attività cerebrali non sono identici e il loro essere correlati resta difficile da interpretare e spiegare. Ciò nonostante lo studio dei correlati neurali della coscienza (NCC) o anche delle cosiddette basi neurali della coscienza (NBC) è impegno principale delle neuroscienze ed ha portato a notevoli passi avanti nella conoscenza della mente. Per quanto riguarda l’evento mentale più semplice in assoluto, ossia la sensazione soggettiva, di fondamentale importanza uno studio recente di Nicholas Humphrey dal titolo emblematico: Rosso. Uno studio sulla coscienza[2]. Nel volume, che riprende una serie di lezioni e conferenze tenute sull’argomento, si discute della sensazione soggettiva di chi osserva qualcosa di rosso, il cosiddetto rosseggiare (avere una sensazione di rosso) e delle relazioni tra sensazione e percezione sul piano evoluzionistico e fisiopatologico.
Secondo Humphrey, la sensazione si può considerare una forma di reazione a uno stimolo ambientale evolutasi nel tempo: da semplice risposta motoria a esperienza interna privatizzata. Di fatto essa, originariamente, si presentava come una semplice reazione corporea a uno stimolo esterno. Conosciamo tutta una serie di azioni-espressioni corporee che rappresentano reazioni congrue a determinati stimoli: sorridere, piangere, gridare, agitare una mano sono tutte reazioni ad appropriati stimoli ambientali. La forma più semplice è quella che in ambito biologico si definisce irritabilità. Si tratta di quella reazione che un organismo unicellulare mette in opera a contatto con uno stimolo esterno: allontanamento o retrazione, in caso di stimolo fisico o chimico negativo, avvicinamento, in caso di stimolo positivo (ad esempio una fonte di cibo). A livello unicellulare e di organismi pluricellulari semplici il fenomeno è assolutamente inconsapevole e meccanico, tuttavia, più si sale lungo la scala filogenetica più la reazione agli stimoli, prima si complica come meccanismo biologico, poi si colora di un vero e proprio elemento aggiuntivo: la soggettività, ossia la sensazione in senso proprio e la percezione, in genere considerate come unico fenomeno.
Lo scopo evolutivo dell’emergere della sensazione è abbastanza evidente: elaborare una sorta di resoconto interno degli effetti provocati dagli stimoli esterni sul proprio corpo ha un indubbio valore sul piano della fitness individuale. L’organismo biologico dotato di sensazioni appropriate è in grado, infatti, più facilmente rispetto a chi ne è sprovvisto, di riconoscere fonti di cibo, potenziali partner sessuali, possibili minacce. La storia evolutiva prosegue poi con la comparsa di un ulteriore fenomeno cosciente: la percezione. Infatti, a partire da questa iniziale concentrazione sul proprio vissuto reattivo interno l’organismo si sposterebbe poi alla considerazione del mondo esterno e svilupperebbe poco alla volta strumenti raffinati di conoscenza della realtà circostante. In questo modo, dalla sensazione elementare (e tutto sommato cieca) emergerebbe la percezione vera e propria, ossia la capacità di rappresentazione cosciente tipica dei mammiferi. In altre parole, prima si sperimenterebbero e catalogherebbero gli effetti del mondo sul proprio corpo (questo è piacevole quest’altro è doloroso, tale cosa è dolce la tal’altra amara ecc.) solo in un secondo momento si dirigerebbe l’attenzione verso l’esterno, costruendosi un’immagine mentale degli oggetti che hanno provocato le sensazioni.
Da questa ricostruzione, opinabile ed ipotetica come tutti i resoconti evoluzionistici, si evince che sensazione e percezione, pur essendo evolutivamente e funzionalmente interconnesse, siano, tuttavia, canali di espressione della soggettività distinti e separabili non solo in linea di principio ma anche in alcune concrete situazioni di fatto, e sono queste ultime a valere come possibili prove empiriche delle ipotesi evoluzionistiche, altrimenti esclusivo parto della fantasia. Inoltre, negli organismi più complessi dotati di sistema nervoso centrale, la sensazione, da originaria risposta motoria della cellula che si ritrae di fronte a un reagente dannoso, si trasformerebbe in arco riflesso, ossia azione coordinata da una serie di neuroni afferenti ed efferenti. Ancora più complessa la situazione quando il sistema nervoso diventa ricco di cellule e connessioni sinaptiche con funzioni cosiddette associative che si interpongono tra le aree sensitive e quelle motorie complicando molto la semplicità dello schema dell’arco riflesso, fino a giungere a una alterazione della direzione degli stimoli: dall’esterno verso una risposta motoria esplicita essi convergerebbe all’indietro come una sorta di azione privatizzata ad uso interno che non si manifesta più alla superficie.
Ora sarebbero proprio la retroazione interna ed i circuiti di rientro neuronale da essa attivati ad essere alla base della sensazione soggettiva di rosseggiare con il connesso correlato emotivo (come si vede non si può andare oltre l’indicazione della mera correlazione ferma restando l’incommensurabilità qualitativa tra i due fenomeni).
Un caso di distinzione tra percezione e sensazione soggettiva, ad esempio, è quello della cosiddetta vista cieca. Tale fenomeno, riscontrato e studiato sia in animali sia in soggetti umani, si verifica in concomitanza con un evento lesivo delle aree corticali deputate all’elaborazione degli stimoli visivi, ossia la corteccia occipitale. Ebbene i soggetti con lesioni gravi della corteccia occipitale, pur non provando alcuna sensazione visiva soggettiva, in qualche modo sarebbero in grado, tuttavia, se stimolati con domande appropriate, di ricostruire i particolari di una scena o di immagini cui vengono esposti. Il problema è che essi non sanno darsi ragione di queste paradossali esperienze visive e, soprattutto, tali fenomeni percettivi inconsapevoli, essendo del tutto sganciati dalla sensazione risulterebbero particolarmente sgradevoli. Addirittura, la persona di cui riferisce Humphrey, allenata ad esercitare tale capacità percettiva priva di sensazioni soggettive, rinunciò poi a tale possibilità sentendosi più a suo agio come cieco e comportandosi da tale a tutti gli effetti[3].
Ma esempi di separazione tra percezione e sensazione vengono anche da altri e meno estremi fenomeni oltre alla vista cieca. Le allucinazioni sono esempi patologici di sensazioni autogenerate, prive di un corrispettivo percettivo. Una sostanza come l’LSD, inoltre, altera profondamente le sensazioni pur lasciando relativamente integra la percezione. Infine, abbiamo le sensazioni simulate, ossia quelle reazioni interne ad azioni compiute da altri e da noi osservate che sono mediate dai neuroni specchio e si ritiene siano alla base dell’empatia. Su quest’ultimo punto e sul ruolo dei neuroni specchio come base neurobiologica della socialità torneremo più avanti quando analizzeremo il pensiero di uno dei massimi studiosi dell’argomento, Marco Iacoboni. Per ora limitiamoci a concordare con queste osservazioni di Humphrey:
<>[4].
Ne ha compiuta di strada la sensazione!
I correlati neurali della coscienza e dell’autocoscienza
Una volta esaminata la sensazione soggettiva passiamo all’esame delle forme di soggettività più complesse presenti negli organismi dotati di un sistema nervoso e soprattutto di aree corticali più sviluppate. Si tratta di studiare i correlati neurali dei fenomeni di coscienza ed autocoscienza. Per coscienza si intende la capacità di rappresentazione interna di oggetti esterni percepiti attraverso i sensi e portati alla consapevolezza individuale. Nel linguaggio filosofico classico in questi casi si parla di coscienza intenzionale, ossia della rappresentazione mentale di oggetti o eventi singoli. La coscienza intenzionale è stata definita da Gerald Edelman, nel già ricordato studio sul cervello, come rappresentazione del cosiddetto <> e sarebbe tipica di molti animali superiori, soprattutto dei mammiferi. Ad un gradino più elevato si colloca l’autocoscienza, ossia quel senso di sé come entità che dura nel tempo di cui sarebbero dotati, invece, esclusivamente gli uomini e, forse, qualche scimmia antropomorfa. Va sottolineato, inoltre, che quest’ultimo livello di complessità della soggettività si raggiunge solo con la mediazione determinante del linguaggio simbolico e della conseguente socializzazione.
Per discutere delle attività neuronali correlate ai summenzionati stati soggettivi occorre una breve premessa anatomo-funzionale sul cervello umano[5]. Il cervello umano è un organo di circa 1300 grammi, le sue componenti principali sono le cellule di sostegno (la cosiddetta glia) ed i neuroni. Approssimativamente i neuroni sono circa cento miliardi, un numero di per sé già impressionante, ma quello che è ancora più impressionante è il numero dei collegamenti che tali cellule stabiliscono tra loro, le cosiddette sinapsi, stimate nell’ordine di cento miliardi di miliardi. La comunicazione tra neuroni avviene attraverso stimoli elettrici e chimici mediati da neuromodulatori. Le classiche anatomia e fisiologia hanno studiato le reti cerebrali in funzione della stesura di una mappa dell’attività nervosa tesa a rilevare sedi di ben precise attività indagabili a livello fenomenologico e psicologico (movimenti, percezioni, pensieri). Sono state, ad esempio, rintracciate e studiate aree sensoriali deputate a elaborare stimoli provenienti dagli organi di senso, aree motorie, deputate al coordinamento delle attività muscolari, e aree cosiddette di associazione, le cui funzioni non sempre sono immediatamente evidenti.
Quello che rende il cervello (e il conseguente comportamento umano) relativamente imprevedibile e diverso da una macchina banale con input e output biunivocamente correlati è proprio l’imponente massa di aree nervose associative. Solo questo particolare anatomico basterebbe a falsificare l’abusata analogia col computer. Infatti, i meccanismi elettronici hanno una rigidità di struttura e di segnale che ne rende prevedibile il comportamento mentre nel cervello le reti neurali ridondanti e i circuiti degenerati da esse supportati consentono una notevole flessibilità di risposta. Le connessioni neurali si sviluppano nel corso dello sviluppo individuale (sia durante l’embriogenesi che dopo la nascita) in seguito a un processo selettivo molto interessante. L’ipotesi selezionista sostenuta da Edelman propone l’idea di cervelli incarnati e di corpi inseriti, a loro volta, in contesti ambientali, naturali e sociali, che in qualche modo ne plasmano le effettive strutture e funzioni.
Un rigido determinismo genetico con istruzioni codificate geneticamente per la struttura cerebrale non può funzionare per spiegare la complessità di quest’organo meraviglioso e misterioso!
A parte il fatto dell’evidente sproporzione tra geni (circa 30.000) e reti di neuroni (centinaia di miliardi) che già renderebbe impossibile codificare in modo precostituito e rigido la cablatura cerebrale, quello che conosciamo dello sviluppo fisiologico e delle deviazioni fisiopatologiche ci conferma, inoltre, nell’idea di un cervello esito di processi prevalentemente epigenetici. In altri termini, la dotazione genetica di base darebbe le istruzioni in codice solo per configurare le caratteristiche generali di specie mentre lo sviluppo effettivo dei singoli cervelli sarebbe esposto alle influenze modellanti dell’ambiente in maniera, a priori, imprevedibile. Vediamo tutto questo come può verificarsi.
L’ipotesi della selezione neurale è molto semplice, essa prevede un meccanismo di tipo darwiniano per la crescita cerebrale. Inizialmente ci sarebbero neuroni e connessioni in eccesso, poi, quelli stimolati e attivati più di frequente verrebbero selezionati rispetto a quelli meno attivati. Alcuni processi selettivi avvengono in fasi critiche dello sviluppo e non sono pertanto reversibili. Ad esempio, le reti neurali della corteccia occipitale, chiamate in causa nella visione, se non funzionanti ed attivate da adeguati stimoli visivi, non sono più disponibili per quel ruolo e vengono reclutate per altri scopi. Questo spiegherebbe la cecità pur in presenza di un sistema oculare e nervoso apparentemente indenne sul piano anatomico. Allo stesso modo, si sa che, se non stimolati adeguatamente all’uso della parola, i bambini, in qualche modo, ne risentono e sviluppano seri problemi di linguaggio, come dimostrano i casi dei cosiddetti bambini selvaggi, dispersi in tenera età e ritrovati dopo anni di completa assenza dei normali rapporti interumani.
In definitiva, come avviene per le are sensitive e per il linguaggio anche tutta la smisurata rete associativa risente della selezione ambientale e si sviluppa in modo individualmente irripetibile. Per questo, non esistono due cervelli identici neanche nel caso di gemelli omozigoti, ed il cervello, vista la preponderanza delle aree associative rispetto a tutte le altre con i massicci fenomeni di rientro degli impulsi, è, come sostiene Edelman, un organo <>[6]. Il cervello parla a se stesso nell’incessante rincorrersi di segnali e stimoli che si incrociano nelle aree associative consentendo, ad esempio, dall’integrazione di segnali parziali raccolti dalla retina la ricostruzione di un’immagine visiva completa e tridimensionale. Ma parla a se stesso anche in assenza di stimoli esterni, quando ad esempio, la stessa immagine, invece che frutto di una stimolazione sensoriale, è generata da un ricordo cosciente o da una visione involontaria provocata, magari, da sostanze allucinogene.
Uno stesso risultato a livello di sensazione può essere raggiunto attraverso strade diverse, ossia attivando circuiti nervosi plurimi. Si tratta del fenomeno della cosiddetta degenerazione del sistema, ossia la possibilità che siano disponibili circuiti neurali multipli per la stessa funzione. Questo assicura un grado di adattabilità del sistema stesso a lesioni parziali e nello stesso tempo potrebbe essere la base neurobiologica di processi simbolici come la metafora.
In definitiva, riassumendo i risultati delle più recenti indagini neurobiologiche possiamo concludere con le parole di Edelman:
<>[7].
Le interazioni complesse talamo-corticali integrano i dati provenienti dalle diverse fonti sensoriali e forniscono lo scenario d’azione percettiva della cosiddetta coscienza primaria, presente già nei vertebrati, una coscienza operante nel cosiddetto <>. Per queste attività di rientro correlate al fenomeno soggettivo della coscienza non bisogna però commettere l’errore di andare alla ricerca di una sede precisa. Non esiste un centro di comando anatomicamente definito sede dell’io individuale percipiente. In altri termini, il cervello parla prevalentemente a se stesso ma non c’è una stanza o un luogo privilegiato della mente pensante: la parola magica è interazione. L’emergenza della coscienza sarebbe, quindi, conseguenza delle attività di integrazione talamo-corticali prese nel loro complesso, con l’autocoscienza, infine, dote esclusiva dell’uomo e, forse, di qualche scimmia antropomorfa, che si collocherebbe solo su un gradino ulteriore di complessità delle attività di rientro: un gradino cui si perviene esclusivamente con la mediazione del linguaggio simbolico. In questo modo, si articola una coscienza della coscienza e l’idea di un sé duraturo nel tempo.
Tuttavia, anche in questo caso come già per la sensazione resta il dato dell’incommensurabilità tra fenomeni qualitativamente diversi. Ci ritroviamo con un’attività nervosa rilevata con mezzi sofisticatissimi, da un lato, e dall’altro con percezioni, ragionamenti logici, espressioni ed intuizioni estetiche, categorie etiche e giuridiche.
Che rapporto c’è tra fenomeni biologici indagati a livello cellulare e l’attività soggettiva?
Come interpretare in maniera corretta la correlazione tra eventi qualitativamente così diversi?
Si possono evitare i pericoli opposti di un riduzionismo scientista o di un rinnovato idealismo o dualismo razionalista?
La risposta a queste domande non è stata ancora trovata da nessuno, tuttavia, senza pretendere di riaprire l’annoso problema del rapporto mente-corpo, vediamo cosa propone almeno la letteratura neuroscientifica e filosofica più recente.
Le illusioni della coscienza: epifenomenismo e libero arbitrio
Il problema principale è stabilire il rapporto tra eventi neurobiologici e i cosiddetti qualia, termine che riassume le diverse esperienze soggettive prima esaminate. Anche se con diverse sfumature interne, una prima possibile risposta adottata da molti è quella dell’epifenomenismo, teoria per la quale i qualia sono sì eventi reali generati dall’attività nervosa ma non sono influenti causalmente sui circuiti di rientro neuronali. Secondo questo punto di vista riduzionistico il mondo soggettivo avrebbe una sua consistenza e realtà ma essa sarebbe totalmente priva di efficacia causale sul mondo fisico.
Tale riduzionismo epifenomenista è diverso dal riduzionismo del materialismo fisicalista che pretende di eliminare completamente il mentale sostituendolo con resoconti di tipo fisicalista. Per il fisicalismo, infatti, il mondo sarebbe composto esclusivamente di fatti fisici esplorabili con metodo scientifico, il mentale semplicemente non esisterebbe e sarebbe una nostra illusione che, in quanto tale, andrebbe eliminata quanto prima.
In questo si concretizza l’atteggiamento cosiddetto eliminativista. Per il punto di vista epifenomenista, invece, le cose sono leggermente diverse: la coscienza e i qualia in generale sono reali e rappresentano come una sorta di informazione sugli eventi neurali data in una lingua straniera rispetto al linguaggio scientifico ordinario. Vedremo poi come la prospettiva epifenomenica sia passibile di interpretazioni più o meno radicali che prevedono funzioni diverse per il mentale e il suo linguaggio. Come pure, più avanti, si tenterà un resoconto anche di posizioni esplicitamente critiche dell’epifenomenismo, tese a riconoscere un’efficacia causale del mentale sul fisico e soprattutto un’autonomia effettiva sul piano morale.
Per ora limitiamoci a segnalare ed elencare quelle che la visione epifenomenica tende a classificare come alcune illusioni generate dalla prospettiva mentalista (prospettiva che però, diversamente dal fisicalismo, l’epifenomenismo non considera di per sé un’illusione!).
L’illusione della coscienza come forza causalmente efficace sul corpo (sono realmente io che voglio contrarre un muscolo e spostare il mio braccio?);
l’illusione eraclitea del tempo che scorre;
l’illusione del libero arbitrio.
Il punto di vista di un’epistemologia basata sul cervello, suggerito da Edelman, tendenzialmente adotta una esplicita posizione epifenomenica su tutte e tre le questioni prima elencate. Tuttavia, egli propone una mediazione che tenti di evitare la completa svalutazione del ruolo degli eventi mentali. In particolare, sostiene che tutti i resoconti e le rappresentazioni espresse nel linguaggio tipico della soggettività, ossia la seconda natura (sensazioni elementari, rappresentazioni simboliche e linguaggi metaforici, categorie logiche ed etiche) vadano tenuti in considerazione e possano validamente affiancarsi alle spiegazioni scientifiche, tipiche della ragione naturalistica (la prima natura). Edelman respinge gli estremi del riduzionismo, per esempio l’approccio della psicologia evoluzionistica che pretende di spiegare meccanicisticamente i comportamenti umani e il linguaggio stesso come il risultato dell’attivazione di moduli mentali ereditabili geneticamente. In particolare per il linguaggio:
<>[8].
La teoria neuroscientifica così elaborata viene definita un <> perché anche per altre caratteristiche peculiari dell’umanità non si affida al determinismo genetico di tipo istruzionistico ma privilegia meccanismi epigenetici di tipo darwiniano. In altri termini, esistono vincoli ereditati geneticamente sul tipo di corpo e di cervello che si formeranno durante lo sviluppo embrionale di un organismo ma tali vincoli di specie non arrivano alla determinazione individuale: l’individualità fenotipica è sempre il risultato di percorsi epigenetici complessi di interazione con l’ambiente e di selezione da parte di questi. A maggior ragione tale spiegazione vale, come abbiamo già visto, per le reti neurali complesse all’origine dei fenomeni coscienti. I circuiti rientranti cerebrali, il famoso parlare a se stesso del cervello, non rappresentano, quindi, il monologo di un pazzo ma sono l’esito di un dialogo precedente intercorso con l’ambiente in cui il cervello, e il corpo che lo ospita, si trovano a vivere e competere per la sopravvivenza. L’esito dell’interazione è dato da una specifica cablatura neurale, nel cui ambito i circuiti rientranti si organizzano e si consolidano durante lo sviluppo individuale e realizzano quella stretta interconnessione talamo-corteccia alla base dell’attività mentale soggettiva:
<>[9].
In definitiva, quello di Edelman è un epifenomenismo sui generis, forse, in linea di principio, neanche del tutto coerente con se stesso, quando riconosce la necessità di un approccio pluralista alla verità e, riprendendo esplicitamente la polemica anticartesiana di Giambattista Vico, non considera affatto onnicomprensivo ed autosufficiente il metodo empirico-matematico. Anzi, conoscenze soggettive (ad es. la creatività estetica e la logica metafisica) sono considerate proficui strumenti di conoscenza che concorrono alla ricerca della verità insieme alle verità controllabili empiricamente, tipiche della cosiddetta scienza dura, e alle verità storiche, tipiche delle situazioni multicausali complesse.
L’approccio proposto da Edelman, pur rifuggendo dagli estremi del fisicalismo eliminativista resta pur sempre di tipo epifenomenico con il mentale che rappresenta una realtà ridondante ed ininfluente causalmente rispetto al mondo fisico che, pur collaborando alla ricerca della verità, vi contribuisce con un linguaggio, tutto sommato, secondario e indiretto. Nelle prossime righe tenteremo di esporre le posizioni molto critiche sull’epifenomenismo proposte di recente da due autori tedeschi, Hans Jonas e Jurgen Habermas.
Hans Jonas ha dedicato al problema uno scritto che originariamente era stato pensato come capitolo della sua opera più famosa Il principio responsabilità ma fu poi pubblicato a parte ed è adesso disponibile in traduzione italiana[10]. In questo saggio, l’epifenomenismo viene criticato in quanto postulerebbe una sostanziale impotenza della soggettività nei confronti del substrato fisico. La coscienza, in altri termini, sarebbe incapace di determinare il suo stesso corso e nello stesso tempo incapace di avere potere causale nei confronti del corpo.
La duplice impotenza della soggettività verrebbe postulata sulla base del principio della completezza causale del mondo fisico e del principio di conservazione dell’energia. Per Jonas questa teoria non solo fa chiaramente a pugni con l’evidenza fenomenologica soggettiva, che mostra un corso autonomo del nostro pensiero con premesse da cui seguono conclusioni all’apparenza logicamente concatenate e, inoltre, mostra la possibilità di agire costantemente sul nostro corpo mettendo in essere movimenti ed azioni volontarie, ma è anche incoerente sul piano della teoria fisica pura. In primo luogo, la teoria postulerebbe un mentale come mero prodotto del fisico che, tuttavia, non avrebbe di suo alcuna efficacia causale. Di fatto un qualcosa che interromperebbe quella completezza causale che, invece, si vorrebbe difendere come assioma a tutti i costi. Il prodotto mentale, inoltre, sarebbe energeticamente a costo zero, violando l’altro principio fisico della conservazione dell’energia che pure si vorrebbe difendere a spada tratta.
Ma, a parte queste incongruenze e incoerenze sul piano della fisica, è sul terreno della logica che l’epifenomenismo si mostra contraddittorio o quanto meno conduce a dei vicoli ciechi logici.
La coscienza epifenomenica sarebbe, infatti, un mero ornamento, ossia, sostanzialmente, una vera e propria illusione generata dalla complessità dell’organizzazione del cervello umano, ma, guarda caso, i processi propri di questa illusione sarebbero stati in grado di smascherare l’inganno (ossia la coscienza avrebbe smascherato se stessa) in quanto è proprio attraverso il pensiero cosciente (che, però, solo illusoriamente è concatenato logicamente) che si scoprirebbe l’inganno. Un inganno non si sa da chi e verso chi proposto, perché anche l’io individuale e l’autocoscienza sono epifenomeni.
Un inganno forse della materia a se stessa?
Il corto-circuito del pensiero è evidente.
Dopo questa critica dell’epifenomenismo si propone poi, da parte del pensatore tedesco, una possibile ipotesi interpretativa del legame psico-fisico. Senza entrare in dettagli che necessariamente richiederebbero più spazio a disposizione e rinviando al testo originale per un’analisi completa, si può sinteticamente riassumere la tesi di Jonas come una forma di interazionismo psico-fisico che vorrebbe essere non dualista e postula la possibilità da parte del mentale di operare, con minimi scambi energetici, un’influenza sul fisico. La possibilità di questi incontri-scambi tra mentale e fisico sarebbe offerta dalla peculiare struttura cerebrale aperta allo scambio con il mondo mentale grazie ad una sua particolare porosità. Attraverso questa struttura porosa, propria esclusivamente dei cervelli più evoluti filogeneticamente, avverrebbe il passaggio mentale-fisico, non dimenticando, come più volte già ricordato, che tale passaggio esige una trasformazione qualitativa che rende ciò che sta da un lato incommensurabile con ciò che sta dall’altro lato:
<>[11].
La possibilità dell’interazione chiamerebbe in causa eventi a livello quantistico che potrebbero spiegare l’evidente sproporzione tra energia mentale azionante ed effetti fisici, molto più dispendiosi sul piano energetico (per i quali ultimi varrebbe la spiegazione deterministica tradizionale). L’idea di fondo sembrerebbe affine a quanto sostenuto dal classico lavoro di Popper ed Eccles degli anni settanta L’Io e il suo cervello e da altri studi più recenti ai quali, sempre per economia di spazio, si rinvia[12]. Nessuna delle due ipotesi, epifenomenismo o interazionismo, è, tuttavia, dimostrata o dimostrabile scientificamente, secondo Jonas, anzi la sua stessa proposta teorica non ha pretese di verità ma è solo un modo per dimostrare che la spiegazione epifenomenica è incoerente e possono esserci altre spiegazioni, non contraddittorie con le nostre attuali conoscenze scientifiche, in grado di salvare i fenomeni: il senso di libertà e di autodeterminazione individuale e lo schema meccanicistico di interpretazione della natura.
Proprio questo è il problema di partenza di alcune acute riflessioni di Jurgen Habermas che discute la più recente letteratura dedicata al problema psico-fisico propugnando un naturalismo morbido, ossia non scientistico e che sappia riconciliare i due punti di vista: determinismo e libertà. Infatti:
<>[13].
L’idea di Habermas è che non siano plausibili né un’immagine riduzionistica e materialistica della realtà né forme di dualismo o idealismo razionalistico. Il mondo mentale degli stati soggettivi di coscienza è reale e nasce nell’ambito della stessa traiettoria evolutiva dell’umano. Proponendosi esplicitamente di conciliare Kant con Darwin, il pensatore tedesco, infatti, interpreta la straordinaria capacità comunicativa e simbolica dell’uomo come effetto e causa allo stesso tempo della sua enorme capacità di diffusione sul pianeta. Il nascere di una specie simbolica[14] e socializzata rende inconcepibile, per ragioni evolutive, qualunque epifenomenismo: perché mai l’evoluzione avrebbe consentito l’emergere di una proprietà, la soggettività, così fondamentale per la sopravvivenza e il successo riproduttivo, ma di fatto solo illusoria o, al più, pleonastica?
In realtà, entrambe le strategie cognitive, la conoscenza oggettiva data dal metodo empirico-matematico e la conoscenza soggettiva, frutto delle argomentazioni razionali, sono evolutivamente utili. Con la prima si fonda una base intersoggettivamente stabile di conoscenza del mondo in terza persona, con la seconda si rendono possibili le strategie comunicative a livello sociale, fondate sulla prima e sulla seconda persona. Nel primo percorso gnoseologico viene raggiunta la prospettiva dell’osservatore neutrale, seguendo la seconda strada si perviene alla prospettiva del soggetto partecipante all’interazione sociale. L’osservatore neutrale vede come scheletro del reale solo rapporti di causa oggettivi, per il resto parla di illusioni ed epifenomeni. Il partecipante all’interazione sociale vede se stesso e gli altri suoi simili come soggetti liberi che si danno reciprocamente conto delle proprie azioni, sentendole libera espressione delle propria responsabilità morale.
Un tale dualismo cognitivo si propone come dualismo solo di metodi e non di ontologie, ugualmente distante dal materialismo e dall’idealismo classici che si fanno portatori, invece, di un assoluto monismo metodologico:
<> [15].
Il naturalismo morbido di Habermas ha molte affinità con le idee, prima esposte, sia di Edelman sia di Jonas. Col primo condivide la visione pluralistica della conoscenza e la necessità di integrare prima e seconda natura in un percorso interpretativo omogeneo in coerenza con una critica serrata all’epifenomenismo, sostenuto, seppure in forma annacquata e contraddittoria da Edelman. Col secondo condivide molte delle argomentazioni critiche verso l’epifenomenismo, salvo il richiamo alla possibile interazione tra mentale e fisico fondata su presunte azioni a livello indeterministico: per Habermas la libertà umana non farebbe un buon affare se sottratta alla necessità fosse poi abbandonata al caso quantistico.
In definitiva, il fatto che lo spazio delle ragioni e degli individui sia frutto di una costruzione sociale e sembri scarsamente conciliabile, ovvero intraducibile, con il linguaggio della neurobiologia, non spaventa più di tanto Habermas:
<>[16].
Vedremo più avanti come questa prospettiva habermasiana di conciliare Kant e Darwin (con la mediazione spesso implicita di Hegel) sia proficua anche in relazione all’interpretazione del fenomeno dei cosiddetti neuroni “specchio”.
I neuroni specchio e il libero arbitrio
Negli anni ottanta del secolo scorso una scoperta di neurofisiologia ha aperto interessanti scenari per le neonate neuroscienze. Si tratta dei cosiddetti neuroni specchio, ossia delle cellule motorie che si attivano quando vengono osservati i movimenti compiuti da terze persone e che in qualche modo mimano, rispecchiandole, le azioni guardate. Ad esempio, se guardiamo una partita di calcio o l’esibizione di un acrobata o se, molto più semplicemente, guardiamo i nostri figli studiare, automaticamente si attivano nel nostro cervello le stesse aree motorie. È come se noi simulassimo internamente, senza movimenti espliciti, le azioni di cui siamo osservatori.
Questa scoperta ha avuto notevoli implicazioni.
Una prima qualità da sottolineare è proprio la irriflessività del rispecchiamento. Non c’è bisogno di pensare o volere imitare in maniera esplicita, la simulazione interna avviene automaticamente ed è questa una dote che compare già nei neonati con poche ore di vita.
La scoperta dei neuroni specchio, inoltre, prima rinvenuti nelle scimmie poi confermata anche negli uomini, ha sconvolto un paradigma consolidato delle neurofisiologia classica: quello della specializzazione e della localizzazione. Come si è già accennato, le aree cerebrali corticali, già sviluppate nei primati ma che raggiungono la loro massima espansione nell’uomo, si consideravano suddivise in zone sensoriali, zone motorie e aree associative ben distinte funzionalmente e anatomicamente tra loro. Ebbene, con la scoperta dei neuroni specchio e delle loro particolari funzioni questo schema interpretativo salta, nel senso che ci troviamo di fronte a neuroni con funzioni in parte sensoriali e in parte motorie. L’immagine del cervello e delle sue funzioni viene così completamente ridisegnata, invece di un organo suddiviso in parti specializzate abbiamo un organo che si comporta più come un tutto organizzato: da riduzionistica e meccanicistica la fisiologia cerebrale diventa, in un certo senso, olistica. La capacità dei neuroni specchio di attivarsi in contemporanea a chi compie effettivamente un’azione nel cervello di chi, invece, si limita solo ad osservarla e simularla internamente ci riporta all’idea di un circuito nervoso che non sfocia all’esterno verso il canale muscolare ma che si mantiene all’interno, un altro di quei fenomeni di rientro che abbiamo visto essere alla base sia della sensazione che della percezione e dell’autocoscienza.
Inoltre, dagli studi sperimentali effettuati, sembrerebbe che con i neuroni specchio il nostro cervello sia in grado non solo di riconoscere e simulare la semplice azione motoria ma, molto più intrigante e interessante, sia addirittura in grado di discriminare tra le intenzioni dell’agente. Prendere ad esempio una tazza da tè è un’azione che può essere motivata da intenzioni diverse, ad esempio dall’intenzione di metterla da parte per lavarla o, invece, dalla volontà di berne il contenuto. In un famoso esperimento si è visto che a seconda dei contesti in cui l’afferrare la tazza veniva collocato (privo di riferimenti ambientali, una tavola con briciole e già usata per la colazione, un’altra appena imbandita con biscotti e posate in bella mostra) le cellule specchio attivate erano leggermente diverse come se avvenisse una sottile discriminazione tra le intenzioni dell’agente osservato.
Queste qualità particolare hanno indotto gli studiosi a considerare le cellule specchio come potenziali basi neurobiologiche di alcune funzioni umane , quali l’empatia, la capacità di socializzazione e il senso morale, secondo uno dei pionieri nella ricerca nel settore, Marco Iacoboni:
<>[17].
Tali considerazioni generali, insieme a molti altri dettagli interessanti degli studi sui neuroni specchio, sono disponibili nel bel volume di Iacoboni che riesce a trasmettere con semplicità i risultati delle ricerche sperimentali effettuate, fornendo sia una chiave di lettura storica, che dà il giusto merito all’équipe di studiosi italiani da cui è partito il filone di ricerca, sia una chiave di lettura teorica che, nello spirito di integrazione dei saperi tipico delle neuroscienze, propone un’interpretazione filosofica del dato scientifico. Al libro, quindi, rinviamo per gli opportuni approfondimenti.
In questa sede ci preme discutere di alcuni aspetti relativi proprio all’interpretazione filosofica dell’attività dei neuroni specchio, più in particolare ci interessa discutere delle possibili conseguenze di tale scoperta neurobiologica sull’autonomia e la libertà d’azione dei soggetti: il tema in definitiva della moralità e del libero arbitrio umani.
Una certa interpretazione del ruolo dei neuroni “specchio”, infatti, a prima vista mette fortemente in crisi l’idea di soggetto autonomo (l’autolegislatore kantiano), quell’idea per cui:
<> [18].
Il fatto che si siano individuati i fondamenti neurobiologici che spiegano la naturale e inconscia tendenza imitativa dell’uomo come animale sociale, può essere aperto a più di una chiave interpretativa.
Una prima interpretazione può giungere ad una vera e propria negazione dell’autonomia individuale, considerata poco più di un’illusione e maschera delle reali forze determinanti il comportamento individuale. In questa interpretazione radicale si sommano e si potenziano a vicenda i due determinismi da sempre nemici dichiarati della libertà e dell’autonomia dell’uomo: il determinismo biologico e quello sociologico. Prendendo ad esempio la violenza imitativa, quella indotta dalla visione mediatica di scene violente, possiamo riscontrare l’intreccio di determinismo sociologico, con la tesi che chi pratica lo zoppo impara a zoppicare (ossia la frequentazione di ambienti violenti crea ulteriore violenza) e di determinismo biologico, con la tesi che il comportamento imitativo è biologicamente determinato (ossia i neuroni specchio con l’imitazione inconscia da essi modulata sono il vero innesco del comportamento imitativo). Cause esterne, ambientali, e cause interne, neurobiologiche, congiurano insieme ai danni del libero arbitrio, ricondotto a mera illusione psicologica.
Questa interpretazione estrema annulla la libertà del volere umano in modo assoluto e, se coerente, dovrebbe comportare una profonda revisione dell’etica e del diritto, se non una loro totale abolizione. Sia la responsabilità etica che quella giuridica si fondano, infatti, sull’idea di soggetto autonomo, caduta questa cadono anche le prime due.
Un’altra interpretazione, meno radicale, ha come obiettivo polemico l’idea dell’autonomia individuale intesa come totale indipendenza dai condizionamenti biologici e/o sociali, ma non arriva al punto di negare una sia pur limitata e circoscritta libertà. In verità quest’idea di una morale totalmente autonoma che contrasti istinti e passioni individuali fa parte della tradizione kantiana di netta separazione fra fenomenico e noumenico. Il soggetto morale kantiano si erge, infatti, come supremo autolegislatore rispetto alla natura empirica e crea così una scissione insanabile tra io empirico ed io ideale. Se la teoria dei neuroni specchio si intende come critica a questo modello astratto di libertà individuale ben venga e ci sentiamo senz’altro di condividerla. Essa, come già a suo tempo fece Hegel, ci ricorda che il soggetto morale non vive in un iperuranio ma è concretamente impigliato in una rete di impulsi e condizionamenti che ne limitano fortemente e condizionano il volere, senza, tuttavia, annullarne del tutto la libertà. Vediamo ancora cosa ne pensa Habermas, il cui punto di vista ci sembra particolarmente rilevante ed esemplificativo di una tale prospettiva:
<> [19].
La relativa libertà dell’uomo non è, quindi, astrattamente separabile dalle passioni e dagli stimoli biologici o ambientali, ma deve porsi essa stessa come passione tra le passioni e come istinto tra gli istinti. Un suo prudente esercizio non deve porsi l’obiettivo impossibile di annullare le contrastanti emozioni da cui siamo dominati come animali sociali quanto piuttosto di servirsene per la realizzazione delle norme etiche elaborate dalla ragion pratica. In questa prospettiva, in definitiva, la capacità imitativa inconsapevole, resa possibile dall’azione dei neuroni specchio, si presenta come una capacità intrinsecamente neutrale sul piano etico, all’opera in una varietà infinita di situazioni esistenziali. Essa si può porre al servizio del male e condurre all’imitazione di azioni e comportamenti violenti o, al contrario, porsi al servizio del bene con tutta la serie di gesta di abnegazione e di altruismo passibili di emulazione. È abbastanza prevedibile che, anche col massimo sforzo individuale e sociale (come è giusto che sia) per incrementare i comportamenti buoni e ridurre quelli cattivi, nel percorso esistenziale di ognuno di noi non mancheranno mai del tutto esempi né dei primi né dei secondi, per cui l’imitazione è, potenzialmente, ambivalente e si può rivolgere ad entrambi. La capacità di mediare tra i contrastanti condizionamenti che la vita ci propone incessantemente inclinando verso abiti comportamentali ispirati a bene e giustizia è tutta la libertà cui realisticamente si possa aspirare.
Libertà non astrattamente priva di limiti e condizionamenti ma fatta anzi proprio di limiti e condizionamenti ogni volta affrontabili e superabili.

 

[1] G. Edelman, Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana, Raffaello Cortina, Milano 2007 (2006).
[2] N. Humphrey, Rosso. Uno studio sulla coscienza. Codice, Milano 2007 (2006).
[3] Ivi, pp. 33-53.
[4] Ivi, p.80.
[5] S. Rose, Il cervello del ventunesimo secolo. Spiegare, curare e manipolare la mente, Codice, Milano 2005 (2005).
[6] G. Edelman, Op. cit., p. 17.
[7] Ivi, p.33.
[8] Ivi, p.149.
[9] Ivi, p.150.
[10] H. Jonas, Potenza o impotenza della soggettività?, Medusa, Milano 2006 (1987).
[11] Ivi, p. 65.
[12] K.R. Popper, J.C. Eccles, L’io e il suo cervello, Armando, Roma 1981 (1977); per una buona introduzione generale con l’esposizione di un punto di vista anti-riduzionistico si veda C. Piancastelli, In una notte come questa. Studi sulla visione interiore, Hybris, Bologna 2005.
[13] J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006 (2005), p. 53.
[14] T.W. Deacon, La specie simbolica. Coevoluzione di linguaggio e cervello, Giovanni Fioriti Editore, Roma 2001 (1997).
[15] Ivi, pp. 66-67.
[16] Ibidem.
[17] M. Iacoboni, I neuroni specchio. Come capiamo ciò che fanno gli altri. Bollati Boringhieri, Torino 2008 p. 12
[18] Ivi, p. 183.
[19] J. Habermas, Op. cit., p. 63.

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