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Il corpo evoca la vita e il suo mistero ed è apertura originaria alle cose del mondo.
Se non si è padroni del proprio corpo non lo si è nemmeno della propria persona e non si è liberi. Difendere l’integrità del corpo significa difendere la vita nei vari modi in cui ce la rappresentiamo sia se ne cogliamo una qualche sacralità, sia se la consideriamo quale diritto umano inalienabile. Tutto ciò contribuisce a spiegare le difficoltà che si incontrano quando intervengono fattori tali da mettere in questione il corpo e la sua disponibilità e ci si chiede se i suoi prodotti o derivati possano essere sottratti alle scelte di singoli individui fino a diventare res communitatis.
Il corpo è la metafora per eccellenza ed è entrato in gioco in campi diversi: la religione ne ha fatto carne da redimere, la medicina organi da sezionare, la filosofia una dualità dicotomica corpo-anima, la biologia lo ha relegato ai confini sulla sua limitata naturalità, la tecnologia lo ha denaturalizzato e parcellizzato.
L’intreccio tra biologia, biotecnologia e mercato ha aperto scenari nuovi e talvolta inquietanti a tal punto che il corpo della persona è ormai al centro di un’attenzione che vuole scandagliarne ogni recesso passato e presente ed utilizzarne qualsiasi possibilità futura.
Il corpo, sostegno fisico alla sfera razionale ed ideale dell’individuo è il luogo in cui si mettono in atto le funzioni dell’esistere: del dolore, del piacere, del desiderio sessuale. Analizzato dalle differenti culture e dai diversi sistemi di valore, chiuso in due identità fisse, maschili e femminili, “trasmette” un codice che omologa anche la condizione stessa dell’Essere che lo abita.
Nella storia della nostra cultura l’identità del corpo nasce, teoricamente, nel momento in cui sorge l’idea di anima e ciò segna anche l’inizio di un diverso rapporto con il proprio corpo che si sviluppa nel tempo così come le nostre relazioni con esso. Un’evoluzione da cui però è emerso un corpo in fondo fragile che dura poco e che muore con noi. La morte, la malattia, le menomazioni, rappresentano i sui limiti : una condizione che l’individuo ha da sempre tentato di esorcizzare.
Ciò che più sta caratterizzando la nostra storia, è l’attenzione quasi morbosa al corpo poiché “l’essere in forma” è oggi un imperativo categorico, poiché un corpo liscio e levigato non dà solo l’idea del bello ma anche dell’essere sano. Questa valorizzazione, però, inevitabilmente lo riduce a ”cosa”, ad immagine, a pura esteriorità, lontana dalla necessità di trasmettere segnali utili a determinare relazioni con la propria origine, discendenza e identità sociale.
Il corpo, realtà anatomica e biologica, è anche una entità culturalmente costruita, determinata nella sua apparenza ed espressività dalla società o dal gruppo di appartenenza (“plasmazione” sociale). Esso, quindi, risente delle mode e delle consuetudini: basta pensare al modello di bellezza ideale greca e romana e al modello estetico proposto ora nei paesi occidentali alle adolescenti, che hanno una sua estrema rappresentazione nel corpo dell’anoressica. L’ordine sociale impone, dunque, le forme ed i limiti al modo in cui è percepito il corpo fisico.
Mai come oggi avere un aspetto piacevole è un imperativo assoluto. E’ per questo che si assiste ad un moltiplicarsi dei modelli di bellezza; non c’è più un ideale estetico unico e questa sopravvalutazione e enfatizzazione non riguarda solo il corpo femminile ma anche quello maschile; sorgono nuove sindromi psicologiche come la dismorfofobia (errata valutazione della propria immagine) e nel lessico entrano parole come “tanoressia” (neologismo inglese per la smania di abbronzatura perenne); cresce la mania per il body building ed il desiderio di trasformarsi ricorrendo alla chirurgia plastica ed alle cure cosmetiche; si tende, sempre più, verso una identificazione estetica tra i sessi per una sorta di ricerca metafisica di “un essere perfetto e neutro”.
Anche il concetto di bellezza è legato a un determinato momento della storia dell’uomo e del suo costume.
Nelle civiltà precedenti a quell’ellenica l’ideale della bellezza femminile era strettamente legato all’immagine della fecondità: la donna dunque era vista prima di tutto come procreatrice. Col progredire della civiltà l’immagine della bellezza si è sempre più legata ai canoni precisi di armonia. Gli scultori greci del IV secolo a.C. furono i primi a fondare il calcolo delle proporzioni ideali sul numero otto: ossia, l’altezza del corpo deve essere otto volte quella della testa. Intorno al numero otto fu imperniato anche il concetto di bellezza dei romani: secondo Vitruvio (I sec. a.C. ) la testa deve essere 1/8 del corpo mentre il viso deve corrispondere a un decimo.
La civiltà romana, invece, già vicina alla decadenza, impreziosì la semplicità ellenica con vesti ed ornamenti, acconciature e belletti, mentre da prosperosa l’immagine muliebre andò sempre più assottigliandosi fino ad arrivare alla donna “verticale” dei bizantini.
Del resto l’ideale della donna grassa è il modello che corrisponde sempre alle popolazioni più povere, infatti, quanto più una civiltà diventa evoluta, tanto più gli stereotipi femminili si costruiscono su forme assottigliate. Le donne egiziane, ad esempio, appartenenti ad una civiltà molto colta, sono sempre raffigurate sottili e flessuose.
Il Medioevo portò con sé un’ondata di spiritualismo e così le forme furono trascurate, quasi dimenticate e la “donna angelicata” del dolce stil –novo sembra non avere corpo. All’inizio del Rinascimento riaffiora il gusto della bellezza pagana e accanto alle creature botticelliane sottili, sinuose e slanciate, appaiono immagini ben più prosperose.
La donna del ‘400 e ‘500 ha addosso almeno venti chili in più rispetto a quelli che il suo rapporto peso statura comporterebbe.
Con la controriforma si assiste ad uno stile rigido e le donne, strette nei busti di ferro, appaiono emaciate, con la carnagione pallida e malaticcia e sembrano dover scontare tutti i peccati di gioia di vivere e libertà espresse dalla generazione che le ha precedute.
Il Re Sole, in Francia, vorrà invece donne dal giro vita minimo ma dal busto spazioso e trucco raffinatissimo, mentre la rivoluzione francese riporterà forme e ornamenti ad una semplicità perduta e al senso della misura.
Col Neoclassicismo le forme sono improntate ad una contenuta opulenza mentre mezzo secolo dopo, col regno dell’inglesissima Regina Vittoria, vi sarà un’ondata moralizzatrice e le eroine dell’epoca sono schiacciate dai busti e dalle stecche di balena e soffocate da chili di biancheria.
Soltanto all’inizio del Novecento, con l’esplosione del Liberty, la donna riesce a sottrarsi ai condizionamenti di una moda così poco naturale e si muove liberamente.
Alla fine della prima guerra mondiale non sono più i pittori e gli scultori a dettare i canoni della bellezza, ma le nascenti dive del cinema muto.
Oggi sono i mass media ad imporre i nuovi “modelli” ed una nuova febbre sociale “imperversa”: rimanere a lungo giovani e sani abolendo sofferenze e malattie.
Decenni di ricerche biologiche hanno alimentato tali speranze, infatti, oggi giorno, mediante tecniche ”miracolose”, il corpo umano è studiato, migliorato e valorizzato e si è giunti ad un ideale di bellezza e di salute fuori del tempo.
La possibilità di prelevare, modificare, conservare, trasferire e usare parti separate del corpo (sangue, midollo osseo, gameti, organi, tessuti, ecc…) costituiscono successi della biomedicina.
Allo stesso tempo, mai come oggi, si assiste alla crescita parallela di un altro fenomeno di natura opposta: il corpo umano si è trasformato in merce. Le sue malattie diventano una fonte di profitto e i suoi “pezzi di ricambio”sono portati direttamente sul mercato biotecnologico per rimediare alla sterilità, per rimpiazzare gli organi deteriorati, per l’utilizzo a pagamento da parte di altre persone.
La compravendita di organi umani da usare per fini di trapianto in una società nella quale il mercato si sta trasformando in legge suprema della convivenza, sta diventando un fenomeno quasi dovunque accettato: basti pensare alle disinvolte affermazioni che cominciano ad affiorare su non poche riviste mediche, alle presunte giustificazioni filosofiche basate sulla ”libertà personale” e sul “ diritto a disporre del proprio corpo” o ai camuffamenti linguistici che hanno portato a definire il venditore come “ donatore retribuito” e questo commercio come “donazione non altruistica”.
E’, invece, la cultura del dono che deve essere incoraggiata se si pensa che l’allungamento progressivo della vita, soprattutto nei paesi a capitalismo avanzato, porterà il trapianto di organi a diventare il vero “business” della chirurgia.
Nel nostro Paese le posizioni dell’opinione pubblica riguardo le questioni etiche sollevate dai trapianti di organi e di tessuti conoscono picchi di opposte fasi alterne sulla scia di notizie, spesso inesatte, riportate dai mass media.
Lo stesso si è verificato quando decenni di ricerche biologiche sono state “spazzate via” agli occhi dell’opinione pubblica, dalla clonazione della pecora Dolly nel 1997.
L’avvenimento scatenò,infatti, polemiche, dibattiti ed interventi vari, generando, alla fine, una notevole confusione.
Anche l’evoluzione della genetica molecolare e soprattutto la decifrazione del DNA dell’uomo mediante il Progetto Genoma Umano, con il quale si è in grado di descrivere la struttura, la posizione e la funzione di tutti i geni che caratterizzano il patrimonio genetico dell’uomo, hanno sollevato nuovi problemi di natura bioetica e deontologica:
poter correggere i geni difettosi sostituendo geni anormali con geni sani, mediante la terapia genica, potrebbe dare nuovo impulso a programmi di miglioramento della specie umana ispirati ad un rigido determinismo genetico; i geni potrebbero essere identificati come la "risorsa grezza di future attività economiche" perché coloro che posseggono la tecnologia e il capitale necessario, potrebbero brevettare la “vita“ dell’uomo comprese le singole parti del corpo ed i suoi geni.
La vita, però, non è un’invenzione umana e non può essere considerata alla stregua di un prodotto industriale. L’uomo, infatti, non deve essere considerato un bene commerciale ed i brevetti sui suoi geni e sulle sue parti del corpo potrebbero rappresentare una minaccia per la sua dignità.
L’eventuale attuazione di tali programmi, ma anche l’opposta demonizzazione dei progressi della genetica moderna, potranno essere scongiurate soltanto da una corretta e diffusa informazione sulle attuali conoscenze, sui limiti e sulle potenzialità effettive della genetica.
Silvana Schiavone (docente di Lettere)
MariaAngela Esposito (docente di Scienze)
AnnaMaria Esposito (docente di Scienze)

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