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Mariateresa Iannuzzo

Microallocazione delle risorse in sanità: dilemmi quotidiani tra etica ed economia

(Resp. Servizio VRQ Ospedale Buon Consiglio Fatebenefratelli - Napoli)

(relazione tenuta nell’ambito dell’VIII Corso di formazione in Bioetica dell’Istituto Italiano di Bioetica Campania: “Introduzione alla bioetica”)

INTRODUZIONE

Nel secolo scorso, e soprattutto nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, la salute del genere umano ha conseguito il più grande miglioramento mai avvenuto nella storia: i progressi delle scienze mediche (basti pensare agli antibiotici ed alle vaccinazioni) hanno avuto in quei decenni un’applicazione diffusa, a volte universale. A ciò si sono aggiunti in molti paesi miglioramenti della nutrizione, dell’igiene, e del livello di istruzione, e soprattutto il riconoscimento che la salute e l’accesso alle cure sono un diritto primario degli uomini e delle donne di ogni età e condizione. E’ progredita così la salute globale, e si è ridotto lo squilibrio nei livelli di salute, tanto da indurre l’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) a prospettare l’obiettivo della “salute per tutti” per l’anno duemila.
Attualmente il quadro che si presenta comprende ulteriori miglioramenti, soprattutto nei paesi sviluppati e in altri che sono avviati verso lo sviluppo, ma presenta al tempo stesso un accrescimento, sia tra le diverse aree e nazioni del mondo, sia all’interno di quasi tutti i paesi, di quelle differenze in salute che sono prevedibili, prevenibili e correggibili, e perciò moralmente ingiuste.
A ciò concorrono paradossalmente, oltre agli squilibri crescenti nei livelli di reddito e di istruzione, anche gli straordinari progressi delle scienze biomediche, i cui indubbi benefici sono sempre meno accessibili alle popolazioni più malate e più povere. Questa situazione, documentata da numerose ricerche e poi nei rapporti dell’OMS, ha suscitato a partire dall’anno 2000 un vasto allarme internazionale. L’esigenza di affrontare il rapporto tra equità e salute sono stati al centro di solenni dichiarazioni dei G8 fino alla “Dichiarazione del Millennio” (Okinawa - Assemblea dell’ONU, 18 settembre 2000).

RAPPORTO TRA EQUITÀ E SALUTE
DEFINIZIONE DI SALUTE
L’OMS nel suo Preambolo dell’atto costitutivo (1946), definisce: “la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non consiste solo in un’assenza di malattia o di infermità”. Questa definizione ha avuto un ruolo importante nel sottolineare l'esigenza di curare le persone e non solo le malattie, e nel superare una concezione puramente biologica dei fenomeni morbosi. L’OMS ha ulteriormente precisato (Congresso internazionale sulla promozione della salute Ottawa, 17-21 novembre 1986) nella Carta di Ottawa che per conseguire uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, l'individuo o il gruppo devono essere in grado di identificare e realizzare le proprie aspirazioni, di soddisfare i propri bisogni, di modificare l'ambiente o di adattarvisi.
La salute viene quindi vista come risorsa di vita quotidiana, in un’ottica che insiste sulle risorse sociali e personali oltre che sulle capacità fisiche. La promozione della salute non è perciò responsabilità esclusiva del settore sanitario, ma i requisiti per la salute sono quindi visti in una luce intersettoriale che amplia le esigenze di intervento dei governi.

DEFINIZIONE DI EQUITA’
L’immediato e pratico significato della parola “equità” può essere colta all’interno dei problemi della giustizia sanitaria che nel suo insieme è una giustizia di tipo distributivo. Le risorse con cui possono essere soddisfatte le esigenze di salute degli esseri umani non sono illimitate e dunque – data l’importanza e la priorità delle esigenze collegate con la salute – si presentano spesso come insufficienti. Diverse concezioni (da Hobbes, a Locke, a Hume, a Smith, a Mill ecc.) sostengono la condizione di scarsità accompagna tutte le questioni di giustizia, dato che se la quantità di un bene è illimitato (poniamo l’aria) non abbiamo bisogno di cercare criteri per la sua distribuzione equa.
I problemi di giustizia nascono dalla scarsità di mezzi economici, di strumenti, di competenze professionali, di tempo del personale sanitario, di spazi in cui prendersi cura delle persone malate ecc. La loro scarsità può essere assoluta o relativa, in rapporto al peso che ogni paese attribuisce al valore della salute degli individui. Comunque esse sono sempre inferiori ai bisogni.
E’ utile distinguere, all’interno della giustizia sanitaria, l’area delle questioni
di macro-distribuzione (o macro-allocative),
da quelle di micro-distribuzione (o micro-allocative).
Le questioni di ordine macro-distributivo chiamano in causa principalmente scelte politiche e amministrative; mentre le questioni micro-distributive hanno a che fare con situazioni in cui, nelle scelte e nelle decisioni, sono direttamente (anche se non esclusivamente) coinvolti gli operatori sanitari, visti nella relazione con i malati di cui si occupano.
La Giustizia Distributiva, che si occupa propriamente della distribuzione dei beni, diventa quindi un insieme di regole atte ad operare una mediazione fra la necessità di contenere i costi e attuare delle scelte coerenti tra il bene per il singolo e l'equità sociale. “Scelta” quindi come ricerca di un compromesso fra limiti e possibilità, come intrecciarsi di relazioni conflittuali tra i Principi etici di Giustizia, Beneficenza ed Autonomia con l' Economia e la Politica, è la parola che ricorrerà spesso come chiave in questa mia relazione.

SCELTE ECONOMICO-POLITICHE
Le scelte nella Giustizia distributiva si rifanno a criteri inerenti le varie filosofie politico-economiche dominanti in un Paese e si configurano in una serie di applicazioni estremamente variabili e non sempre condivisibili.
Utilitarismo: Il principio su cui si fonda è quello della “massimizzazione dell'utilità”, per cui la giusta azione si identifica con quella che “massimizza il benessere del maggior numero di individui coinvolti”. In Sanità ciò si traduce nella continua ricerca di efficienza: costo-beneficio, costo-efficacia degli interventi sanitari con l'obiettivo di fornire il maggior beneficio ai più al costo minore per la Società.
Liberismo: Si fonda sul principio “Libertà da vincoli e costrizioni”: ne consegue che il singolo sceglie la qualità e la quantità delle cure in base alle proprie risorse economiche, alla stessa stregua di come sceglie un bene di consumo. Il libero-mercato, quindi la competizione garantisce l'efficienza del sistema sanitario. I meno abbienti possono accedere ai fondi statali, Medicare e Medicaid, che tuttavia forniranno una assistenza limitata.
Comunitarismo: La comunità ha una responsabilità nei confronti dell'individuo e l'individuo nei confronti della comunità. Si fonda quindi sulla solidarietà, spesso intesa come obbligo di prendersi cura dei cittadini e soprattutto di quelli più deboli, come gli anziani, gli handicappati e i malati psichiatrici.
Egualitarismo: ogni membro della Società, indipendentemente dalla sua posizione o ricchezza, avrebbe un uguale accesso a un livello adeguato, anche se non massimo, di assistenza sanitaria. Il bene collettivo è prioritario rispetto al bene del singolo. SCELTE ETICHE
Il problema dell'uso delle risorse in medicina è allo stesso tempo tradizionale e nuovissimo nella nostra società. Lo possiamo considerare come una situazione di conflitto che si è sempre potenzialmente presentata, oppure come lo scenario del futuro prossimo, che non trova analogie nelle situazioni del passato.
Decidere come allocare le risorse, ed eventualmente stabilire i criteri per fare una lista delle priorità, è un momento forte dell'etica in medicina ed in maniera schematica possiamo presentare tre modelli che orientano le scelte in medicina.

Etica medica
Il valore fondamentale attorno al quale si è costruita l'etica medica tradizionale è quello di fare il bene del paziente (“beneficence” o beneficità). Fare tutto il possibile per il malato che ha bisogno e che si trova attualmente davanti al medico è un atteggiamento fortemente sostenuto dall'etica, sensibile ai valori ideali di una professione che ha sempre amato modellarsi su una “missione”. La ripartizione delle risorse dovrebbe essere ispirata unicamente dall'oggettività della clinica. E' chiaro, per esempio, che la cooperatività del paziente costituisce una condizione previa indispensabile per la dialisi, in quanto un paziente non cooperativo rischia di rendere infruttuosa la dialisi stessa. Ma sotto questa apparente oggettività clinica ci sono considerazioni di tipo psicologico. Si sa, infatti, che l'incidenza del suicidio tra i pazienti sottoposti a dialisi è del 100% superiore al resto della popolazione. Nell'allocazione di quella risorsa scarsa che sono i presidi dialitici diventa ragionevole considerare anche la stabilità psicologica, ovvero la compliance, dando la preferenza alle persone affidabili piuttosto che a quelle esposte al fallimento. In questo modo il confine, apparentemente tracciato in maniera molto chiara, tra le indicazioni cliniche e altri criteri - di natura psicologica, sociale, morale o di accettabilità sociale - tende a sfumare. Il pericolo che incombe sull'etica che si ispira unicamente al bene del paziente è quello di tramutarsi in un moralismo paternalista.
Bioetica
Lo scenario cambia quando la medicina è passata dall'epoca premoderna all'epoca moderna, i cui tratti costitutivi sono quelli che la società ha assunto dopo l'Illuminismo, a cominciare dal valore centrale delle persone e dall'ideale dell'autodeterminazione. Dobbiamo riconoscere che di fatto la medicina è stata per lungo tempo impermeabile alla modernità. Nella medicina l'epoca moderna non è entrata fino una data recentissima, più o meno una ventina d'anni fa. Il paziente diventa non soltanto la persona in stato di necessità che va a chiedere l'aiuto illuminato e benevolo da quella figura rivestita di sacralità che è il medico, ma assomiglia piuttosto a un “utente” che va dal professionista, di cui utilizza il sapere e la competenza, per giungere a fare delle scelte.
Ciò che rende rilevante questo modello è il fatto che nella medicina contemporanea nel trattamento delle patologie noi abbiamo percorsi alternativi. Per estremizzare le posizioni, potremmo dire che il problema delle scelte non esisterebbe se per ogni situazione patologica ci fosse un'unica soluzione terapeutica e un solo itinerario diagnostico; ma là dove ci sono alternative, vengono fuori i valori che soggiacciono alla prassi medica. Nella efficacissima medicina che è la nostra, i percorsi, le scelte, le alternative al trattamento - o al non trattamento - sono tante; e queste scelte alternative hanno un rapporto con la qualità della vita, con le preferenze, cioè con l'ideale etico delle persone che chiamiamo “buona vita”.
Nello scenario di una medicina che ha fatto il suo ingresso nella modernità il problema delle priorità diventa drammatico, in quanto la gerarchia di valori del medico può entrare in conflitto con la gerarchia di valori e con le preferenze del paziente: nel fare delle scelte bisogna tenere presente non soltanto arrecare beneficio al paziente, ma rispettare il malato nei suoi valori e nell'autonomia delle sue scelte. Il principale strumento che ha saputo creare la bioetica per garantire questa qualità delle scelte è l’informazione, il “consenso informato”.
Etica dell’organizzazione
Non siamo ancora entrati nel modello che è proprio della modernità e già c'è una muova mutazione in atto. Siamo catapultati a forza in un modello diverso: quello che ha il suo simbolo nell'azienda, con il compito di pensare la sanità in un quadro di limitazione e di risorse definite.
L’interrogativo fondamentale che dovrà porsi chiunque abbia delle responsabilità nelle scelte ruoterà intorno a elementi della qualità di carattere gestionale: quale trattamento ottimizzerà l'uso delle risorse e produrrà un paziente-cliente soddisfatto? La fisionomia stessa dell'interrogativo etico viene modificata. Nell'etica medica il registro per valutare la qualità è quello della bontà (l'azione è buona in quanto porta il beneficio della guarigione o lenisce i sintomi dolorosi); la nuova stagione che si è aperta ci obbliga a interrogarci se l'azione sia appropriata rispetto ai fini da conseguire, che comportano sia una più acuta sensibilità per il bene comune e l'equità sociale, sia l'acquisizione di un atteggiamento che abbini la soddisfazione del cittadino/cliente agli interessi dell'azienda.

Lo schema si costruisce mediante la sovrapposizione di tre dimensioni:
1. La prima dimensione è quella del bene del paziente, propria dell’etica medica tradizionale.
2. Aggiungendo l’asse delle preferenze, la buona scelta medica dovrà tener conto temporaneamente di due fattori: il beneficio da procurare al paziente e il suo consenso a ciò che il malato ha individuato e scelto come suo bene. La scelta si realizza sul piano orizzontale di una contrattazione, che non di rado produce un compromesso.
3. A queste due dimensioni oggi dobbiamo aggiungere una terza, così che la decisione clinica ci appare collocata in uno spazio tridimensionale. Dobbiamo considerare, infatti, anche l'appropriatezza sociale degli interventi sanitari, in una prospettiva di uso ottimale di risorse limitate. Quello che possiamo fare per un malato, anche se valutabile con un punteggio alto sul parametro dell'appropriatezza clinica e su quello delle preferenze personali, potrebbe collocarsi molto in basso rispetto al criterio del buon uso delle risorse.
La buona medicina ci appare così come il frutto di una «contrattazione», che deve tener conto di tre diversi parametri: l'indicazione clinica (il bene del paziente), le preferenze e i valori soggettivi del paziente (il consenso informato) e infine l'appropriatezza sociale.
Il controllo dell'interazione fra questi tre elementi richiede un impegno costante e interventi contemporanei dal lato della domanda, dell'offerta e delle risorse finanziarie disponibili, che comprendono la selezione dei livelli essenziali di assistenza da garantire uniformemente e universalmente, ma includono anche la programmazione dell'offerta e la regolazione delle funzioni svolte a livello individuale dal singolo medico e a livello collettivo.
Ritorniamo così alla distinzione tra macroallocazione e microallocazione.

MACROALLOCAZIONE
Come abbiamo accennato in precedenza, la distribuzione delle risorse si pone a due livelli diversi e complementari: da un lato, sono in questione l’organizzazione dell’assistenza pubblica e la determinazione delle regole generali che devono ispirarne la gestione (macro-allocazione); dall’altro, si tratta di individuare dei criteri per le scelte a cui sono chiamati, quotidianamente, i singoli operatori sanitari, che si trovano a decidere sull’utilizzazione dei mezzi a loro disposizione, a fronte di una richiesta spesso eccedente (micro-allocazione). La conoscenza degli aspetti macroallocativi è fondamentale per la l’analisi dello scenario nel quale ci muoviamo e per la verifica di conformità all’insieme dei principi dell’organizzazione alla quale apparteniamo
Nella macro-allocazione gli interrogativi riguardano innanzitutto la quantità di risorse che gli stati dedicano alla salute, in rapporto ad altri capitoli di bilancio, sia come finanziamento diretto, sia come intervento atto a influire per altre vie sulle condizioni di vita e sulla prevenzione delle malattie, sia come fondi destinati alla ricerca scientifica in questi campi. Gli interrogativi riguardano la percentuale di Prodotto interno lordo (PIL) che un paese deve destinare alla spesa sanitaria e la sua distribuzione fra ricerca, prevenzione e cura; riguarda le modalità di reperimento delle risorse, mediante assicurazioni private o contributi obbligatori o imposte riscosse e amministrate dallo Stato; riguarda, in quest’ultimo caso, i criteri con cui organizzare il sistema sanitario pubblico.

Nella realtà Italiana, la Costituzione sancisce all'art. 32: “La salute è un fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività”.
La legge 833/1978 ha istituito un Servizio sanitario di tipo universalistico nel quale vige il principio della SOGGETTIVITA’ COLLETTIVA, secondo il quale nessun cittadino deve pagare in relazione al suo stato di salute, ma paga in relazione alla sua capacità tributaria (maturata nell’anno precedente). Ciò che viene tratto dal reddito individuale va a finire in un unico contenitore da cui si traggono le risorse per i bisogni di salute.
Nei servizi sanitari ad assicurazione sociale, come l’Italia, in cui l'accesso è garantito a tutti, i fenomeni negativi più visibili sono quelli legati all’insoddisfazione degli utenti ed alle liste di attesa, ma soprattutto al disavanzo dei conti pubblici.
Nell’ultimo decennio numerosi decreti e leggi hanno tentato di riequilibrare il SSN e contenere la spesa sanitaria pubblica o di agire su una più equa distribuzione delle risorse fino alla cosiddetta Riforma Bindi (D.Leg.vo 229) i cui principi generali sono:
1. Dignità della persona umana
2. Bisogno di salute
3. Economicità impiego delle risorse
4. Equità di accesso alla assistenza
5. Qualità ed appropriatezza delle cure
Il Decreto Legislativo 229 introduce un concetto innovativo nel Sistema Sanitario Italiano Livelli Essenziali e Uniformi di Assistenza (LEA), volti ad assicurare a tutti i cittadini prestazioni di provata efficacia, fornite in modo omogeneo sul territorio nazionale. Il compito è impegnativo, e comporta una riflessione approfondita su più livelli: quello scientifico (l'“evidence-based medicine”: quali sono le prestazioni di provata efficacia?), quello etico (quali prestazioni minime assicurare a tutti i cittadini come scelta di civiltà? Sulla base di quali modelli etici generali?), quello economico, quello politico (si pensi al problema del federalismo fiscale) e così via.
I LEA, che pur nell'articolazione specifica hanno una caratterizzazione molto tecnica, sono essenzialmente uno strumento di garanzia politica in quanto mirati a “determinare i livelli essenziali di prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti sul territorio nazionale” (lettera m del nuovo Articolo 117 della Costituzione, uscito dal referendum confirmatorio dell'ottobre scorso). Da questo punto di vista ai LEA viene chiesto molto, forse troppo. Da una parte, infatti, si assegna loro il compito di rappresentare i diritti dei cittadini nei confronti delle istituzioni; dall'altra ci si aspetta che servano a regolare le relazioni tra i governi regionali in un quadro nel quale proprio le regioni si giocano prestigio politico e sostenibilità finanziaria.
Oltre che individuare e creare la lista del LEA, con il D.P.C.M. del 30\11\2001 il Ministro della Salute Sirchia ha sottolineato un altro principio: l'appropriatezza delle prestazioni sanitarie, in termini sia organizzativi sia clinici, privilegiando l'ambito della medicina preventiva e del territorio rispetto ai ricoveri ospedalieri. Per le prestazioni ambulatoriali e, soprattutto, per quelle ospedaliere, si è posta la massima attenzione all'esigenza di individuare modalità di assistenza più appropriate e meno costose. E’ stata individuata una serie di DRG “a rischio di inappropriatezza”: si tratta di 43 tipologie di ricoveri considerati inappropriati in quanto le medesime prestazioni potrebbero essere erogate in altri ambiti, per esempio in regime ambulatoriale. In pratica, in troppi casi gli italiani occupano un letto d’ospedale per interventi che potrebbero essere eseguiti in altri ambiti: in ambulatorio, oppure in day hospital, o, per gli interventi chirurgici meno complessi, in day surgery. I 43 vigilati speciali comprendono la decompressione del tunnel carpale all’ipertensione, dall’artroscopia all’estrazione e riparazione di denti, dall’aterosclerosi alla legatura e stripping di vene. Quarantatré casi di inappropriatezza che costano alle casse dello stato dai 3,62 ai 4,65 miliardi di euro.
Quello su cui è necessario riflettere è che comunque, pur garantendo, sulla base delle scelte di politica sanitaria proprie del nostro Paese fortemente radicate sull'egualitarismo, in realtà si demanda a livello periferico molta parte delle problematiche inerenti il razionamento. Si configura, infatti, anche a livello dell'Azienda Pubblica, sia territoriale che Ospedaliera, la conflittualità tra Economia ed Etica
Ed allora cambiamo dimensione. MICROALLOCAZIONE
La categoria della responsabilità, applicata ai medici italiani in merito alla spesa sanitaria, è una novità che incontra resistenze culturali, in parte giustificate. Il medico, da sempre, è abituato ad un rapporto personale con il paziente e, seguendo il principio ippocratico della beneficità che impone di fare il bene a quel paziente, è estraneo, culturalmente, ai costi del suo intervento ritenuti, giustamente, incommensurabili rispetto alla vita e al ripristino della salute del soggetto malato. Il medico rivendica, quindi, l’autorità morale di essere esentato dalla considerazione dei costi nella sua azione rivolta alla cura della salute. Ogni volta che tratto un malato, soleva dire un illustre clinico dell’inizio del nostro secolo, medico personale del cancelliere Bismarck, io sono solo con lui su un’isola deserta. Oggi, la medicina pubblica non abita più in un’isola, ma nei grandi ospedali e nelle aziende dove le azioni si intersecano e interagiscono tra loro. E’ mia ferma opinione che i medici non possono delegare agli amministratori e ai politici la preoccupazione per gli aspetti economici della sanità, ma devono volgere un ruolo attivo e responsabile.
La categoria della responsabilità non si applica però solo agli operatori sanitari, ma anche ai cittadini – utenti attraverso una rinnovata educazione sanitaria.
D’altra parte quando parliamo di priorità in medicina, ci riferiamo a qualcosa che i medici conoscono bene; non si tratta di un punto di vista estraneo al sapere medico che sarebbe entrato in medicina surrettiziamente, il giorno in cui si è cominciato a parlare di aziende sanitarie. Da sempre, infatti, nel modello dell'etica medica tradizionale c'è stato il problema di fare una lista di priorità:
· in situazioni estreme, quando la scelta ha un valore critico, perché implica la sopravvivenza di qualcuno e la morte di altri – esempio classico la situazione a chiaro valore didattico era quella del campo di battaglia, in cui ci sono molti feriti e un solo medico che deve scegliere chi assistere e chi abbandonare al suo destino. Una situazione estrema di questo genere non appartiene soltanto al passato: nel 1996, infatti, l'Associazione medica mondiale ha elaborato delle linee guida, sotto forma di codici di comportamento, per la “medicina dei disastri”.
· quotidianamente non solo nelle situazioni eccezionali si può parlare anche di criteri di priorità usati. Ogni giorno, quando il medico lavora, in ospedale o nel proprio ambulatorio, deve fare una lista di priorità, mettendo qualcosa o qualcuno al primo posto. Se non altro perché ha una risorsa scarsa da allocare: il suo tempo.
Tutte le questioni relative alla micro-allocazione delle risorse e alla selezione che ne può conseguire nascono solo se si presuppone che vi è una limitazione del bene a cui desiderano accedere più pazienti. In prima istanza appare un allargamento delle risorse che si debbono ritenere distribuibili: non solo spese, tempo del personale sanitario, attrezzature, farmaci, ma anche parti del corpo umano, organi artificiali, organi di altri esseri viventi ecc. Si tratta di una serie molteplice di beni e di risorse che sono sempre più disponibili in sanità. Il problema più difficile, nel distribuire sia l’antico come il nuovo tipo di risorse, rimane tuttavia quello di trovare un criterio convincente in grado di orientare le scelte spesso dolorose, talora drammatiche, a cui gli operatori sanitari sono costretti per la scarsità di fatto delle risorse disponibili.
Quando abbiamo più di un paziente che si reca contemporaneamente o in tempi ravvicinati in Ospedale con una richiesta di cura, sorge il quesito in base al principio di giustizia: “A chi dare la priorità? In base a quali criteri di giustizia possiamo rifarci? Che tipo di giustizia invochiamo?”
Una prima questione è: attribuirle solo ai cittadini italiani?
Oppure anche agli immigrati sprovvisti di cittadinanza? E, tra questi, solo quelli provvisti di un regolare permesso di soggiorno o anche i clandestini? Il già citato art. 32 della Costituzione, parlando della salute come di un “diritto dell’individuo”, sembra prescindere dal possesso della cittadinanza (notiamo che questo è il solo articolo nel quale, in tema di diritti, viene usata la parola individuo anziché cittadino), e avalla l’interpretazione che ne ha dato la legge sull’immigrazione, secondo la quale ogni essere umano, in qualsiasi modo presente sul territorio del nostro Stato, deve essere assistito, se bisognoso di cure.
Un’altra questione è se sia corretto escludere dalle cure sostenute dalla collettività alcune categorie di persone (tossicodipendenti, fumatori affetti da malattie polmonari, alcolisti, infortunati o infetti da HIV “per colpa”), in base alla considerazione che esse sono più o meno responsabili del loro precario stato di salute. Una simile scelta rischierebbe di far pesare su drammi umani un giudizio spietato, in netto contrasto con ogni criterio di solidarietà. A questo argomento se ne può aggiungere un altro, cioè l’impossibilità di attribuire al personale sanitario l’autorità di sanzionare da un punto di vista morale la condotta dei propri pazienti.
Un’altra questione è quoad vitam aut quoad valetudinem? La qualità della vita non è talvolta persino più importante della sua esistenza? Ma la stessa idea di qualità di vita può essere vaga e bisognosa di definizione. Specialmente nel contesto medico sono stati fatti numerosi tentativi di rendere questa nozione rigorosa e precisa. I principali tentativi di definire la qualità della vita sono stati finora tre.
1.Il primo definisce la qualità della vita in funzione dei futuri guadagni del paziente, attesi, salvati o persi dalla persona di cui si tratta.
2.Il secondo si basa sulla disponibilità del soggetto a pagare, per cui la qualità della vita sarà tanto maggiore quanto più le persone saranno disposte a pagare per mantenerla.
3.Il terzo prende in considerazione le variabili costituite dal numero degli anni di vita che presumibilmente restano al paziente e dalle condizioni psico-fisiche in cui questi anni saranno vissuti, e le traduce in precisi termini di misura chiamati QALYs (Quality-Adjusted Life Years), anni di vita valutati secondo la qualità. .
I primi due criteri risultano inadeguati dal punto di vista etico in quanto riducono la qualità della vita a un puro indice di ricchezza. E’ inadeguato anche lo strumento dei QALYs, prima di tutto perché non si possono imporre modelli universali per stabilire quali sono le condizioni che rendono una vita “degna di essere vissuta”. Nessuno può decidere se la qualità della vita di un altro sia tale da renderla priva di dignità e di valore. Persone che hanno dovuto portare il peso di gravissime menomazioni fisiche hanno saputo affrontare questa prova con coraggio e sono stati capaci di dare alla loro esistenza un significato estremamente positivo per sé e per gli altri. Né la società nel suo complesso né i singoli operatori sanitari hanno il diritto di dare giudizi sommari e superficiali, escludendo alcune persone a priori dal godimento di risorse necessarie allo loro sopravvivenza.
Ma allora quali potrebbero essere i criteri distributivi delle preziose risorse sanitarie?
Una prima possibilità è quella della randomizzazione. Basato sull'assoluta casualità sembrerebbe garantire l'effettiva pari opportunità a ogni paziente. Tuttavia molti trovano inaccettabile questa sorta di “lotteria” sulla salute per la cui tutela ogni scelta dovrebbe essere razionalmente elaborata.
Affine al primo ma un po' più selettivo è il criterio della priorità di accesso “chi primo arriva, meglio alloggia” che si realizza con le varie liste di prenotazione e che, se vogliamo, costituisce una forma di giustizia per quanto rudimentale. Essa si basa, tuttavia, su elementi incontrollabili (e come tali “in-giusti”) quali sono le linee telefoniche occupate, il traffico stradale, la maggiore o minore disponibilità di tempo per le code, ecc.
Abbiamo visto già come sia inaccettabile il criterio che punta all'utilità sociale del paziente, per cui lo Stato dovrebbe in qualche modo privilegiare chi può far “buon uso” della sua salute facendone un bene di cui tutti possono usufruire. Naturalmente questo penalizzerebbe tutte quelle categorie la cui salute non costituisce un “bene di consumo” per gli altri come l'anziano o il portatore di handicap.
Uno dei documenti più interessanti e autorevoli su questa questione è quello della American Medical Association (AMA) che, tramite il suo Council on Ethical and Judicial Affairs, si è espressa nel 1995 sulle implicazioni etiche dell’allocazione delle risorse nel campo del trapianto di organi e di altre risorse scarse (fra cui l’accesso alle unità di terapia intensiva). Per analogia lo stesso approccio può essere esteso ad altri ambiti nei quali si pone comunque il problema di determinare le priorità di accesso a risorse scarse e di elevato impatto economico.
In questo documento prima di tutto vengono massimizzati tre obiettivi primari della terapia medica:
1. numero di vite salvate,
2. numero di anni di vita salvati,
3. miglioramento della qualità della vita.
Poi si specificano cinque fattori o criteri legati al cosiddetto medical need (traducibile come necessità mediche [del malato]) che vengono giudicati appropriati quando si deve procedere all’allocazione di risorse scarse. Essi sono:
1. la probabilità del beneficio arrecato;
2. l’impatto del trattamento nel migliorare la qualità di vita;
3. la durata del beneficio arrecato al malato;
4. l’urgenza delle condizioni del paziente;
5. limitatamente ad alcuni casi, l’ammontare delle risorse richieste per la riuscita del trattamento.
Analizzando singolarmente i criteri proposti, circa la valutazione della probabilità di beneficio per il paziente, il documento riconosce l’incertezza degli indicatori prognostici oggi disponibili in gran parte delle situazioni morbose e afferma pertanto che solo differenze molto grandi nella probabilità di trarre un beneficio dal trattamento sono eticamente rilevanti.
Circa il miglioramento della qualità di vita il documento dell’AMA sottolinea giustamente l’impossibilità – come già affermato - di giungere ad una definizione da tutti accettabile, e soprattutto traducibile in termini operazionali, di questo concetto, notoriamente sfuggente, che coinvolge la soggettività del malato e che perciò non si presta a confronti interindividuali; tuttavia suggerisce di utilizzare una definizione, certo riduttiva, basata sullo stato funzionale.
Circa la durata del beneficio ottenuto col trattamento, dato che questa durata è in molti casi in rapporto con l’aspettativa di vita del paziente, sorgono due problemi:.
L’inappropriatezza dell’uso di statistiche generali per stimare l’aspettativa individuale
Il rischio di discriminazione verso le fasce anziane della popolazione
Sul principio dell’urgenza della condizione clinica ritorneremo più avanti in questa relazione, mentre circa l’entità dei costi richiesti per la riuscita dell’intervento medico, l’AMA non esclude a priori che tale criterio possa essere applicato, a parità degli altri requisiti, privilegiando così più pazienti che necessitano di una quantità minore di risorse, invece che uno solo con esigenze economiche maggiori. L’AMA mette però in guardia contro la pratica di non trattare un paziente attuale per risparmiare risorse che potrebbero essere utili a un paziente che potrebbe presentarsi in un prossimo futuro.
Per procedere nelle loro scelta, gli allocatori dovranno stabilire una gerarchia fra gli scopi stessi di una giusta allocazione. In considerazione dell’eguale valore intrinseco di tutte le vite, lo scopo di massimizzare il numero di vite salvate sarà privilegiato, almeno in linea generale.
Una volta presentati i criteri di scelta eticamente accettabili, il documento dell’AMA passa in rassegna una serie di criteri che, benché siano spesso utilizzati negli algoritmi per la valutazione dell’accesso a risorse intrinsecamente scarse, ritiene eticamente inappropriati:
1.la solvibilità del paziente (oggi scarsamente rilevante nella realtà italiana, ma probabilmente di maggiore peso nel prossimo futuro);
2.il contributo (passato) del malato alla vita sociale;
3.gli ostacoli accertati al trattamento (patologie concomitanti, problemi di trasporto, di lingua, etc.);
4.i trascorsi stili di vita del paziente che abbiano contribuito o determinato lo stato patologico attuale (alimentazione disordinata, alcolismo, fumo, etc);
5.il passato utilizzo di preziose risorse sanitarie da parte del paziente per cui, a parità di criteri medici, si privilegerebbe il paziente che non aveva avuto bisogno in precedenza di ricorrere a quelle risorse.
Il criterio che appare più equo e accettabile, anche se esposto al rischio di un certo soggettivismo, è quello di un'adeguata proporzione i criteri: la salute non deve essere bene riservato ai soggetti socialmente utili ma al tempo stesso non deve essere bene “massimale” da porre al di sopra di tutto, individualmente, senza alcuna considerazione per gli altri. Forse possono esserci altre persone che, obiettivamente, hanno più bisogno di quell'organo o di quel letto in rianimazione. Nessuna lotteria, nessun privilegio utilitaristico ma, al tempo stesso, la serena valutazione del bene-salute in rapporto al soggetto che deve riacquistarlo e all'intera collettività che deve distribuire risorse esigue. RAZIONAMENTO PALESE E OCCULTO
Una volta accertata l’inevitabilità del ricorso a scelte anche tragiche nella sanità di oggi, si pone il problema di una giustificazione etica delle decisioni che a esso conseguono. Sulla base delle scelte rese necessarie dalla limitata disponibilità di risorse, le prestazioni verrebbero “razionate”, cioè distribuite secondo vincoli e regole che comportano inevitabilmente l’esclusione parziale o totale di qualcuno dalla fruizione delle prestazioni stesse.
Sul termine stesso “razionamento” molte perplessità sono legittime L’uso di questo termine richiama la situazione rappresentata dalla ridotta disponibilità, in periodi di guerra, di generi alimentari e di altri generi di prima necessità. Esso inoltre prevede un mercato illegale e severamente sanzionato (“mercato nero”). Invece il razionamento associato al libero mercato sanitario consente la fuga dal sistema, e la inequità che ne consegue viene legalizzata. Appare, pertanto, evidente che una convergenza di opinioni si sia venuta a creare circa la necessità che tali scelte avvengano in modo trasparente e concordato (razionamento palese), piuttosto che con dinamiche spontanee e poco controllabili (razionamento occulto). Alla prima modalità infatti è possibile applicare determinanti etici che ne minimizzino gli aspetti di inequità. La seconda è invece priva di riferimenti etici e può essere causa di gravi discriminazioni.
In numerosi paese – soprattutto europei – attraverso l’applicazione di metodologie eticamente corrette sono stati creati criteri di scelta palesi. In Italia sistemi di scelta istituzionalizzati sono
i Livelli equivalenti di Assistenza,
l’appropriatezza delle prestazioni sanitarie.
Non nati allo scopo di razionare, ma che hanno portato con sé come conseguenza della loro applicazione,
il Sistema DRG (conseguenze: contrazione del tempo comunicativo con il malato, deriva economicistica della decisione clinica, privilegio offerto a casistiche più remunerative),
l’attività intramoenia (con la coesistenza nella stessa istituzione di due sfere di attività, quella di servizio per tutti e quelle a pagamento, che possono introdurre elementi discriminatori quali quelli che si correlano all’esistenza di due liste d’attesa, una dilazionata nel tempo e l'altra rapida).
Il razionamento occulto presenta rischi che vanno dall’eccesso di potere personale conferito al medico alla maggiore difficoltà di contenere la spesa sanitaria, oltre alle possibili discriminazioni che possono derivare dall’applicazione di criteri di scelta arbitrari.
Il primo meccanismo è quello del franco diniego della prestazione richiesta. A questo meccanismo si deve il fenomeno dell’emigrazione sanitaria da queste regioni del Sud verso quelle del Centro Nord (minore qualità delle prestazioni – maggiori difficoltà di accesso).
Un altro meccanismo di razionamento occulto è la selezione effettuata direttamente dagli operatori sanitari a vantaggio di pazienti le cui situazioni patologiche offrano maggiori garanzie in termini di riuscita dell’intervento, di minor tempo impiegato, di maggiore significato clinico o di maggiore disponibilità del paziente stesso.
Esiste inoltre la possibilità, definibile come deterrenza che scoraggino il paziente inducendolo a rinunciare alla richiesta, tra le quali possono essere citate le difficili modalità di appuntamenti, o comunque qualsiasi barriera che di fatto renda più arduo l’accesso alla prestazione. Può essere classificata in quest’ambito anche la carenza di informazione chiara e comprensibile sulle modalità di accesso e sul tipo di prestazione. Numerosi studi, anche in Italia, hanno infatti evidenziato la lentezza e la cattiva qualità delle prestazioni ricevute da parte di famiglie a basso tasso di scolarità.
Ben noto è anche il peso del meccanismo di dilazione, il cui esempio più tipico è costituito da liste d’attesa esageratamente lunghe.
A ciò si associa il meccanismo detto di diluizione, cioè le disincentivazioni della domanda che si basano sulla riduzione della qualità percepita (comfort) della prestazione.
Si rileva, a proposito di tutti i meccanismi di razionamento occulto, la possibilità di un loro aggiramento attraverso rapporti di intermediazione che se in taluni casi percorrono vie legittime, in altri (conoscenze, amicizie, protezioni) si configurano come situazioni privilegiate (clientelari), che apparendo ai cittadini come l’unica soluzione possibile per accedere al proprio diritto possono favorire la diffusione di un atteggiamento complessivo di vera e propria “rinuncia sociale” al rispetto delle regole. Tutti questi meccanismi finiscono con il colpire in maggior misura fasce deboli di popolazione come gli anziani e le persone a bassa scolarità, e costituiscono quindi problemi che riguardano direttamente gli aspetti etici legati all’equità.
In attesa del verificarsi di un’auspicabile crescita del dibattito e soprattutto di orientamenti riguardanti le scelte palesi, non può che essere apprezzata la tendenza attuale a limitare gli impatti negativi del razionamento occulto attraverso il ricorso a:
linee-guida,
studi di EBM (evidence-based medicine) in grado di migliorare omogeneamente gli standard decisionali dei medici,
comitati d’etica istituzionali per esaminare e valutare in modo interdisciplinare e pluralistico i criteri microallocativi soprattutto in riferimento alle scelte più delicate.

GLI OSPEDALI NELLE SCELTE MICROALLOCATIVE
A questo punto della nostra storia l’Istituzione ospedaliera è logorata dalla crisi di identità iniziata ormai da decenni e questa identità, su cui ci si continua ad interrogare, è giunta ad un punto cruciale.
La struttura degli Ospedali si stia ormai rimodellando proprio in virtù delle domande che provengono da parte della tipologia delle persone che abitano il nostro mondo. L’avanzare dell’età media delle persone e della popolazione con una minore mortalità in epoca infantile e giovanile, hanno determinato da una parte l’aumento delle malattie degenerative, dall’altro l’aumento di problemi dettati dal disagio psichico e fisico che si crea in una società che, nonostante la globalizzazione, crea continuamente sacche di emarginazione e di povertà – si veda il problema delle numerose persone che migrano dal Terzo Mondo nei Paesi più ricchi. Per questi motivi spesso le richieste di ricovero negli Ospedali provengono da persone anziane con malattie croniche, bisognose più di assistenza infermieristica che medica, e da emarginati, poveri, disadattati, con problemi molto spesso di disagio più psichico e sociale che fisico. Per tutte queste persone, che sono la maggioranza, e per tutte le persone che dovrebbero rivolgersi al medico di famiglia per esporre problemi che spesso sono banali, sarebbe sufficiente creare strutture ambulatoriali e di ricovero ad hoc. Esiste poi tutta una serie di problemi patologici acuti, che qui non stiamo a menzionare, ma fra tutti valga l’esempio di pazienti politraumatizzati o di pazienti altamente critici, quali coloro che sono affetti da eventi cardiovascolari acuti quali l’infarto del miocardio o l’ictus cerebri.
Questi ultimi pazienti sono tra i pochi veri candidati a rivolgersi a quelle Istituzioni, di recente acquisizione, che sono i Dipartimenti di Emergenza e Accettazione, tra l’altro resi da un fortunato serial televisivo dal titolo E.R., acronimo che sta per Emergency Room: anche questo è un segno del nostro tempo. Gli Ospedali stanno così diventando dei grandi pronto soccorso; praticamente l’Ospedale è divenuto già un Dipartimento di Emergenza, spesso ad alta professionalità scientifica e tecnologica, dove i più abili specialisti, internisti, chirurghi, anestesisti e rianimatori, coadiuvati da figure specialistiche aggiuntive, diagnosticano e curano le patologie insorte acutamente, in situazioni di emergenza e urgenza.
Purtroppo, come dicevamo, in mancanza di strutture di supporto, il Pronto Soccorso è attualmente un grande ambulatorio polispecialistico a cui, purtroppo, si rivolgono centinaia e centinaia di persone con i problemi più disparati, spesso anche banali, e non soltanto, come dovrebbe essere, pazienti in situazioni di vera e propria emergenza e urgenza. Si capisce che strutture come queste sono sovraccariche di lavoro forse anche in funzione di quelle potenzialità altamente, ma spesso esse hanno un numero troppo esiguo di professionisti medici e infermieristici e hanno scarsi mezzi per fare fronte alle numerosissime richieste di cura. Nasce così l’esigenza di operare una selezione tra tutti i pazienti che pongono questa stessa domanda di cura. IL TRIAGE
Triage, che in italiano starebbe per selezione, è un termine francese acquisito dalla medicina militare in tempo di guerra, dove sta a significare la selezione dei soldati feriti, il cui ordine di cura è subordinato alle possibilità di ricostituire nel miglior modo possibile e in tempi brevi la forza combattente. Ovviamente in tempo di pace, e sicuramente nell’ambito della medicina non militare, dove non è preso in considerazione il principio di utilità misurato sulla scorta della forza combattente, per rimpinguare la quale è preferibile curare immediatamente il paziente recuperabile o quantomeno che presenti una minore gravità, rispetto ai pazienti più gravi che vengono posposti nella priorità di curare, la selezione dei pazienti e l’attribuzione di una priorità per il loro accesso alle cure mediche presenta una diversa concezione, per quanto valga comunque il principio di utilità, secondo il quale è necessario cercare di salvare e salvaguardare il maggior numero di pazienti. Vedremo in seguito come secondo questo principio non si riesca a salvaguardare il minor numero dei pazienti.
Il paziente appena giunge nel Dipartimento di Emergenza e Accettazione viene accolto e introdotto nella sala del cosiddetto Triage, dove il personale infermieristico o medico sottopone il paziente ad un intervista relativa ai problemi che lo hanno spinto a recarsi in ospedale e ad un controllo di tutti i parametri vitali, in modo da poter decidere la priorità dell’intervento medico. Ormai è divenuto di dominio comune la conoscenza dei codici di selezione effettuati all’arrivo in ospedale. Quando infatti è finita la selezione da parte degli operatori sanitari preposti all’opera, i pazienti vengono classificati con un codice di colore in base alla gravità della situazione. Attualmente si riconoscono 4 gradi di gravità:
1. Rosso;
2. Giallo;
3. Verde;
4. Bianco.
Il colore rosso corrisponde al paziente che giunge in condizioni di estrema gravità, con le funzioni vitali altamente compromesse, se non già in arresto cardiorespiratorio, e rappresenta la priorità assoluta; è la vera emergenza e deve pertanto avere un pronto accesso alle cure mediche.
Il codice giallo rappresenta le urgenze e non può aspettare mediamente più di venti - trenta minuti.
Il codice verde non rappresenta né una emergenza, né una urgenza e può attendere tranquillamente l’intervento dei medici.
Il codice bianco definisce la situazione più lieve e ne decreta la gestione di tipo ambulatoriale del caso; in questo frangente il paziente potrebbe essere rinviato a domicilio con l’indicazione a rivolgersi ad un medico del territorio, ma è buona norma che, comunque sia, il paziente venga visitato, anche se l’attesa è di molte ore.
Si ricorda infatti che comunque il triage è una selezione sommaria che talora viene viziato sia da sottostime sia da sovrastime, e che in ultima analisi la diagnosi medica deve scaturire da una visita approfondita eseguita dal personale specialistico. Quello che spesso ci si potrebbe chiedere è se sia proprio indispensabile eseguire una selezione. Ci si potrebbe chiedere, come fanno molti pazienti ancora oggi, se non sia più appropriato continuare a fare come si faceva fino a pochi anni fa, quando vigeva il criterio del “chi prima arriva, prima alloggia”. Diciamo che di principio sarebbe ideale non selezionare, ma la realtà vuole che il triage sia, almeno per il momento, vista la situazione degli Ospedali delineata in precedenza, e vista la situazione reale della microallocazione delle risorse disponibili, ineludibile
Il quesito clinico allora dovrebbe essere il seguente: “Quale paziente può realmente ricevere un beneficio proporzionato da cure prestate con priorità rispetto ad altro/i ?” Si vede come nella scelta/triage, in cui vi sono espliciti parametri di giudizio clinico, paziente – cure, emerga anche una consapevolezza morale esplicitata da termini/concetti quali: beneficio, proporzionato, altro/i. E’ necessario pertanto che la selezione sia pensata anche, se non soprattutto, eticamente, oltre che clinicamente, ammesso che si possano scindere i due momenti. Ecco perché in molti altri nostri scritti abbiamo sostenuto l’importanza di una formazione che dia ai futuri medici o agli specialisti in formazione, oltre alle competenze scientifiche, anche una adeguata consapevolezza etica.

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