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Attività

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Paolo De Benedetti

Senza animali non c'è Paradiso

Una delle immagini della attesa messianica che più mi turbano è – non ci si scandalizzi – quella di una mosca che si agita contro un vetro. E’ veramente il simbolo di una salvezza che non arriva. E vorrei dire, proprio partendo da questa minuscola e frequente esperienza, che l’attesa è forse lo stato d’animo che unisce tutti gli esseri viventi: non solo l’uomo, non solo gli animali, ma anche le piante, con i loro germogli protesi verso la luce. E’ un’attesa, diciamo pure una speranza, che trova la sua realizzazione talvolta nella vita, talvolta nella morte, e che fa dell’uomo il messia impotente a cui guardano gli animali, quel messia che, nell’Odissea, appare negli occhi del cane di Ulisse, Argo:

“[…] Argo, il cane del costante Odisseo, che un giorno
lo nutrì di sua mano (ma non doveva goderne) […]
ma ora giaceva là, trascurato, partito il padrone,
sul molto letame di muli e buoi, che davanti alle porte
ammucchiavano, perché poi lo portassero
i servi a concimare il grande terreno d’Odisseo;
là giaceva il cane Argo, pieno di zecche.
E allora, come sentì vicino Odisseo,
mosse la coda, abbassò le due orecchie,
ma non poté correre incontro al padrone.
E il padrone, voltandosi, si terse una lagrima […]
E Argo la moira di nera morte afferrò
appena rivisto Odisseo, dopo vent’anni”

(Canto XVII, versione di Rosa Calzecchi Onesti).

Forse, il rapporto uomo-animale raggiunge la sua forma più sublime proprio nella morte: l’”Agnello di Dio” è l’immagine che meglio rappresenta l’unione tra il divino e l’animale attraverso la morte. Ma sono innumerevoli, nella Bibbia, i riferimenti, i precetti, i simboli legati al mondo animale, a partire dal racconto della creazione, in cui Dio, dopo aver creato “tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati, secondo la loro specie, […] vide che era cosa buona. Dio li benedisse: ‘Siate fecondi e moltiplicatevi […]’” (Gen 1,21-22). Si potrebbe dire che la benedizione divina degli animali perdurerà dalla creazione fino alla fine dei tempi, quando ritroveremo gli animali nella vita eterna. Perché – anche se la teologia ha gravemente trascurato questo aspetto – occorre riconoscere “con fede piena” la resurrezione di tutto ciò che ha avuto la vita, animali e piante. Se ciò non avvenisse, bisognerebbe riconoscere che la morte è più potente di Dio, che la morte vince in eterno la vita. Come scrisse Giovanni Calvino, “non vi è alcun elemento né alcuna particella del mondo che, quasi consapevole della sua presente miseria, non speri nella resurrezione”.
Anche sotto questo aspetto, c’è una comunione di origine e destino tra l’uomo e gli animali, che deve essere vissuta nell’esistenza quotidiana. Ecco perché sono fondamentali tutti i precetti che nella Bibbia riguardano il nostro rapporto con gli animali, e che non sono soltanto affermazioni teologiche, ma regole per la vita di ogni giorno. Alcuni esempi:
“Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo” (Es 23,45; cf. Dt 22,13).
“Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero che sta entro le tue porte...” (Dt 5,13-14; Cf. Es 20,10).
“Quando nascerà un vitello o un agnello o un capretto, starà sette giorni sotto la rnadre; dall’ottavo giorno in poi, sarà gradito come vittima da consumare con il fuoco per il Signore” (Lv 22,26-27; Cf. Es 22,28-29).
“Non scannerete vacca o pecora lo stesso giorno con il suo piccolo” (Lv 22, 28).
“Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre” (Es 23,19; cf. Es 34, 26; Dt 14,21).
“Non devi arare con un bue e con un asino aggiogati insieme” (Dt 22,10).
“Non metterai la museruola al bue, mentre sta trebbiando” (Dt 25,4).
Queste e molte altre norme contenute nella Torà mostrano un rispetto per gli animali che tuttavia non ne esclude l’uso alimentare. Però la Torà e tutta la tradizione ebraica successiva vietano nel modo più assoluto l’uso del sangue degli animali: “Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le verdi erbe. Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue” (Gen 9,3-4). Poiché il sangue, come qui è detto, contiene la vita, cioè l’anima, è riservato a Dio: ciò significa che, pur consentendo dopo il diluvio di cibarsi di carne (e questo è un segno del pessimismo divino verso l’uomo), Dio si riprende l’anima degli animali macellati. Anche per essi c’è dunque un’altra vita.
Ma occorre anche aggiungere che la macellazione deve compiersi senza la sofferenza dell’animale: in caso contrario è vietato nutrirsene. E l’uomo non deve comunque consumare il proprio pasto senza prima aver dato da mangiare all’animale (Berakhot 40a). E proprio il nutrire gli animali, secondo un midrash (al salmo 37), è stato, per Noè e la sua famiglia nell’arca, il merito che ne ha determinato la salvezza. Secondo una leggenda, Noè è uscito salvo dall’arca per la carità praticata verso gli animali da lui ospitati: “Non dormivamo, ma davamo a ciascuno il suo cibo durante tutta la notte”. Ma che tutta la Torà ci spinga a considerare gli animali (e le piante, aggiungo io) come nostro prossimo, emerge anche da un passo talmudico, in cui gli animali sono non solo nostro prossimo, ma nostri maestri: “Se non ci fosse stata data come guida la Torà, avremmo potuto imparare la modestia dal gatto, l’onestà dalla formica, la castità dalla colomba, e le buone maniere dal gallo” (Eruvin 100b).
Del resto, in Romani 8,19 ss., San Paolo afferma che “Tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto”: e proprio per questo il Paradiso è una meta per tutto ciò che respira, per la mosca contro il vetro come per il mistico, per il fiore come per la colomba (a sua volta immagine divina). Mi sia consentito concludere citando una breve poesia che ho scritto per la morte di un cane malato:

“Bobi, che su nel cielo
muovi la coda a Dio,
essere amato e amare
è stata la tua sorte
in vita come in morte.
Ora, ti prego, insegnaci
a varcar quella porta
mentre si fa più corta
la nostra attesa; e un filo
di luce dal tuo pelo
ci guidi a ritrovarti
nel prato di asfodelo”.

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