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La Chiesa Cattolica, l’alimentazione artificiale e lo stato vegetativo permanente

Lorenzo De Caprio e Mauro Fusco

Se uno dice che gli uomini sono macchine costui suscitando il plauso generale rischia anche di passare per un grande scienziato. Ma se uno dice d’essere lui stesso una macchina ( ed in un impeto di encomiabile coerenza incomincia a correre avanti e indietro facendo ciuff ciuff come un treno), costui “di solito” viene preso per pazzo. Ma se consideriamo pazzi gli individui che si sentono automi, automobili, locomotive etc. etc., perché “di solito” non consideriamo pazzesca una teoria, come quella medica, che considera le persone come macchine; una teoria dove il loro corpo è visualizzato come un semplice meccanismo in grado di rispondere solo ad uno sguardo fisico o chimico.
R.D.Laing, L’Io diviso, 1959.

Se X incontra il caro e vecchio amico Y, lo porterà al bar e gli offrirà da bere; Y, da parte sua, inviterà X a cena e gli darà da mangiare. Questo per dire che il dar da bere e da mangiare non sono atti che si esauriscono in ciò che materialmente danno, ma azioni rituali cariche di valori e significati[1]. Gesti normali, dovuti a chi ci è amico, a chi vogliamo bene. Riti grazie ai quali nell’ordinario della vita diciamo all’altro: «ti sono amico, puoi contare nel momento del bisogno sul mio aiuto». Nel rito dell’invito e dell’ offerta, la tazzina di caffé ed il piatto di spaghetti assumono quel valore simbolico che consente ad X ed Y di darsi reciproca testimonianza della solidarietà che v’è tra loro, della stima, dell’affetto, dell’amicizia che provano l’uno per l’altro.
Ma se per troppa amicizia X offrisse il caffé ad Y per via endovenosa, o ricorresse ad una pompa di perfusione, o applicasse un sondino nasogastrico, od in segno estremo di illimitata solidarietà gli facesse un bel buco nella pancia, l’atto d’amore si tramuterebbe in violenza.
L’alimentazione e l’idratazione artificiale possono configurarsi come tecniche mediche in quanto infrangono l’inviolabilità del corpo ed espongono il paziente a rischi ed effetti collaterali? Oppure, si collocano solo nella dimensione della “normale” assistenza, della “dovuta”, “ordinaria” solidarietà tra umani? La questione non è di lana caprina come può sembrare, infatti sulla “natura” di queste ambivalenti procedure si scontrano due visioni del mondo, due rappresentazioni dell’uomo, due concezioni della vita.
Chi esclude ogni valore simbolico, sostiene che la nutrizione artificiale non è per sua natura diversa da una qualunque altra procedura interventistica e laicamente conclude che deve essere sottoposta alle leggi che regolano tutte le tecniche mediche. Non va iniziata e/o deve essere interrotta in caso di rifiuto in qualunque momento espresso dal malato e/o quando si rivela del tutto inefficace ai fini del miglioramento clinico del paziente, come nei casi di stato vegetativo permanente. “Pena”: l’abuso laico-cattolico dell’accanimento terapeutico.
Al contrario quelli che dimenticano l’invasività ed i rischi della nutrizione artificiale ne enfatizzano il significato simbolico-morale e di conseguenza affermano che l’alimentazione e l’idratazione artificiale sono “normali”, “ordinarie” azioni assistenziali: atti “dovuti” che per caritatevole natura sono ben diversi da qualunque altra procedura “salvavita”, si trattasse anche della rianimazione cardiorespiratoria.
Tecnologie, quelle nutrizionali, che, riattualizzando in chiave tecnologica gli obblighi umani del catalogo misericordioso, si situano in una dimensione particolare, “altra” nell’ambito di tutte le procedure sanitarie. In alto collocate, circondate da un’aura che osiamo definire sacrale, queste complesse tecniche naturalmente sfuggono alle leggi che nell’ordinario disciplinano e limitano le altre profane procedure.
Gli aggettivi “normale”, “ordinario” le rendono benevole, innocenti e fanno sì che il trattamento non possa proprio esitare nel colpevole accanimento terapeutico, privilegio invece concesso alle tecniche definite “straordinarie”. Ed ancora c’è da domandarsi se, per caso, davanti a tanta innocenza non vengano tanto il principio d’autonomia del paziente, quanto il valore di un meditato giudizio clinico.
Ma non solo, questa prospettiva fa sua, quasi trasfigurandola in verità di fede, la rappresentazione della vita che nella società della tecno-scienza va per la maggiore: la definizione materialistica e meccanicistica che schiaccia la vita umana nella mera biologia.
Dati questi presupposti, non deve sorprendere che la nutrizione artificiale debba essere messa in atto e continuata costi quello che costi. Pena: la fine di quelle reazioni fisico-chimiche che de-finiscono e sono la vita dell’uomo, dunque la morte della persona, ovvero l’eutanasia, anzi: l’omicidio volontario.
Così segnata fin dal principio, la disputa sulla natura dell’alimentazione ed idratazione artificiale si avvia all’inconcludente destino di quella sul sesso degli angeli. In effetti, i due schieramenti non hanno nulla su cui discutere, nemmeno su uno straccio d’argomento possono accordarsi. Non resta loro che affidarsi al randello. Oppure, possono sperare che il famoso fiume porti loro un bel giorno il cadavere del nemico.
In questo scenario, che lascia ben poche speranze alla possibilità di un dibattito che non solo sia proficuo ma che sia quantomeno sereno, si inseriscono le tormentate vicende umane e giudiziarie che hanno, negli ultimi anni, spostato le riflessioni etiche sopra sinteticamente riportate nelle meno consone sedi delle aule di tribunale: ovvero i “casi” Terri Schiavo ed Eluana Englaro.
Si tratta invero di due vicende assolutamente similari, con due giovani donne, entrambe in stato vegetativo permanente, la cui esistenza terrena, senza coscienza e senza possibilità di recupero era, e, per Eluana, è ancora oggi, legata alla prosecuzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale. Come è senz’altro noto a chi si occupa di problematiche di fine vita, lo stato vegetativo consiste un quadro clinico caratterizzato da: nessun indizio di consapevolezza di sé, dell'ambiente e di capacità di interagire con gli altri; nessuna risposta comportamentale riproducibile, finalistica o volontaria a stimoli visivi, uditivi, tattili o dolorifici; nessun indizio di comprensione del linguaggio altrui; presenza di un ciclo intermittente di sonno-veglia (che lo distingue dal coma); conservazione sufficiente delle funzioni dell’ipotalamo e del tronco encefalico tale da permettere la sopravvivenza con semplici cure mediche e assistenza infermieristica; in genere incontinenza urinaria e fecale; conservazione almeno parziale dei riflessi cranici[2]. Esso può essere una condizione transitoria o protratta nel tempo: si parla a tal proposito di stato vegetativo persistente, quando esso dura oltre un mese, mentre si configura come permanente o irreversibile quando tale condizione perdura da oltre 12 mesi. Sia nel caso di Terri che in quello di Eluana, tale stato ha avuto una durata di ben 15 anni (e per Eluana continua ancora), senza possibilità di errore sull’irreversibilità dello stesso e sull’assenza di qualsivoglia speranza di riacquistare le funzioni cerebrali legate alla consapevolezza di sé.
Per quanto riguarda Terri Schiavo, dopo una lunga battaglia giudiziaria intrapresa dal marito Michael e durata dal 1998 al 2005 con oltre quaranta ricorsi e diversi interventi del Congresso, della Corte Suprema e del presidente G.W. Bush in persona[3], l’alimentazione artificiale venne sospesa dopo l’accertamento giudiziario della volontà della donna manifestata prima del collasso che ne aveva causato la perdita di coscienza quindici anni prima. Nonostante la strenua opposizione dei genitori e dei movimenti pro life, Terri Schiavo morì il 31 marzo 2005 dopo quattordici giorni senza nutrimento.
Sorprendentemente affine, per la situazione clinica e per il contenzioso giudiziario che ne è scaturito, è il caso di Eluana Englaro, la giovane di Lecco che dal 1992 versa in stato vegetativo permanente in seguito ad incidente stradale, e per la quale il padre Beppe Englaro ha intrapreso una dura battaglia legale molto simile a quella di Michael Schiavo, chiedendo da otto anni l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali. Sul punto l’ultimo, ma soltanto in senso cronologico, capitolo della tormentata vicenda umana e giudiziaria di Eluana è stato scritto dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 21748 del 16 ottobre scorso, nella quale si leggono una serie di indicazioni utili in materia di alimentazione artificiale e stato vegetativo permanente sulle quali vale la pena di riflettere.
In estrema sintesi[4] la Suprema Corte ha affermato che “non v’è dubbio che l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento sanitario. Esse, infatti, integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati come composto chimico implicanti procedure tecnologiche. Siffatta qualificazione è, del resto, convalidata dalla comunità scientifica internazionale”. La Corte precisa inoltre che l’alimentazione e l’idratazione artificiali, non costituiscono di per sé una forma di accanimento terapeutico ma, proprio per la loro qualità di trattamento medico, e non “ordinario mezzo di sostentamento”, sono liberamente rifiutabili dall’interessato o dal suo rappresentante legale.
Così configurata, la questione viene spostata dal campo, sicuramente minato, del “rischio di eutanasia” a quello, senz’altro meno controverso almeno in campo giuridico, della tutela dell’autonomia del paziente e del consenso, rectius dissenso, informato all’atto medico. In tal modo il problema sembra quasi finanche avvicinarsi ad una prima chimera di soluzione, almeno sotto il profilo strettamente giuridico. Sul punto la Corte è fin troppo chiara nell’affermare che “il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale”.
L’analisi delle argomentazioni della Cassazione che, in assenza di legge, stabiliscono precisi criteri per la legittimità della sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione artificiali, assumono una valenza del tutto particolare se si considera che le stesse vanno in una direzione sostanzialmente di versa rispetto alla recente nota di commento[5] dell’1.8.2007 redatta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede in risposta ad alcuni quesiti formulati dalla Conferenza Episcopale statunitense. In tale documento, pubblicato solo pochi mesi prima della decisione della Suprema Corte, veniva innanzitutto ribadita la natura “ordinaria” delle tecniche d’alimentazione ed idratazione artificiale ed è stato sostenuto che una volta messe in essere, le stesse vanno proseguite ad oltranza anche in pazienti in irreversibile “stato vegetativo”, come Terri Schiavo ed Eluana Englaro.
I commentatori di parte cattolica[6] e laica[7] hanno a riguardo sottolineato (con plauso e riprovazione a seconda i casi) come la dichiarazione non rappresentasse affatto una novità e come fosse coerente con quanto precedentemente espresso in materia. Il che è vero, ma non proprio del tutto, se è vero com’è vero che “il diavolo si nasconde nei particolari”.
La dichiarazione in quanto tale non ha colto di sorpresa chi sperava e continua a sperare in un ragionevole compromesso. Quello che ha destato perplessità è stato il suo tono rigido più che fermo, tono che promette una svolta politica tesa ad escludere a priori ogni accordo sulle problematiche di fine vita. Compromesso che era prima, almeno in via teorica, possibile visto che Pio XII aveva nel discorso al congresso di Anestesiologia del 1957 introdotto limiti al ricorso a tutte le tecniche “salvavita”. Limiti di cui la dichiarazione del 1° agosto scorso non tiene più conto.
Da “Avvenire”[8]: « In favore della possibilità di rinunciare all’alimentazione ed all’idratazione …si invoca spesso il Discorso di Pio XII…. In esso il Pontefice ribadiva due principi etici generali. Da una parte la ragione naturale e la morale cristiana insegnano che, in caso di malattia grave, il paziente e coloro che lo curano hanno il diritto e il dovere di mettere in atto le cure necessarie per conservare la salute e la vita. D’altra parte, tale dovere comprende generalmente solo l’utilizzo di mezzi…ordinari, che non impongono un onere straordinario per il paziente…». Invece: tutto fa pensare che ai pazienti in stato vegetativo debba essere applicata la prima parte del principio formulato da Pio XII. Questo in base 1): alle caratteristiche cliniche dello stato vegetativo ( il paziente cerebroleso, del tutto privo di coscienza, è incapace d’alimentarsi, ma pur sempre respira autonomamente); e 2), della diffusione e disponibilità di queste tecniche e del loro basso costo d’esercizio.
Ma quale era, prima, la posizione della Chiesa? Questa arcigna e problematica etica del “dovere” ha forse conosciuto in passato sfumature, limiti od eccezioni?
Per farsi, o cercare di farsi, un opinione in merito incominciamo dalla “Carta degli Operatori Sanitari”[9]. Dalla lettura del testo emergono evidenti i particolari che fanno la differenza.
1°), No all’ accanimento terapeutico:
“La medicina odierna dispone infatti di mezzi in grado di ritardare artificialmente la morte, senza che il paziente riceva un reale beneficio. E’ semplicemente mantenuto in vita o si riesce solo a protrargli di qualche tempo la vita, a prezzo di ulteriori e dure sofferenze. Si determina in tal caso il cosiddetto accanimento terapeutico consistente “nell’uso di mezzi particolarmente sfibranti e pesanti per il malato condannandolo di fatto ad un’agonia prolungata artificialmente.
Ciò contrasta con la dignità del morente e con il compito morale di accettare la morte e lasciare in che essa faccia il suo corso. «La morte è un inevitabile fatto della vita umana»; non la si può ritardare inutilmente, rifuggendola.
Nessun commento su un punto sul quale si è tutti d’accordo.
2°), Principio della proporzionalità nelle cure:
Consapevole di non essere «né il signore della vita, né il conquistatore della morte», l’operatore sanitario, nella valutazione dei mezzi, «deve fare le opportune scelte, cioè rapportarsi con il paziente e lasciarsi determinare dalle sue reali condizioni».
Egli applica qui il principio della «proporzionalità nelle cure», il quale viene così a precisarsi: «Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi. Perciò il medico non ha motivo d’angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo».
L’alimentazione e l’idratazione, anche artificialmente amministrate, rientrano tra le cure normali dovute sempre all’ammalato quando non risultino gravose per lui: la loro indebita sospensione può avere il significato di vera e propria eutanasia.
Il medico, prescrive la Carta, anzi l’operatore sanitario (riferimento alle professioni infermieristiche?), deve rapportarsi con il paziente, (accoglimento implicito del principio d’autonomia) e lasciarsi determinare nelle sue decisioni dalle sue reali condizioni (riconoscimento implicito del valore del giudizio clinico). Si valuti in proposito questa interpretazione: l’operatore sanitario deve porsi il problema della reale efficacia terapeutica dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale. Queste tecniche vanno intraprese, sono atti normali, atti dovuti poiché rientrano nella “norma” dell’assistenza, ma vanno intraprese solo a condizione che non risultino gravose per il paziente. Solo quando l’alimentazione e l’idratazione vengono interrotte arbitrariamente, vale a dire senza un fondato giudizio clinico, o senza richiesta del paziente: la loro sospensione può avere il significato di vera e propria eutanasia.
Perché qui viene usato il verbo “potere”? Se l’alimentazione e l’idratazione artificiale sono atti “normali, dovuti sempre all’ammalato, la loro indebita sospensione è vera e propria eutanasia. Il terzo punto: Cura rispettosa del vivere e del morire chiarisce le perplessità.
Per il medico e i suoi collaboratori non si tratta di decidere della vita e della morte di un individuo. Si tratta semplicemente di essere medico, ossia d’interrogarsi e decidere in scienza e coscienza, la cura rispettosa del vivere e del morire dell’ammalato. Questa responsabilità non esige il ricorso sempre e comunque ad ogni mezzo. Può anche richiedere di rinunciare a dei mezzi…Può anche voler dire il rispetto della volontà dell’ammalato che rifiutasse l’impiego di taluni mezzi.
Sul punto va senz’altro rilevato che il rifiuto esplicito dell’accanimento terapeutico, il rispetto esplicito dell’autonomia del paziente ed il principio altrettanto esplicito della proporzionalità della cura introducevano delle eccezioni che limitavano, mitigavano, sfumavano l’applicazione intransigente dell’etica del dovere. Partendo da tale presupposto non resta che tornare al recente richiamo della Santa Sede nelle Risposte a quesiti della Conferenza episcopale statunitense circa l’alimentazione e l’idratazione artificiale[10].
Primo Quesito: E’ moralmente obbligatoria la somministrazione di cibo ed acqua (per vie naturali oppure artificiali) al paziente in “stato vegetativo”, a meno che questi alimenti non possano essere assimilati dal corpo del paziente oppure non gli possano essere somministrati senza causare un rilevante disagio fisico.
Risposta: Si. La somministrazione di cibo ed acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento al paziente. In tal modo si evitano le sofferenze e la morte dovute all’inazione ed alla disidratazione.
E’ interessante notare che nella “Risposta” non si fa riferimento alla questione del “rilevante disagio fisico” e, molto più importante, si afferma che l’alimentazione e l’idratazione artificiale si giustificano moralmente da sole, visto che hanno come finalità quello di alimentare e idratare il paziente in stato vegetativo ai fini di evitargli 1) sofferenze che è più che dubbio possa percepire (soprattutto nello stato vegetativo), e 2) la morte, consentendogli una sopravvivenza che non può per gli stessi motivi apprezzare. Senza considerare la palese difformità con la recente pronuncia di Cassazione, è più che lecito domandarsi: questa affermazione è o non è in contraddizione con la condanna dell’accanimento?
Secondo quesito: Se il nutrimento e l’idratazione vengono forniti per vie artificiali a un paziente in “stato vegetativo permanente” possono essere interrotti quando medici competenti giudicano con certezza morale che il paziente non recupererà mai la coscienza?
Risposta: No un paziente in <> è una persona, con la sua dignità fondamentale alla quale sono perciò dovute le cure ordinarie e proporzionate che comprendono, in linea di principio, la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali.
Se si legge con attenzione il testo si evince immediatamente che la parola “persona” non compare nella domanda ma solo nella risposta e ciò non senza ragione. Il ricorso a questo termine appare come logica applicazione della concezione che attribuisce all’embrione lo status di personalità giuridica titolare d’inalienabili diritti e lo protegge dalle omicide manipolazioni degli scienziati. Si può ragionevolmente supporre che lo si sia qui introdotto per gli stessi motivi: a studiata protezione di tutti i pazienti che una patologia od un’altra ha privato della coscienza. Per essere più chiari, col termine persona la Chiesa manda a dire che considererà eutanasia, cioè vero e proprio omicidio, ogni interruzione per qualunque motivo dell’alimentazione ed idratazione artificiale in pazienti come Eluana Englaro. In proposito si osserva che il sillogismo, apparentemente inattaccabile, in base al quale considerare il destinatario dell’interruzione come persona comporti inevitabilmente che l’interruzione debba necessariamente essere considerata omicidio, perde oggi, almeno sotto il profilo strettamente giuridico, gran parte della sua efficacia, a causa della rinnovata e rafforzata valenza dell’autonomia dell’individuo e del rispetto della sua volontà nella recente giurisprudenza delle corti di merito e di legittimità.
Sotto un diverso aspetto, la recente posizione della Chiesa Cattolica può assumere la diversa valenza di un fermo “altolà” nei confronti di quelli che sostengono l’abbandono della morte cerebrale in medicina a favore dell’introduzione del più energico criterio di morte corticale. Medici, bioeticisti, filosofi morali che sostengono che per dichiarare morta una persona non c’è bisogno che tutto il cervello (corteccia e strutture sottocorticali) sia irreversibilmente danneggiato. Basta invece che una qualunque patologia, compromettendo in modo definitivo la sola corteccia, determini la perdita della coscienza e, per automatismo, la morte della persona.
Con questo non si intende negare al paziente in stato vegetativo i diritti della “persona”. Il punto qui non è se un vivente umano senza più corteccia cerebrale, ragione, sensorio e coscienza debba o non debba essere considerato “persona”. Il punto è un altro ed è una contraddizione. Chi decide e perché se a questa “persona” debba essere adesso negato quel diritto di morire in pace che prima la Santa Sede riconosceva alla “persona” del paziente proprio in virtù del fatto d’essere “persona”?
Sembra evidente che rispetto alla “Carta” il senso del principio di “proporzionalità delle cure” sia qui come stravolto; che tutto, in altri termini, vada nella direzione di una curiosa, inedita, pericolosa sacralizzazione tecnocratica. Questo accade perché l’ordinaria opera di carità, il dovuto atto di normale solidarietà umana sfugge ai limiti chiaramente indicati nella Carta. L’alimentazione e l’idratazione artificiale non sono più procedure che trovano giustificazione scientifica, senso umano e valore morale quando condotte nel rispetto dell’autonomia del paziente e della sua efficacia nel miglioramento del quadro clinico. L’atto dovuto si trasfigura in un operare tecnico che nell’azione tecnicamente efficace di alimentare ed idratare si assolve, si giustifica e si sacralizza e questo senza considerazione dei vantaggi che la persona ne può ricevere. Insomma, c’è da temere che l’istituzione “spirituale” abbia del tutto introiettato e si avvii rapida a sacralizzare il dogma più ortodosso di quella società della Tecnica che pure su altri versanti aspramente combatte: «Lo possiamo fare, dunque lo vogliamo fare, dunque lo dobbiamo fare, dunque lo facciamo».
Questa personale considerazione è giustificata dal seguente passaggio: «Nell’affermare che la somministrazione di cibo ed acqua è moralmente obbligatoria in linea di principio, la Congregazione per la dottrina della fede non esclude che in qualche regione molto isolata o di estrema povertà l’alimentazione e l’idratazione artificiale possano non essere fisicamente disponibili, e allora “ad impossibilia nemo tenetur”…Non si esclude neppure che, per complicazioni sopraggiunte, il paziente possa non riuscire ad assimilare il cibo, diventando così inutile la loro somministrazione. Infine, non si scarta assolutamente la possibilità che in qualche raro caso l’alimentazione e l’idratazione artificiale possano comportare per il paziente un’eccessiva gravosità o un rilevante disagio fisico…»[11].
Nel testo nessun riferimento all’ accanimento terapeutico e, più importante, nessun riferimento al principio, accettato dalla Chiesa Cattolica, dell’autonomia del paziente. Da qui, è facile profetizzare che la dichiarazione pontificia avrà tra le sue prime attese ricadute politiche, quella di ostacolare definitivamente l’iter legislativo del cosiddetto testamento biologico; c’è solo da chiedersi se in nome della sacralità della vita o della sacralità delle tecnologie “salvavita”.
Trattandosi di pazienti privi di coscienza (e capacità sensoriali!) non è chiaro a cosa vogliano alludere le espressioni: “eccessiva gravosità” e “rilevante disagio fisico”. Chi decide della “gravosità”? Chi stabilisce quando “in qualche raro caso” questa diventa “eccessiva”? Chi “in qualche raro caso” giudica “rilevante” il disagio fisico? Con quali strumenti lo si quantifica? Qual è la soglia oltre la quale la misura del disagio fisico avverte che è “rilevante” per il paziente?
La Chiesa, in realtà, stabilisce che i limiti alle tecniche nutrizionali debbano essere unicamente di natura strumentale, vale a dire dati: 1) dalla disponibilità della tecnica e 2) dalla efficacia della tecnica. Posizione in perfetta coerenza con l’ethos imperante nella società della Tecnica, per la quale la disponibilità fisica di una qualunque tecnologia obbliga moralmente ad usarla, e questo senza riguardo ai reali vantaggi ed alle conseguenze.
In chiave dolorosamente pessimistica c’è da temere che anche la Chiesa si sia convinta che la Tecnica è più forte della Necessità. Si direbbe che anche l’istituzione religiosa abbia subito e subisca la fascinazione discreta di tecnologie che sembrano ad essa promettere e permettere la realizzazione incondizionata di un sogno vecchio quanto l’uomo. Il grido paolino: “dov’è, Morte, il tuo pungiglione?” oggi si è concretizzato. E’ realtà tangibile grazie al ricorso a tecnologie in grado di proporci aggiornata e corretta la miracolosa resuscitation di Lazzaro.
Non a caso usiamo un termine come ri-animazione che rimanda alla concezione che interpreta la morte come separazione dell’anima dal corpo. Non per caso nella letteratura medica di lingua inglese si ricorre al termine resuscitation: (resuscitazione, resurrezione) alludendo alla reversibilità della morte.
Non più sorvegliate e limitate dalla Morale, queste potenti tecnologie, come tutte le tecnologie, sono in grado di rendere “razionale” le non-libertà dell’uomo, non-libertà che esse stesse determinano. Esse creano situazioni in cui è per gli uomini razionalmente impossibile essere autonomi. In altre parole, decidere contro la Ragione Tecnica: «le tecniche ci sono, sono disponibili e funzionano, sarebbe dunque irrazionale non usarle». La prospettiva realistica, dunque razionale, di artificiali stati di “vita eterna” per artificio della Tecnica fa sì che oggi nessuno possa, dunque debba, decidere della propria vita e della propria morte.
Queste critiche non sono nuove. Nel suo The Troubled Dream of Life [12] Daniel Callahan si chiede se sia realisticamente possibile sottrarre la morte dell’uomo alla longa manus della ragione strumentale. L’autore non propone affatto di rinunciare alle opportunità offerte dalle tecnologie “salvavita”, ma nemmeno s’illude che possano essere evitati i prodotti collaterali od indesiderati di queste stesse strumentazioni; vale a dire la morte cerebrale, il coma irreversibile, lo stato vegetativo permanente. Callahan utopisticamente sembra auspicare[13], in conclusione, un ritorno ad una medicina ispirata da un ethos di tipo ippocratico: una techne che ricollochi al centro dei suoi interessi l’umana sofferenza, che si ponga dei limiti, smettendo una volta e per tutta di fare della lotta alla morte il suo esclusivo e simbolico obiettivo.
Da un punto di vista storico è senz’altro vero che il fine di salvare ad ogni costo vite umane è un prodotto della Modernità, ma dobbiamo tener conto che questo obiettivo da teorico che era, è diventato realtà tangibile grazie alle recenti tecnologie, e che si è andato radicalizzando con il crescere della loro disponibilità. Nello stesso tempo la dilatazione irrazionale dell’area applicativa di queste strumentazioni ha prodotto a dismisura quei malati che Galimberti ha con sdegnata efficacia definito: cadaveri resuscitati dal sapere scientifico[14].
«Certo molte persone vengono salvate…ma in un numero non piccolo di casi avviene qualcosa di imprevisto. Sul finire degli anni ’50 cominciano ad osservarsi casi mai visti prima di allora…Individui colpiti da gravissime lesioni cerebrali…una volta sottoposti a ventilazione meccanica anziché di morire rapidamente, come in passato, rimangono in uno stato di completa incoscienza e non mostrano alcun segno di attività nervosa». Vivono, se volete, ma di una inedita vita macchina-dipendente. «Essi non presentano nessuna risposta agli stimoli esterni, non respirano autonomamente e sono privi dei meccanismi omeostatici…»[15].
Per reazione nella società civile sono sorte e si sono andate facendo più forti le pressioni a favore della cosiddetta eutanasia.
Che cosa sarebbe avvenuto? Secondo Callahan da quando prolungare la vita rinviando la morte è diventato possibile, il medico ha introiettato l’obbligo morale di “fare tutto il possibile”. La morte, che in passato era un evento naturale, è diventato un male morale. A complicare ed aggravare questa tendenza, il supposto imperativo medico di salvare comunque una vita si è saldato con l’imperativo tecnologico, tipico della società contemporanea: se esiste una tecnologia, essa deve essere impiegata. Si è verificata inoltre, in modo spontaneo e non programmato, la saldatura tra la posizione tradizionalista della “sacralità della vita” e gli imperativi medico-tecnologici[16].
Callahan sostiene che la dottrina cattolica dei mezzi ordinari e straordinari tende ora ad essere applicata in modo acritico, come se i “costi” del trattamento riguardassero solo il trattamento e non le sue conseguenze: altre critiche ai moralisti che rigettano le considerazioni riguardanti la qualità della vita. Concetto senz’altro ambiguo, ma che, estratto dal contesto clinico in cui usato, viene arbitrariamente generalizzato e nazificato. Nulla di sorprendente se il concetto di per sé ambiguo si trasfiguri in cosa pericolosa.
Altre contraddizioni sono state sottolineate dai commentatori così che la dichiarazione pontificia, a conti fatti, solleva più dubbi e perplessità di quanti ne abbia voluto risolvere. Se questa è sempre stata la posizione della Chiesa, perché, si è scritto, non è intervenuta apertamente e con decisione nel caso Terri Schiavo? Come è potuto accadere che Giovanni Paolo II si sia lasciato morire o sia stato lasciato morire?
Non è il caso, in questa sede di soffermarsi su queste sottili e non gratuite provocazioni, ci si limiterà pertanto a mettere in evidenza due ulteriori possibili contraddizioni. La prima riguarda le tecnologie di inizio vita, la seconda quelle di fine vita.
Se, come più che autorevolmente è stato dichiarato, la morte fa parte integrante della vita, se la morte è un evento naturale al pari del concepimento e della nascita, perché è lecito intervenire tecnicamente sull’evento naturale morte ed è proibito nel modo più assoluto interferire tecnicamente con i naturali processi di inizio vita? In nome di quale teo-tecnologia dovremmo rispettare la naturalità dell’inizio della vita e non quella della fine della vita?
Se accettiamo che sia la Natura a determinare il destino dell’uomo e che l’uomo non possa far altro che subirlo, l’etica si risolverà nel seguire le sue leggi ma, ora che gli eventi naturali sono influenzabili e modificabili da parte dell’uomo, la natura ha cessato di proporre leggi e di imporre determinazioni. E’ la Tecnica, più forte della Natura, a dettare la Norma. Un’etica che in un caso si appella alla natura ma in un altro caso si appella alla tecnica, entra in mortale contraddizione con sé stessa. In quel secondo appellarsi, questa etica ammette implicitamente che la tecno-scienza, rendendo reso possibile e normale quello prima era impossibile e fuori norma, viene a costituire la fonte che la giustifica. Invece: o l’etica cristiana ha la capacità di chiudere lo scenario tecnico-scientifico e di proporre la legge di natura che, prima dell’apertura di questo scenario regolava la sorte dell’uomo; oppure, se questo non lo può fare, come pare, non le resta che accogliere questo scenario…. A scenario dischiuso e accolto, all’etica cristiana non resta che rivolgersi alla nuova configurazione in cui viene a trovarsi la coscienza dell’uomo d’oggi e la sua accresciuta possibilità di scelta, che è altra cosa rispetto al suo genoma[17].
Non ha troppo senso una sorta di gerarchia morale tra le tecnologie salvavita. Posto il valore morale dell’asserzione: la vita è sacra, qualunque tecnologia in grado di “salvare” una vita è moralmente buona, poiché quale che sia quella impiegata, permette di rispettare gli obblighi che discendono dall’asserzione. Se uno strumento quale l’alimentazione e l’idratazione artificiale ha valore morale, tutte le procedure che salvano vite hanno valore morale e sempre devono essere messe in atto nella difesa ad oltranza del principio informatore. Di conseguenza, il “via libera” incondizionato alle “ordinarie”, “normali” tecniche di nutrizione ed alimentazione parenterale minaccia di porsi in contraddizione con l’accettazione da parte della Chiesa del criterio di morte cerebrale. Definizione che comporta l’interruzione della “straordinaria” rianimazione cardiorespiratoria una volta che una serie di misure tecniche abbiano dichiarato “morto” l’intero cervello. Come la nutrizione artificiale vicaria un funzione vitale irreversibilmente persa dal paziente in stato vegetativo, allo stesso modo il sostegno cardiorespiratorio vicaria nel coma irreversibile funzioni altrettanto vitali allo stesso modo perse.
E’ chiaro come si venga in tal modo a creare un curioso paradosso. Si accetta, da un lato, che una convenzionale definizione di morte dichiari morto chi respira grazie alla macchina e si accetta, dall’altro, che un’arbitraria definizione di vita obblighi alla sopravvivenza chi è nutrito dalla macchina.
Quando nel 1968 la Commissione Harvard ridefinì l’evento morte sulla base di criteri empirici strettamente neurologici, Hans Jonas insorse criticando aspramente la morte cerebrale. La nuova definizione, affermò il filosofo, è un insieme di criteri, di operazioni che dichiarando morti i mantenuti in vita in stato di coma irreversibile sposta arbitrariamente il confine che separa i vivi dai morti. Quello che si prefigge la nuova definizione di morte è moralizzare l’amorale: rendere morale e soprattutto legale l’espianto d’organo in pazienti a cuore battente.
Chiamare in causa Hans Jonas è utile per mettere in evidenza che una definizione medico-scientifica non è una definizione filosofica. La definizione medico-scientica non ha né l’interesse né la pretesa di definire nell’ “essenza” l’oggetto che definisce. Le definizioni medico-scientifiche hanno uno scopo ben preciso: de-finire l’area dell’azione e prenderne possesso.
«Il nostro scopo primario è di definire il coma irreversibile come un nuovo criterio di morte di morte. Ci sono due ragioni per cui c’è bisogno di una definizione; 1) i miglioramenti delle misure di rianimazione e di sostegno vitale hanno portato ad accrescere gli sforzi per salvare coloro che sono stati disperatamente colpiti. Talora questi sforzi hanno un successo solo parziale, cosicché il risultato è un individuo in cui il cuore continua a battere, ma il cui cervello è danneggiato in modo irreversibile . L’onere è grande per i pazienti…, le loro famiglie…, per gli ospedali… e coloro che abbisognano di un letto già occupato da questi pazienti comatosi; 2) Criteri obsoleti per la definizione di morte possono portare a controversie nell’ottenere organi per il trapianto»[18].
Nessuno della commissione Harvard si pose mai il problema di rispondere alla filosofica domanda: “cos’è la Morte?”. Nella fattispecie, interessava primariamente rendere legale il trapianto a cuore battente, evitare che le rianimazioni si paralizzassero affollandosi di pazienti in coma irreversibile. Il confine tra la vita e la morte fu spostato nel modo più semplice e più efficace. Si adottarono criteri “tecnici” e questi permisero di dichiarare “scientificamente” morto il paziente in coma irreversibile. Tuttavia se la morte cerebrale ha eliminato dall’orizzonte della medicina il coma irreversibile, non risolve il problema dei malati in stato vegetativo permanente.
In un’altra prospettiva si può interpretare la morte cerebrale come una reazione al ricorso “eccessivo” alla rianimazione cardiorespiratoria ma, se questa interpretazione ha anche un minimo di fondamento, c’è di che stare attenti. Se le tecniche d’alimentazione ed idratazione artificiale, usate senza alcun freno, continueranno a produrre persone come Terri Schiavo ed Eluana Englaro, c’è da aspettarsi non solo una più forte pressione della società civile a favore dell’eutanasia, ma, e questo è pericoloso, che il criterio di morte corticale, finora tenuto fuori dalla porta della Medicina, vi entri per la finestra scavando la fossa ad ogni controversia. Vale qui la pena ribadire che le sentenze che hanno affermato la liceità della sospensione dell’alimentazione parenterale nel caso Schiavo hanno di fatto equiparato lo stato vegetativo permanente alla morte e, di conseguenza aperto la finestra alla morte corticale.
Se convenzionale e strumentale è la definizione che trasforma il paziente in coma irreversibile in cadavere, altrettanto convenzionale e strumentale lo è la definizione di vita che obbliga alla vita i pazienti in stato vegetativo permanente.
Detto in altro modo, il ricorso prolungato (ben 15 anni!) all’alimentazione artificiale in Eluana Englaro ha come razionale “scientifico” solo il giudizio di fatto secondo il quale la vita altro non è che il mero prodotto di un complesso insieme di reazioni fisico chimiche. Giudizio di fatto che si è trasfigurato in Verità, in norma morale che comporta la prosecuzione ad oltranza della nutrizione artificiale anche nei casi più sciagurati. Potrete anche, e con ragione, dire che non è vita umana quella della Englaro, ma sarete costretti ad ammettere che l’artificiale vita di Eluana riesce a soddisfare una definizione scientifica del vivente che risale al lontano 1928: qualsiasi modello autoperpetuantesi di reazioni chimiche può chiamarsi vivente[19]. Se la vita è sacra o se la vita è un inalienabile, inviolabile diritto, le reazioni fisico-chimiche che sono la vita sono sacre, le reazioni fisico-chimiche godono dunque d’inalienabili, inviolabili diritti civili.
Definizioni di vita del genere meccanicista-riduzionista hanno incominciato a prender forma e sostanza nella seconda metà del XIX sec e si sono succedute nel XX in forma aggiornata e sostanza invariata. Il motivo del loro secolare successo è dovuto ad un difetto filosofico che in realtà è una virtù scientifica. Non hanno mai avuto pretese di “Verità”, tanto meno di norma, ma sempre uno scopo. Quello di semplificare il fenomeno vita, quello di escludere la complessità dell’organismo vivente dalla area dell’indagine scientifica, quello di chiudere la vita nel recinto della fisico-chimica. Queste definizioni sono utili, sono quelle che servono ai biologi molecolari, ai genetisti, ai biofisici che studiano i fondamenti molecolari della vita. Queste operazioni hanno il pregio di trasformare la vita in una ripetibile, quantificabile, controllabile, modificabile serie di eventi fisici e chimici. I filosofi più intransigenti a ragione storceranno il naso ma, senza questa materialista, determinista, riduzionista cornice teorica non ci sarebbero progressi.
Al contrario una definizione così semplice della vita non sarebbe servita al materialista Darwin. Naturalisti, biologi, evoluzionisti studiano gli organismi viventi e li studiano, per così dire, tutti interi nelle loro relazioni con l’ambiente. Nemmeno questi scienziati hanno l’ambizione di illuminare l’umanità sull’essenza della Vita, ricorrono piuttosto a definizioni che separando la materia vivente da quella non vivente, permettano loro di indagare sulla materia da loro definita vivente. Riconoscono al vivente un insieme di qualità specifiche, esclusive: l’organizzazione, la complessità, la capacità d’automantenersi, l’autoregolazione, la riproduzione, la selezione naturale, l’ereditarietà genetica, la storicità…. In un certo senso si comportano né più e né meno come quei teologi medioevali che, ben consci della futilità di definire nell’essenza Dio cercavano di de-finirlo ed identificarlo mediante un processo d’attribuzione. I tentativi di definire la “vita” sono assai futili, poiché è ora del tutto evidente che non vi può più essere alcuna speciale sostanza, oggetto o forza fisica che possa essere identificabile con la vita. Tuttavia il processo vitale è identificabile. Non v’è dubbio che gli organismo viventi possiedono alcuni attributi che non si trovano, o non si trovano nello stesso modo, negli oggetti inanimati [20].
Attributi, anche d’aristotelica memoria, ma tutti sgraditi ai positivisti di più stretta osservanza che vi intravedono la riedizione materialistica del vitalismo, del finalismo. Comunque si rigiri il problema si arriva sempre alla nozione che la finalità di una struttura vivente è mantenere la propria struttura, struttura complessa in ambiente complesso. Un’altra finalità immediata non è pensabile…[21]. Se come sostiene il biologo Laborit l’attributo specifico di una qualunque struttura vivente è nella sua capacità di mantenere integra la propria struttura, un vivente mai più in grado di automantenersi va considerato morto!
Dunque ecco un’altra Verità scientifica per i fondamentalisti della biologia e che gli aficionados della soteriologia nutrizional-biochimica dormano sogni tranquilli. La Scienza dice che interrompere l’alimentazione parenterale nello stato vegetativo non è più reato!
Cambiata la definizione scientifica cambia la Verità e cambia la Morale. [1] Picard D., I Rituali del Saper Vivere, Roma, Editori Riuniti, 1997.
[2] Cfr. American Academy of Neurology, The Multi-Society Task Force on PVS Medical aspects of the persistent vegetative state, in «New England Journal of Medicine», 330, 1994: 1572-1579.
[3] Per un’analisi delle varie tappe della vicenda umana e giudiziaria di Terri Schiavo si rinvia a S. Antonelli e S. Blasi, Questioni di fine vita tra Stati Uniti ed Europa, in U. Veronesi, M. De Tilla (a cura di), Nessuno deve scegliere per noi, Smerlino & Super editori, Milano: 189-192.
[4] Per motivi di brevità per l’analisi completa della sentenza sia consentito il rinvio a M. Fusco, La sentenza sul caso Englaro riassunta in sette punti e sette difficili interrogativi, in Diritto & Giustizi@ del 23.10.2007.
[5] Cfr. Congregazione per la dottrina della fede, Risposta a 2 quesiti della Conferenza episcopale statunitense circa l’alimentazione e l’idratazione artificiali (1.8.2007) e relativa Nota di commento (14.9.2007): fonte vatican.va. Si veda anche “Sospendere cibo ed acqua, eutanasia per omissione”, in Avvenire del 15.9.2007: 6.
[6] Nello specifico si fa riferimento all’editoriale di F. D’Agostino: Nello stato vegetativo con la dignità di uomini. L’Avvenire, 15 settembre 2007: 2.
[7] ADUC- Vivere e Morire 14 e 26 settembre 2007. http://www.aduc.it
[8] <> op. cit.
[9] Carta degli Operatori Sanitari, Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari, Città del Caricano 1995: 92-94
[10] Sul punto vedasi anche; Stato Vegetativo? Restiamo persone, Avvenire, 15 settembre 2007: 7.
[11] Sospendere cibo e acqua…, op. cit.
[12] Callahan D., The Troubled Dream of Life, Simon & Shuster, New York, 1993.
[13] Callahan D., La Medicina Impossibile, Baldini e Castoldi, Milano, 2000.
[14] Galimberti U., Il Corpo, Feltrinelli, Milano 1994: 46.
[15] Defanti C.A., Vivo o Morto? Zadig, Milano 1999: 67.
[16] Ibidem: 68.
[17] Galimberti U., Orme del Sacro, Feltrinelli, Milano 2000:240.
[18] Committee of the Harvard Medical School, A Definition of Irreversible Coma, JAMA, 205: 337, 1968.
[19] J.B.S.Haldane, The Origin of Life, Rationalist Annual 1928: 148-153.
[20] Mayr E., Storia del Pensiero Biologico, Bollati Boringhieri 1990: 53.
[21] Laborit H., Elogio della Fuga, Mondadori, Milano 2000: 133.

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