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Attività

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Adozione e donazione, diamo un futuro all’embrione

Luisella Battaglia

(tratto da “Il Secolo XIX”, 9/1/06 p.19)

Si ritorna a parlare dei quattrocento embrioni ‘orfani’ in attesa di essere trasferiti in una sorta di banca della crioconservazione e delle decisioni in merito al loro destino: lasciarli in stato perpetuo di congelamento, darli in adozione ad altre coppie, usarli per la ricerca?
Da un lato vi è chi—come Claudio Magris—denuncia l’orrore del sacrificio dei ‘deboli del gelo’ destinati, in quanto orfani, alla ricerca scientifica; dall’altro, vi è chi, come ad esempio la ricercatrice Elena Cattanei, afferma che i quattrocento embrioni costituirebbero per le loro potenzialità terapeutiche. Che fare? Ancora una volta incombe su di noi una decisione da assumere in nome di quell’etica della responsabilità che c’invita alla ricerca non del bene assoluto ma del bene possibile e, talora, come in questo caso, del male minore.
Una prima risposta si può cercare nel recente parere del Comitato Nazionale per la Bioetica sull’adottabilità degli embrioni in stato d’abbandono. Esso parte dal presupposto che se l’embrione è una persona, esso innanzitutto dovrebbe nascere. Da qui l’impegno per predisporre tutti quegli strumenti legislativi—come la cosiddetta ‘adozione per la nascita’—che gli consentirebbero lo sviluppo pieno, il passaggio dalla vita potenziale alla vita attuale.
Resta una domanda alla quale il CNB si riserva di rispondere e su cui si è appena costituito uno specifico gruppo di lavoro: quale sarà il destino degli embrioni orfani non impiantabili perché non vitali? Se sono vite umano—è stato detto da parte cattolica—non si vede come si possa prevederne la distruzione cedendoli ai laboratori. Si potrebbe, tuttavia, obiettare che se l’embrione è persona ne discende, come conseguenza, sul versante finale della vita, la possibilità, condivisa da tutte le persone di poter donare quelle parti di sé che non servono più. Nel caso delle persone adulte, questa possibilità si concreta nella donazione degli organi, donazione che è inserita in un quadro di precise garanzie concernenti sia l’accertamento della morte che la volontarietà del gesto. Perché, allora, non prendere in considerazione la possibilità di equiparare l’embrione soprannumerario non impiantabile a un donatore di organi potendo egli essere solo un ? Perché non applicare, per analogia, nei suoi confronti i criteri morali e giuridici validi per i trapianti? A ben riflettere, donare gli organi, per una persona adulta, è un’operazione che non pare sostanzialmente diversa da donare le cellule per un embrione. Le stesse cautele, le stesse disposizioni—commisurata la diversità della situazione—dovrebbero valere in entrambi i casi. Il criterio della morte cerebrale e la clausola del silenzio/assenso (ove non sia espressamente indicata una volontà contraria) sono le norme che nella nostra legislazione regolano una materia tanto delicata e complessa. Sappiamo che, tuttavia, allorché non sia possibile ottenere un consenso espresso (es. per la giovanissima età dei soggetti) esso è affidato a coloro a cui la legge assegna la responsabilità della vita e della cura del soggetto: i genitori--il cosiddetto ‘giudizio sostitutivo’—o a un giudice.
Il problema cruciale è come accertare la morte dell’embrione perché, ovviamente, solo a questa condizione sarà possibile l’espianto e la donazione di cellule nel quadro di una coerente filosofia della vita.
La questione è tutt’altro che oziosa e irrilevante ma, sorprendentemente, non è stata affrontata con la dovuta serietà da parte di ricercatori, genetisti, embriologi etc. Diverse indicazioni provengono da questi ultimi: alcuni criteri sono stati suggeriti (come ad es. quello per cui la morte dell’embrione potrebbe coincidere con un’assenza del suo sviluppo osservata per ventiquattro ore) ma siamo appena all’inizio di un cammino che sarebbe interessante e importante percorrere. Per tutti.
Sennonché la mia impressione è che non siano le difficoltà tecniche (accertamento della morte, problematicità dei criteri etc.) a rappresentare il maggior ostacolo. Esse sono, o saranno, ben presto superabili o, comunque, affrontabili sulla base di criteri e parametri che la comunità scientifica, una volta seriamente investita del problema, potrà e dovrà predisporre. E’, insisto, la volontà a trarre le conseguenze dalle premesse: la coerenza, intendo, per cui se un embrione è persona, deve poter nascere e quindi essere adottato ma deve anche poter morire, e quindi avere la possibilità di donare le sue cellule In ogni caso, ciò che più conta, nella prospettiva qui delineata, l’embrione mai sarebbe considerato come una cosa, un oggetto, mai sarebbe strumentalizzato. Prendere sul serio l’idea che l’embrione è una persona, significa, infatti, né affermarne l’intangibilità assoluta, che lo destina alla non vita in nome di un principio di sacralità o di assoluto rispetto che si autocontraddice, né affermarne l’assoluta disponibilità, che lo destina alla sperimentazione facendone una cavia, in nome di una visione della scienza dimentica dei valori etici che dovrebbero guidarla e animarla.

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