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Attività

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Esercizi di futuro. Le nuove sfide della bioetica

Luisella Battaglia

Come possiamo “dar corpo al futuro” a partire dai cambiamenti epocali di cui siamo testimoni? Siamo indubbiamente di fronte a sfide inedite, a eventi planetari – dal degrado ambientale allo sviluppo vertiginoso delle biotecnologie – che investono tutti i settori della nostra vita e sembrano sfuggire al nostro controllo. Ci sentiamo fragili, smarrite, vittime di poteri che ci sovrastano, prive di punti di riferimento che possano orientare il nostro agire e rendere il mondo ospitale e vivibile.
Il termine esercizi rinvia appunto a questa incertezza ma anche alla volontà di reagire alla rassegnazione, al cinismo, ai vissuti di impotenza, coltivando “un pensiero non abituato”- per riprendere una felice espressione dell’indimenticabile Françoise Collin - : un pensiero libero, che rifiuti l’accettazione acritica del dato, le vecchie abitudini e le false sicurezze e che accetti il rischio, la sfida dell’incertezza. Tanto per cominciare, come apprendisti che si cimentano in un lavoro assai arduo, esposti al rischio dell’errore ma aperti alla speranza, dovremmo resistere al cosiddetto “presentismo”, a quella sorta di preferenza per il presente e per il pensiero a breve termine che sembra caratterizzare il nostro orizzonte etico e politico. Ma come ripensare la speranza dinanzi alle sfide delle tecno scienze? Perché non provare a ripartire proprio da qui, da questo sentimento di insicurezza, da questa condizione di vulnerabilità.? Figlie della modernità e dell’individualismo, abbiamo troppo a lungo coltivato il mito dell’autoaffermazione, della sovranità dell’io e dell’autosufficienza che oggi assumono il volto caricaturale del narcisismo e del rampantismo, della sfrenata competitività e dei desideri illimitati. Abbiamo confinato nel rimosso la nostra vulnerabilità dimenticando che l’età globale, insieme alla interdipendenza degli eventi, produce l’interconnessione degli esseri umani, reciprocamente dipendenti, bisognosi gli uni degli altri, esposti alle stesse sfide: siamo ormai pienamente una comunità di destino. Se l’etica nasce da uno sguardo verso l’altro, dal rifiuto del riconoscimento della comune vulnerabilità si disegnano le barriere che dividono i territori in piena luce in cui si dispiegano la dignità, il valore, la solidarietà di coloro che dicono noi e le immense zone d’ombra che inghiottono gli altri nel silenzio, nell’indifferenza, nell’oblio. In tal senso, gli “esercizi di futuro” ci invitano a porre domande non tanto per trovare risposte teoriche ma per indurci – è la lezione di Maria Zambrano – a essere noi stesse le risposte che mettono in moto la vita. Partiamo dunque dalla domanda: come intendere la vulnerabilità?
Se, in senso stretto, si riferisce a una situazione di particolare debolezza e fragilità, quella di soggetti che per età, condizione etc., necessitano di una protezione particolare, in senso lato riguarda la condizione stessa di precarietà di tutti i viventi, umani e non umani, che sono esposti, nell’arco della loro esistenza, al rischio di essere feriti, e sono quindi eminentemente “vulnerabili”. E’ su questo secondo significato, dalla forte valenza etica e antropologica, che vorrei concentrarmi per evidenziarne le forti implicazioni per il tema della cura. Si tratta, in effetti, di un’idea innovativa che ci consente di ripensare buona parte del discorso bioetico, finora incentrato prevalentemente su principi quali l’autonomia o la giustizia.
E’ stata in particolare la “Dichiarazione di Barcellona” - sottoscritta nel 1998 da ventidue studiosi europei, provenienti da diverse discipline e orizzonti filosofici, a conclusione di una ricerca di tre anni promossa dalla Commissione Europea - ad aver valorizzato la nozione di vulnerabilità, affiancandola a quelle di autonomia, integrità, dignità. Si tratta di quattro idee regolatrici, utili non solo per l’analisi delle questioni cruciali della bioetica e del biodiritto ma anche per orientare il dibattito contemporaneo sulla biomedicina e le biotecnologie in un contesto normativo, nel quadro di un’etica della solidarietà, della responsabilità e della giustizia intesa come equità. Ma è in particolare il quarto principio, la vulnerabilità a costituire il fondamento, nella Dichiarazione, di un’etica pubblica della cura che non vuole semplicemente limitarsi alla protezione paternalistica degli incapaci ma intende costruirsi sulla premessa antropologica che tutti noi - anche se “autonomi” – siamo fondamentalmente vulnerabili. Tale principio, che esprime essenzialmente l’idea della finitezza e della fragilità dell’esistenza umana, fonda, per coloro che sono capaci di autonomia, la possibilità e la necessità di ogni etica. che faccia appello alla responsabilità e alla cura. Esso richiede non solo la non interferenza cogli altri tre principi, ma comporta specificamente anche il dovere di assistere coloro che sono incapaci di realizzare il loro potenziale umano e che vedono minacciato il loro diritto all’autonomia, all’integrità, alla dignità. Il messaggio complessivo che emerge dalla Dichiarazione è, dunque, che la vulnerabilità è, in larghissima misura, situazionale e che quindi l’impegno di tutti deve essere inteso a ridurla nei suoi diversi ambiti. Considerazione, questa, che ci richiama al tema cruciale della cura.
Proprio per questo legame con l’etica della cura appare di grande rilievo il contributo del pensiero delle donne, in ambito bioetico, al tema della vulnerabilità. Se lo sviluppo delle scienze e delle tecnologie ha rimesso alla decisione del soggetto le questioni cruciali del vivere, del nascere e del morire, il pensiero delle donne ha avviato un importante percorso: quello dall’astratto soggetto “di carta”, che cancella la differenza di genere e dunque il volto vero della vita, al concreto soggetto “di carne”, nella ricchezza delle sue determinazioni sessuali, storiche ed esistenziali. Un richiamo alla concretezza carnale che è, ovviamente, assai lontano da un’affermazione vitalistica. Mentre nel vitalismo, infatti, la vita è una forza che si afferma contro le regole, nella bioetica la vita appare esposta nella sua nudità alle minacce che le provengono dalle tecnoscienze e quindi particolarmente bisognosa di tutela. Più che un’etica applicata alla vita, la bioetica potrebbe definirsi un’etica modificata dalla vita a causa di un’ interazione tra natura e cultura molto più forte rispetto all’etica tradizionale: le biotecnologie e le scoperte della medicina e della genetica hanno infatti cambiato profondamente il rapporto con le leggi che governano l’esistenza. La ragione tecnologica sembra prendere il sopravvento sull’uomo “antiquato”: la riduzione della persona alla sua biologia, negando la sua biografia – il vero connotato dell’umano - rischia infatti di consegnarla nuda ad un potere che inclina pericolosamente verso un’esclusiva attenzione per la pura sopravvivenza biologica. Da qui un inedito rilievo conferito alle nuove dimensioni della responsabilità umana. E’ proprio questo a ricondurci al rapporto cruciale col tempo da cui siamo partiti. Superare l’egocentrismo per aprirsi all’altro significa infatti uscire dal cerchio del presente e proiettarsi nel futuro, oltrepassando il puro e semplice consumo dell’esistenza per generare qualcosa di nuovo: più mature condizioni d’esistenza e più profondi legami con la vita. Ma qui emerge anche la profonda differenza tra “ottimismo” e “speranza”.
Una prima differenza che mi sentirei di affermare è che l’ottimista guarda avanti ma resta, per così dire, nello spazio del presente: si propone un obiettivo raggiungibile, circoscritto, ben definito, ha una meta precisa ma concentrata sul presente. La speranza invece va al di là della meta, amplia lo spazio del futuro, cerca un senso e identifica orizzonti di senso. Per questo non si lascia abbattere dalla sconfitta o dal dolore: opera in vista di un fine, di un ideale di cui si potrà non vedere l’affermazione ma di cui non si cessa di preparare l’avvento. Fondamentale è il rapporto col passato, oltre che col futuro. Sperare, infatti, non significa solo guardare avanti ma anche guardare indietro per capire in che modo “giocare” il nostro passato come possibilità a venire.
Ancora. L’ottimismo è un atteggiamento, una disposizione d’animo che corrisponde a quello che si chiama abitualmente “pensare positivo”. Una qualità importante, ma la speranza è altra cosa :una virtù centrale della vita. Se noi siamo “costruzione”, la speranza è attiva, ci sospinge verso il tempo, quella dimensione che ci è assegnata per la nostra realizzazione. Da qui il tratto specificamente umano della speranza. Virtù, dunque, che si appoggia ad altre virtù che potenzia e da cui è potenziata: la generosità, il coraggio, la giustizia. In quanto capacità di guardare lontano e di presagire con lungimiranza i pericoli che incombono sugli esseri umani, ma anche sulla natura e l’intero mondo vivente, si apparenta alla cura .
Non possiamo dimenticare che Hans Jonas, ne Il principio responsabilità, definisce la “cura” come preoccupazione ansiosa per la sorte di un altro essere, enfatizzando unilateralmente l’elemento della paura ma trascurando quella che è, a mio avviso, una sua componente essenziale e inscindibile, appunto la speranza, da intendersi come impegno fiducioso per il futuro, assunzione coraggiosa del rischio. Cura di noi e del mondo, dell’umanità che dimora nel mondo vuol dire certo preservare l’esistente ma anche non ostacolare ciò che è nuovo in nome, ad esempio, di una pretesa “essenza” dell’umano e neppure porre un limite al processo di creazione, attraverso astratte e formali norme etiche. Forse il problema oggi è quello di proteggere non tanto l’umano – inteso nella sua purezza ontologica – quanto l’umanità e la sua futura sopravvivenza sul pianeta. Un’umanità che riscopre – occorre aggiungere – sempre più i suoi legami colla natura e col mondo non umano, con cui deve interagire responsabilmente. Ma questi legami, più che contaminazioni e ibridazioni da temere, cominciano ad apparirci – ecco la speranza – come vincoli di solidarietà, di coappartenenza da riconoscere e da salvaguardare.
Dovremmo allora cominciare seriamente a pensare ad un umanesimo non del “post” ma dell’”oltre”, nella direzione di una cosmologia non antropocentrica. Per fare “esercizi del futuro” in un’etica della speranza si tratta di andar oltre sia “l’umanesimo nostalgico”, antitecnologico per definizione, ancorato al passato e fondato sulla “virtù” della paura, sia il post-umanesimo “euforico”, protecnologico per vocazione, incapace di definirsi se non nei termini del “dopo”, dimentico del passato e del presente. L’umanesimo della speranza dovrebbe fare i conti col passato e col futuro, colla nostalgia e l’attesa; stare nel presente ma guardare oltre le frontiere dello spazio ( il pianeta), del tempo (le generazioni future), della specie ( gli animali non umani).
Ne discende una visione allargata della comunità morale: le generazioni non ancora nate, la biosfera minacciata, la totalità a noi prossima delle creature viventi dovrebbero ormai entrare nel campo etico. Oggi siamo tutti, consciamente o no, “spettatori globali” del dramma planetario della sofferenza, testimoni oculari del male inflitto agli umani (e ai non-umani) ovunque nel mondo. Non ne sentiamo solo parlare, lo vediamo nel momento in cui viene compiuto, anche se facciamo poco o niente per rimediare alle sue conseguenze e, meno ancora, per prevenirne i danni. Non possiamo comunque più farci scudo dell’ignoranza: essere spettatori significa esporsi a una gigantesca “sfida etica”.
Per questo, dinanzi agli esiti pessimistici e rinunciatari dell’etica di Jonas, sembra importante sottolineare come la pienezza della responsabilità richieda la speranza e quindi una nuova visione della dimensione politica. La politica che dovrebbe guardare lontano, pianificare e progettare è infatti inghiottita dal presente, dal “qui e ora” ma, paradossalmente, è sempre in ritardo sulla realtà, priva com’è di coraggio e di immaginazione creatrice. Sappiamo che la corsa affannosa al breve termine dipende strettamente dalle condizioni in cui si esercita la lotta per il potere. Per questo possono aprirsi nuovi scenari per il pensiero delle donne, un pensiero capace di immaginazione che, felicemente libero dai ritmi elettorali e dalle impellenze dei sondaggi, contribuisca a rendere più intelligibile la complessità del mondo in modo tale che la preoccupazione del lungo termine sia costantemente in evidenza. La crisi che stiamo attraversando coinvolge al massimo la scienza economica, ormai regina e guida della nostra politica, ma incapace di comprendere ciò che non è calcolabile e quantificabile: passioni, emozioni, gioia,miserie, paure, speranze che sono tuttavia il corpo stesso dell’esperienza umana. Ma i fini dell’economia sono anche i nostri fini? Inevitabile è qui la critica della nozione di sviluppo, definito da una prospettiva tecno economica e ritenuto misurabile cogli indicatori di crescita e di reddito. L’idea stessa di sviluppo presuppone che esso sia la locomotiva del progresso umano ma in tal modo ignora drammaticamente che la crescita tecno economica produce altrettanti sottosviluppi materiali, cognitivi, morali. Di particolare interesse, a proposito del conflitto tra leggi del mercato e mondo della vita, mi sembra la lettura dell’etica della cura offerta da Joan Tronto ne I confini morali, secondo cui “il mondo assumerà un aspetto differente spostando la cura dalla posizione periferica che occupa attualmente e collocandola al centro della vita umana. Trasformando i confini morali per focalizzare la nostra attenzione su un concetto integrale di cura, dovremo anche modificare alcuni aspetti centrali della teoria morale e politica.”
Che cosa può significare la centralità della cura? Si tratta, innanzitutto, di proporre la cura come valore capace di informare la vita pubblica e di progettare un’agenda politica rinnovata, attenta ai problemi ignorati dalla politica tradizionale. Il successo materiale della nostra civiltà è stato formidabile ma ha prodotto drammatici insuccessi morali: il degrado della solidarietà, le nuove povertà, il dilagare degli egocentrismi, un malessere psichico diffuso e indefinito. Oggi è visibile una reazione, certo ancora embrionale, fatta di tentativi dispersi, individuali o comunitari, di riformare la propria vita, di ricercare forme di convivialità, di ricreare uno spirito di solidarietà, di intessere nuovi legami sociali. A questi movimenti di vera e propria riforma civile, che devono molto alla riflessione delle donne, spetta il compito di reintegrare queste istanze di natura etica nella politica per rigenerarla. Cambiamenti epocali? Forse. In effetti se, adottando un’ottica davvero globale di cura, riuscissimo a guadagnare una prospettiva olistica, la nostra scala di valori subirebbe una radicale trasformazione: diverremmo responsabili delle sorti dell’aria, dell’acqua, della biosfera, in una parola della Terra. Ne discenderebbe conseguentemente, per fare un esempio assai concreto, la centralità da attribuire ai beni comuni: acqua, aria, energia sicura.
Si è più volte rilevata la difficoltà per la politica tradizionale di pensare ai beni comuni alla luce delle categorie convenzionali: destra/sinistra, privato/pubblico. A chi interessano? A chi appartengono? Ma in tal modo si dimentica che i beni comuni – non appropriabili né dai privati né dallo Stato – sono di tutti perché non appartengono a nessuno e si presentano come la proiezione nel mondo dei diritti fondamentali che devono accompagnare ogni persona. Veri e propri diritti di una cittadinanza planetaria, ci mostrano la connessione con i temi cruciali della bioetica: il rispetto delle generazioni future, la tutela dei viventi, lo sviluppo sostenibile.
Eguale è, d’altra parte, l’incapacità della politica di cogliere l’intreccio indissolubile tra la protezione dell’ambiente e la salute individuale e collettiva. Da qui l’importanza delle azioni quotidiane, dei gesti e delle scelte individuali, a partire ad esempio da un’alimentazione responsabile, che dovrebbe riuscire a tenere insieme, in una vera e propria diet-etica, salute umana, benessere animale e tutela dell’ambiente. Un ampliamento di questo genere della coscienza di cittadinanza non può non implicare una coscienza allargata del mondo in cui viviamo: si tratta infatti di tutelare la qualità della vita non solo degli umani ma di tutti i viventi.
E già la terra non basta. Il “Global Foot point Report” ci avverte che se tutti vivessimo con lo stile di vita americano non basterebbero 5 Terre (con lo stile italiano ne occorrerebbero comunque 2,7…)
Mi sembra particolarmente significativo che la nuova costituzione dell’Ecuador tuteli i diritti della natura considerata una sorta di persona, con una esplicita ripresa dell’idea di Terra Madre, la Pachamama delle religioni meso-americane. Ma non è questo anche il tema di fondo dell’ecofemminismo, il movimento che, richiamandosi all’antica visione materna della natura, intende liberare insieme la natura e la donna, combattendo contro la cultura androcentrica del dominio e compiendo i primi passi verso una nuova etica globale? Ancora una volta gli “esercizi di futuro” ci richiamano al passato, ad un rapporto critico colla tradizione ma soprattutto ci consentono di attivare un rapporto creativo col presente, anticipando i nuovi orizzonti della ragione pubblica.

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