L’attuale formazione dei medici può contare su metodi e strumenti innovativi, resi possibili dalla notevole e costante evoluzione della chirurgia, specie negli ultimi decenni. Grazie alla chirurgia mini invasiva e a quella robotica, è possibile condurre esercitazioni con video-trainer o con simulatori; le esercitazioni poi, una volta registrate e riprodotte, consentono di esaminare attentamente le diverse fasi delle metodiche utilizzate, gli eventuali errori compiuti, i possibili progressi riscontrati.
Nonostante queste nuove tecniche, che comunque non possono essere applicate alla totalità dei casi, la letteratura scientifica internazionale è concorde nel ritenere che l’esperienza diretta sul cadavere sia insostituibile e che la dissezione anatomica rivesta un’importanza fondamentale nella formazione degli studenti e degli specializzandi e nell’aggiornamento degli specialisti. Ciò vale anche per l’Italia, dove però si riscontra nei fatti una notevole difficoltà a poter compiere esercitazioni di questo genere; tale difficoltà è dovuta alla mancanza di disponibilità di cadaveri sui quali condurre le esercitazioni, mancanza che a sua volta deriva dalla scarsità dei programmi di donazione ai fini di studio e di ricerca. La promozione anche nel nostro paese di una cultura favorevole alla donazione del corpo a fini di studio e di ricerca e l’adozione di adeguate misure per regolamentare tale donazione permetterebbero quindi di migliorare significativamente la formazione medico-chirurgica.
Oggi dobbiamo essere grati a Sammy Basso, affetto da una malattia rarissima, la progeria, che ha donato il suo corpo alla scienza per aiutare la ricerca. Il suo è un esempio di grande rilievo nel ricordarci che nell’etica del dono – vera e propria etica della speranza – dò ad un altro un bene prezioso, cui attribuisco valore (non si parlerebbe altrimenti di ‘donazione’, come ci insegnano gli antropologi a proposito del significato sociale del dono). Nella donazione degli organi e del cadavere, inoltre, mi prendo cura di un altro, in senso solidale e altruistico. Donare il corpo significa dunque, in certo modo, donare sé stessi compiendo un atto di generosità che, rivolgendosi non a ‘qualcuno’ ma a ‘chiunque’, alimenta quel capitale di altruismo di cui ha bisogno una società degna di questo nome. Se l’ultimo dono è, dunque, un gesto eminentemente personale, può tuttavia aiutarci a ritrovare le radici di quelle relazioni umane – cura, pietà, empatia – che ci fanno sentire parte di quella grande catena che, in vita e in morte, ci unisce alla comunità dei viventi.
Questo editoriale di Luisella Battaglia è stato publicato il 12 ottobre 2024 su IL SECOLO XIX
Il dono del corpo ci mantiene umani dopo la morte