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MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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Pre Festival di Bioetica 2024

Pre Festival di Bioetica 2024

Gli incontri registrati

Video incontri e convegni dell'Istituto Italiano di Bioetica

Video incontri e convegni dell'Istituto Italiano di Bioetica

Di: Claudio Calabresi, Claudio Culotta, Marco Fallabrini, Antonio Manti, Bruno Piotti, Gianfranco Porcile, Rodolfo Tangari, Federico Valerio (alcuni sono soci dell’Ecoistituto Reggio Emilia e Genova).

Da medici abbiamo partecipato alle sofferenze e ai drammi delle famiglie dei pazienti e alle difficoltà degli operatori sanitari in prima linea nella risposta alla pandemia del COVID-19. Una tragedia annunciata che ha colto di sorpresa la popolazione di molti paesi e in particolare gli amministratori, politici e responsabili di Governi, Amministrazioni Regionali e Comunali, malgrado i chiari segnali di allerta per una possibile epidemia di virus respiratorio su larga scala (vedi il Rapporto OMS e Banca Mondiale del settembre 2019, “A World at Risk”, https://apps.who.int/gpmb/annual_report.html).

A due mesi dall’inizio dell’epidemia in Italia, è ora di bilanci. Qui di seguito vi presentiamo le considerazioni di un gruppo di medici e non, alcuni soci dell’Ecoistituto Reggio Emilia e Genova.

Prima di tutto ritardi notevoli e colpevoli. Di fatto alcuni focolai di COVID-19 dovevano già essere presenti a gennaio e febbraio, ma sono stati o erroneamente diagnosticati come influenze oppure trascurati per la loro ridotta dimensione. Nel nostro paese abbiamo raggiunto una cifra ufficiale di circa 223.095 infettati confermati (in Liguria 8.773) e 29.884 deceduti (ISS, Sorveglianza integrata al 15 maggio), segnando una letalità tra le più alte del mondo, ben più alte della Germania, o della Francia. Perché? vogliamo denunciare due cause principali: l’epidemia è stata affrontata come una emergenza curativo-ospedaliera invece che una infezione da controllare sul piano dei servizi territoriali; la gestione confusa delle prime settimane ha lasciato l’iniziativa nelle mani delle Regioni, prima che essa fosse centralizzata, come doveva essere sin dal primo momento, nelle mani di un unico centro nazionale, composto di epidemiologi, infettivologi-virologi e esperti di sanità pubblica, affiancati da esperti della OMS e dei paesi che erano stati colpiti per primi dal COVID-19-SARS 2, quali Cina e Sud Corea. Intendiamo dire che doveva essere centralizzato il governo dell’emergenza, non le risposte: queste non potevano non essere territoriali, locali.

Siamo anche consapevoli che l’inquinamento atmosferico ha favorito la diffusione dell’epidemia nei centri più colpiti, quelli ad esempio che gravitano sulla Pianura Padana, la zona più inquinata di Europa. Concordiamo con gli studi, accettati su qualificate riviste scientifiche (1) che individuano nell’elevata concentrazione di biossido di azoto (NO2), in Lombardia e Emilia Romagna, un possibile cofattore, insieme all’età e a patologie pregresse, per l’elevata mortalità registrata in queste regioni. Simili associazioni, sono state riscontrate anche in Spagna, Francia, Germania (2) e Inghilterra (3). Anche a Genova è possibile che l’inquinamento, con un costante superamento dei limiti di legge per il biossido di azoto, possa aver avuto un ruolo nell’elevata mortalità registrata. E’ opportuno segnalare che, a seguito del lockdown, con una riduzione della mobilità individuale stimata pari a 84,6% (indagine Moovit), tutte le centraline genovesi, della rete di monitoraggio dell’Agenzia Regionale Protezione Ambiente Liguria (ARPAL) hanno registrato una significativa riduzione delle concentrazioni medie giornaliere di NO2, (tra il 40 e il 51%) con valori nettamente inferiori al limite di legge su base annuale (https://federico-valerio.blogspot.com/2020/05/il-centro-di-genova-nei-giorni-del.html).
La Liguria, seppure colpita meno della Lombardia in termini di casi, ha presentato una mortalità simile. I decessi in Lombardia erano 14.611 erano su 79.369 casi con test COVID-19 confermato, in Liguria erano 1.073 su 8.360 (dal ISS, Bollettino sorveglianza integrata 7 maggio 20, Appendice). Tuttavia, secondo i dati ISTAT-ISS Rapporto sulla mortalità, del 04-05-20, https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/, nei tre mesi gennaio-marzo i morti dovuti a tutte le cause e tutte le età in Liguria sono stati 3.234, 50,3% in più della media 2015-2019. Questo aumento colloca la Regione al quinto posto dopo Lombardia (185%), Emilia-Romagna (75%), Trentino Alto Adige (65%) e Marche (53.3%),).

Cosa non ha funzionato in Liguria e in altre Regioni? La riflessione su ciò oggi è dettata dalla necessità di organizzare meglio le risposte della Fase 2 e della 3 nella quale stiamo entrando, nell’interesse dei cittadini, e in particolare degli anziani, dei poveri e dei vulnerabili che nei mesi futuri possono pagare ancora caro le conseguenze del virus, altrettanto quanto è avvenuto nella Fase 1.

1- Veniamo da decenni di “definanziamento” nel Servizio Sanitario Nazionale. Nel decennio 2010-2019 tra tagli e definanziamenti al SSN sono stati sottratti circa € 37 miliardi. La spesa sanitaria pubblica pro-capite dell’Italia è al di sotto della media OCSE ($ 2.545 vs $ 3.038, Rapporto sulla salute 2019). Per nessun governo italiano nell’ultimo decennio la sanità ha mai rappresentato una priorità politica. Nel DEF 2019 il rapporto spesa sanitaria/PIL rimane identico al 2018 (6,6%) per gli anni 2019 e 2020, per poi ridursi al 6,5% nel 2021 e al 6,4% nel 2022 (Dal Rapporto Osservatorio GIMBE n.7/2019, www.gimbe.org/definanziamento-SSN).

2- Regionalizzazione. Come è noto da molti anni il nostro SSN è diventato un mosaico di Sistemi Sanitari Regionali (SSR) con leggi e provvedimenti regionali diversi da una Regione all’altra, pur all’interno di un quadro generale comune (Livelli Essenziali di Assistenza, ecc.). Pur essendo conforme all’Articolo V della Costituzione e improntata ad un giusto riconoscimento delle autonomie locali, la riforma dell’assistenza sanitaria in senso regionalistico ha visto con il passare degli anni, anche per l’assenza di un concreto ruolo centrale di indirizzo, coordinamento e verifica, una sempre più accentuata differenziazione tra Regione e Regione, che ha quasi raggiunto un esasperato campanilismo. In passato questo stato di cose ha penalizzato in maniera evidente le Regioni del Sud, che storicamente sono caratterizzate da un sotto finanziamento dovuto ai calcoli in base alla spesa storica e da una scarsa capacità amministrativa e manageriale: ne sono stati emblematica conseguenza i viaggi della speranza verso il Nord. Oggi l’esperienza della pandemia da coronavirus ha dimostrato esattamente una situazione opposta: sono state e sono le regioni settentrionali a sperimentare l’insufficienza del loro sistema sanitario a causa della maggior frequenza di malati contagiati in gravi condizioni che necessitano di ricovero in reparti di cure intensive e, in alcune regioni, di un’assistenza che si è progressivamente sbilanciata nella parte pubblica a vantaggio del settore privatistico. E’ evidente che questa esperienza deve urgentemente insegnarci che è necessario cambiare rotta e viaggiare nuovamente verso un SSN unico, uguale per tutti i cittadini, equo, sufficientemente omogeneo, organicamente coordinato tra centro e realtà periferiche, magari con una concreta ed efficiente organizzazione in Rete. Ovviamente nessuno rimpiange lo stato centralistico, ma è indispensabile che la Conferenza Stato-Regioni recuperi con efficacia il suo ruolo di programmazione coordinata e di negoziazione costruttiva. In una parola, si tratta di “fare sistema” tra soggetti che, pur nella loro autonomia, siano consapevoli di far parte della stessa famiglia.

3- I Ministri che si sono succeduti dalla firma nel 2005 del Regolamento Sanitario Internazionale (RSI) sul controllo delle malattie infettive-contagiose non hanno mai dato attuazione pratica, regionale e comunale, al Piano Nazionale di preparazione e risposta a epidemie-pandemie, che segue linee guida sperimentate e internazionalmente accettate. Quindi non avevamo pronte le risorse, né i mezzi diagnostici e di protezione individuale, né quelle collettive e le attrezzature nei reparti ospedalieri dedicati e neppure, in molti casi, l’addestramento alle misure procedurali ed all’uso dei mezzi di protezione personale. Rispetto al totale dei casi ufficiali, il numero dei contagiati tra il personale sanitario è superiore al 10%, pari a 25.937 (dati ISS Sorveglianza integrata al 15 maggio). Per i dati sulle categorie (medici, infermieri, tecnici, etc. consulta Bollettino di aggiornamento ISS, 28-04-2020, Tabella 7, https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/bollettino/). Il numero dei morti è elevato, secondo la Federazione nazionale dei medici chirurghi e degli odontoiatri, al 15 maggio, 163 medici, 40 infermieri e ausiliari. Questi dati rivelano che specialmente il personale in prima linea non è stato abbastanza protetto ed è divenuto a sua volta carrier di contagio per i reparti ospedalieri, per le Residenze Sanitarie Anziani (RSA) e per i pazienti ambulatoriali.

4- I medici di medicina generale (MMG) in Italia sono sempre meno e sempre più anziani. Secondo il portale EUROSTAT (accesso maggio 2020, https://ec.europa.eu/eurostat/documents) nel 2016 erano circa 54.000, pari a 89 per 100 mila residenti, contro i 253 del Portogallo, 157 dell’Olanda, 153 della Francia e vicini alle “code europee” Regno Unito (76) e Spagna (75). Secondo l’ISTAT, nel maggio 2020 sono ancora diminuiti a 53.109. Abbiamo molti pediatri e specialisti per abitante, più che in altri paesi EU, ma abbiamo pochi MMG e vicini alla pensione. Non hanno ricevuto orientamenti e protocolli, né formazione specifica, non sono stati dotati dei DPI e di attrezzature medico-sanitarie. Non stupisce quindi che collettivamente, nonostante molte, coraggiose, ma individuali eccezioni, non siano riusciti ad assolvere ai compiti di sorveglianza, triage e risposta (identificazione, accertamento diagnostico, orientamento terapeutico, ricerca dei contatti e tempestivi test di conferma -tamponi naso-faringei-, trattamento preliminare dei casi in fase sintomatica lieve o media, selezione e trasferimento tempestivo dei casi severi). Invece i telefoni 112, 118, 1500 e gli altri dedicati, i Pronti Soccorsi e gli ospedali si sono affollati da chi positivo era davvero e da chi aveva solo paura di esserlo.

5- In ciascuna delle 5 ASL liguri c’è un Dipartimento di Prevenzione, dove sono raggruppati numerosi servizi: almeno igiene pubblica, prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro, igiene degli alimenti, servizi veterinari. L’igiene pubblica si occupa anche di profilassi delle malattie infettive. Un ruolo fondamentale in ambito territoriale hanno anche i Medici di Medicina Generale e i Pediatri di Libera Scelta (PLS), che però non sono dipendenti, bensì liberi professionisti convenzionati con il SSN. Essi si relazionano con l’ASL, ed in particolare con il Distretto sociosanitario, principalmente per alcune funzioni inerenti il controllo dell’attività prescrittiva e i programmi di aggiornamento. Pertanto è facile capire come non ci sia stata nei mesi scorsi, e sovente nel passato, una sinergia nelle funzioni di sorveglianza, accertamento, risposta e controllo delle malattie a livello territoriale e “di popolazione”. Certo il Decreto Ministeriale 15 dicembre 1990 definisce l’obbligo di notifica per una lista di malattie infettive, inclusa la “influenza da virus influenzale potenzialmente pandemico”, ma la capacità di “essere sentinella di allerta” dei MMG e la capacità degli operatori della Prevenzione di organizzare tempestivamente ed in modo coordinato un programma di contenimento territoriale della pandemia non c’è stata. Al 7 aprile, i Gruppi Strutturati di Assistenza Territoriale (GSAT) per la sorveglianza attiva, costituitisi o in via di costituzione in tutta la Liguria, erano 16.

6- La questione del sistema informativo sul coronavirus è un altro aspetto molto critico. Com’è noto, si è finora in grado di “leggere” solo una parte del fenomeno di questi mesi: l’entità reale dell’epidemia è in gran parte sommersa e sconosciuta. I numeri dati finora danno solo la misura di “quel che è noto e registrato”. Ormai nella stessa “catena di comando” sottogovernativa (il misto tra Protezione Civile, Comitato tecnico scientifico, Istituto Superiore di Sanità, task force) si ammette che i dati vadano moltiplicati di un fattore mal definito. Sappiamo quanti sono i tamponi effettuati (spesso non i soggetti “tamponati”), sappiamo quanti sono i casi ricoverati o in terapia intensiva, finanche il numero dei malati trasferiti in Paesi esteri, ma nulla dei contagiati asintomatici o paucisintomatici e anche di molti soggetti malati e morti di cui si stanno perdendo le tracce perché mai sono giunti a una diagnosi compiuta conferma che la mortalità da gennaio a marzo 2020 segna un rialzo impressionante se osserviamo le statistiche dei Comuni delle Regioni e Province del Nord più colpite dal COVID-19 e non la mortalità “spianata”, grezza e aggregata del totale nazionale, che include le Regioni del Centro e del Sud che non hanno avuto i picchi del resto di Italia. Citando dal Rapporto ISTAT-ISS del 04-05-2020, p. 2: “Il 91% dell’eccesso di mortalità riscontrato a livello medio nazionale nel mese di marzo 2020 si concentra nelle aree ad alta diffusione dell’epidemia: 3.271 comuni, 37 province del Nord più Pesaro e Urbino” e ancora “con incrementi percentuali dei decessi nel mese di marzo 2020, rispetto al marzo 2015-2019, a tre cifre: Bergamo (568%), Cremona (391%), Lodi (371%), Brescia (291%), Piacenza (264%), Parma (208%), Lecco (174%), Pavia (133%), Mantova (122%), Pesaro e Urbino (120%)”. “I dati della Sorveglianza integrata dell’ISS hanno evidenziato che la mortalità “diretta” attribuibile a Covid-19 in individui con diagnosi confermata, nel primo trimestre 2020 è stata di circa 13.700 decessi. Esiste una quota ulteriore di circa altri 11.600 decessi per la quale possiamo, con i dati oggi a disposizione, soltanto ipotizzare tre possibili cause: una ulteriore mortalità associata a Covid-19 (decessi in cui non è stato eseguito il tampone), una mortalità indiretta correlata a Covid-19 (decessi da disfunzioni di organi quali cuore o reni, probabili conseguenze della malattia scatenata dal virus in persone non testate, come accade per analogia con l’aumento della mortalità da cause cardiorespiratorie in corso di influenza) e, infine, una quota di mortalità indiretta non correlata al virus ma causata dalla crisi del sistema ospedaliero e dal timore di recarsi in ospedale nelle aree maggiormente affette” (vedi il Rapporto ISTAT-ISS del 04-05-2020, p. 3).

Tra le grandi sfide che le Fasi 2 e 3 pongono di fronte a tutti noi, vogliamo segnalarne tre in particolare:
A) Alcune parole chiave: coinvolgimento delle comunità, rafforzamento della sorveglianza e del sistema informativo. Per “modulare” le risposte di sanità pubblica, il Governo e il Ministero della Salute (Circolare del 06-05-2020, http://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus) hanno approvato una serie di indicatori, riuniti in 3 tabelle, che hanno la possibilità di monitorare l’andamento della diffusione dell’epidemia e di contribuire coerentemente a decidere le misure di mitigazione dell’isolamento e di chiusura delle attività. Dovremo convivere con il virus per parecchi mesi e sino almeno al 2021. Riportiamo qui la raccomandazione chiave dell’OMS per uscire dai vari lockdown: “occorre che le comunità siano pienamente consapevoli, coinvolte e preparate ad adeguarsi alla nuova normalità”. Pertanto gli operatori sanitari dovrebbero utilizzare tutti i canali di comunicazione: media, social media digitali, telefonate per orientare e coinvolgere i cittadini e le loro organizzazione di base (ONG, comitati di quartiere) nella sorveglianza attiva e sulle regole di protezione ed igiene. Inoltre, come per esteso raccomanda l’Associazione Italiana di Epidemiologia nei suoi documenti (AIE, Lettera aperta, 4 maggio 2020, www.epidemiologia.it), rafforzare la prevenzione sul territorio: per esempio il rafforzamento delle attività di identificazione dei casi, il loro isolamento extra-domiciliare, l’identificazione tempestiva dei contatti, l’estensione delle capacità di accertamento virologico dell’infezione a partire delle categorie ad alto rischio e l’identificazione dei focolai di contagio. Per realizzare questi obiettivi dobbiamo rafforzare di molto i servizi di sanità pubblica sul territorio, la sorveglianza e il sistema di raccolta dei dati epidemiologici. Gli organici dei Dipartimenti di Prevenzione vanno aumentati da subito, anche se naturalmente il personale va adeguatamente formato prima di essere effettivamente operativo. Il Ministero raccomanda di portare a 1 operatore della prevenzione sul territorio ogni 10.000 residenti, che equivale in Liguria a 150 operatori per 1,5 M di abitanti, il che non è impossibile. Questi operatori dovrebbero, in stretto coordinamento con i MMG, aumentare la capacità di identificazione dei casi sintomatici, di indagine e gestione dei contatti. Dato che le persone infettate e asintomatiche sono in grado di trasmettere virus 48 ore prima dei sintomi (vedi il Rapporto dell’ European Centre for Disease Prevention and Control, ECDC, 08-04-20, https://www.ecdc.europa.eu), chi è sospetto deve essere isolato entro 3 gg. da inizio sintomi e testato con il tampone immediatamente, e il risultato del test deve essere disponibile entro 5 gg. Per questo occorre un potenziamento della formazione e della disponibilità di organici e di attrezzature per i test molecolari, nei laboratori dedicati al COVID-19. Per poter misurare gli indicatori della circolare occorrono dati, ma il sistema informativo pubblico deve fare un salto di qualità. La raccolta e la registrazione elettronica dei dati per la loro trasmissione tempestiva, su base giornaliera attraverso software dedicati e l’uso da parte degli operatori di tablet, è già una pratica corrente per il controllo di altre epidemie (per esempio Ebola in Sierra Leone) in paesi poveri e a medio reddito di Africa, Asia e Sud America. Tecnologie “povere” che costano meno dei respiratori delle terapie intensive ma che impattano altrettanto se non di più (AIE, Rapporto 22-04-20 www.epidemiologia.it).

Un altro aspetto chiave: il controllo territoriale delle misure di prevenzione e tutela nei luoghi di lavoro e il ruolo delle imprese. Era scontato che ci fosse una forte pressione da parte degli imprenditori grandi e piccoli per la riapertura delle attività lavorative, ma dalla Fase 2 è necessaria una valutazione ed una categorizzazione del rischio da SARS-CoV-2 nelle diverse fasce di popolazione lavorativa (oltre che in quella generale), e nei diversi territori di un Paese variegato come il nostro: dovrebbe essere definita una vera e propria mappatura del rischio che consenta di interpretare e interrompere tempestivamente le reti di causazione del danno. Nella prima fase dell’emergenza è mancata una raccolta sistematica del dato relativo alla professione dei soggetti contagiati: tuttavia in questa nuova fase dovrebbe essere garantita la raccolta dei dati per luogo di residenza, età e specialmente luogo di lavoro. Questo dato epidemiologico è fondamentale e non può essere affidato ai dati INAIL, che sono lenti, rispetto alla sequenza giornaliera e settimanale dei casi e che tra l’altro rappresenterebbero solo una parte di questa notificazione, poiché in vari settori, non solo in edilizia ed in agricoltura, ci sono ancora moltissimi lavoratori irregolari, che sarebbero invisibili anche ai sistemi di rilevazione. In Portogallo a marzo il Governo ha deciso una iscrizione straordinaria ai registri del SSN di tutti i migranti irregolari che ne facessero richiesta per evitare questo “iceberg sommerso” di contagiati potenziali. L’epidemia attuale potrebbe essere l’occasione per un processo di regolarizzazione di almeno parte dell’enorme numero di lavoratori irregolari, non solo per le finalità etiche e di giustizia ma per la salvaguardia della salute collettiva; in questo senso va accolto positivamente (anche se ancora limitato) quanto definito nel Decreto “Rilancio” relativamente alla regolarizzazione dei lavoratori in nero nei settori dell’agricoltura, dell’allevamento e dell’assistenza.

Nelle fasi 2 e 3 avrà un ruolo fondamentale il sistema delle imprese: sulla capacità di queste, sulla loro consapevolezza di adempimento anche in termini di responsabilità sociale, si fonderà il contrasto o meno rispetto al rischio di ulteriori diffusioni del contagio; una questione critica, a maggior ragione se si pensa che il tessuto produttivo italiano si basa su un 95% di imprese con meno di 10 addetti, nelle quali le capacità organizzative e le capacità e disponibilità anche professionali in tema di sicurezza e salute (medico competente, ecc.) sono molto inferiori a quelle delle aziende medie e grandi. Allo stesso tempo non è inutile ricordare il mantenimento dell’attenzione e tutela verso tutti gli altri rischi lavorativi, che non possono essere trascurate in funzione dell’attenzione nei confronti dell’attuale rischio di contagio. I servizi pubblici di prevenzione e tutela di sicurezza e salute potranno in questa fase, oltre che assistere, “vigilare” direttamente sugli adempimenti messi in opera ma ovviamente non in modo capillare bensì, come sempre, in una ridotta percentuale di luoghi di lavoro.

B) Anche per la terza sfida, alcune parole chiave: centralizzazione delle decisioni epidemiologiche e riforma della medicina di base. L’attuale pandemia chiama in causa alcuni ripensamenti generali sulla priorità della difesa della salute nell’agenda dei Governi. Solamente un’epidemiologia coordinata a livello nazionale e non frammentata e disomogenea in 21 differenti Regioni e Province autonome, che abbia al centro la mappatura dei rischi di salute, la prevenzione a partire dal territorio quale sistema unitario e olistico di ambiente salubre e luoghi di lavoro sicuri e idonee condizioni di vita ovunque, può rappresentare una risorsa solida perché il COVID-19 non si ripeta o perché ad altre emergenze non si risponda con le stesse difficoltà incontrate in questa.

Priorità dei servizi sul territorio e del coordinamento tra medici di base, come raccomandano varie associazioni (vedi l’Appello e proposta di discussione e iniziativa di Medicina Democratica, 20-04-20, www.medicinademocratica.org). L’assistenza sanitaria territoriale non ha fatto fronte alla pandemia non per cattive volontà individuali, incompetenze, personale e mezzi insufficienti e scarsi investimenti, o almeno non solo. Siamo di fronte ad un deficit di struttura: organizzativo e gestionale. Voci autorevoli, quali Giuseppe Remuzzi, direttore dell’istituto Mario Negri e Andrea Filippi, segretario nazionale della CGIL medici, dichiarano che i medici di base dovrebbero avere un rapporto organico di dipendenza dal Servizio sanitario nazionale, in quanto il rapporto convenzionale non garantisce a sufficienza la qualità dell’intervento medico. Ma non basta un nuovo rapporto contrattuale, occorre un profondo mutamento dell’assetto organizzativo, a partire da una riorganizzazione della formazione della specializzazione in Medicina di base, con un livello di pari dignità a quella delle altre specializzazioni, come in Germania e nel Regno Unito. E’ urgente un progetto di riforma, che partendo dall’analisi dei bisogni sanitari della cittadinanza e dallo riflessione sui modelli già esistenti (in Italia e non solo), ridisegni il ruolo, i compiti e il modello organizzativo della medicina di base, che dovrebbe completare ed essere la solida piattaforma di una sanità pubblica profondamente rafforzata con investimenti e risorse umane di qualità, capace di dare risposte più efficaci alle esigenze di salute dei cittadini (ed anche maggiore dignità ad una figura professionale in parte screditata).

All'11 maggio il numero di casi della pandemia, confermati in tutto il mondo era 4.218.496: quasi 2 milioni riguardavano l’Europa, circa 1/3 gli Stati Uniti. I decessi “ufficiali” tra i contagiati hanno raggiunto complessivamente i 300.000. Questo quadro, tra l’altro come abbiamo detto assolutamente sottovalutativo della realtà, ci propone due riflessioni generali:
 L’epidemia COVID-19 come le 4 che l’hanno preceduta negli ultimi 10 anni (Sars-1, H1N1, MERS, Ebola) e quelle più remote nel tempo, HIV/AIDS, Influenza Asiatica, Poliomielite, Influenza Spagnola, etc.) non sono “democratiche”, in altre parole non colpiscono tutte le persone con la stessa frequenza e alla stessa maniera. Così il COVID-19 colpisce le persone anche in base alle disuguaglianze sociali e di reddito, lasciandole così ancor più grandi dopo di sé. La trasmissione è moltiplicata da assembramenti dovuti a trasporti di massa dei pendolari nei treni e autobus particolarmente affollati, da scuole e asili affollati, da concentrazioni di lavoratori nelle fabbriche e nelle catene commerciali di distribuzione, da concentramenti di anziani nelle residenze sanitarie con reddito medio-basso. Le persone che abitano i quartieri con degrado ambientale e abitanti delle periferie povere in Africa, Asia e America Latina sono e saranno impossibilitati a praticare il distanziamento sociale e qualsiasi forma di isolamento preventivo. Possiamo parlare di due pandemie: una che si è sviluppata nei paesi industrializzati e più ricchi (Cina, Sud Est Asiatico, Europa e Stati Uniti) e un’altra che non si è ancora pienamente sviluppata in paesi come lndia, Brasile, Paesi Africani Sub-sahariani e Paesi poveri del Centro e Sud America) i quali non hanno né le strutture sanitarie e i mezzi per curare i pazienti gravi SARS-COvid-2, né la possibilità di applicare le misure di distanziamento, protezione individuali, acqua e igiene personale che sono scontate nei paesi ricchi. Gli articoli di molti giornali ci rivelano che nei paesi coinvolti sono appunto i poveri, gli anziani delle RSA, le minoranze etniche (quali gli afroamericani e i latinos negli USA) a dare il maggior contributo di contagi e decessi. La dimensione pandemica e la gravità delle conseguenze produttive create dalle misure di contenimento hanno spinto molti politici, inclusi giornali come “Financial Times” di Londra, a chiedere ai Governi di guardare al COVID-19 come una minaccia di recessione mondiale peggiore del 1929 e a suggerire varie forme di reddito garantito di cittadinanza e la cancellazione dei debiti per tutti i paesi poveri del mondo.

 C’ è un aspetto comune che lega COVID-19-Sars-2 e le altre malattie che si sono diffuse dal 2000 ad oggi: si trasmettono dagli animali agli esseri umani. Sono zoonosi che “escono” dalle loro nicchie ecologiche (gli scienziati parlano di “spillover”, salto di specie) e attraverso alcune modifiche ed adattamenti, per esempio in animali allevati, invadono gli esseri umani. Suona allora mortifera e dissennata l’aspirazione generale di un “ritorno alla normalità” se appena riflettiamo che queste zoonosi sono la conseguenza diretta delle alterazioni o distruzioni degli ecosistemi naturali da parte di noi umani e che i danni agli ecosistemi sono l’effetto collaterale della nostra attività economica, del nostro insostenibile sviluppo neo-liberista che si fonda sull’inquinamento da energie fossili (petrolio e carbone), sulla deforestazione massiccia, sugli allevamenti intensivi di animali, sulla distribuzione industriale del cibo, sullo sfruttamento di risorse ambientali, sulle costruzioni e il cemento dovunque. In altre parole, ci vorrebbe una “nuova” normalità.

Conclusione. Quando saremo fuori dal COVID-19, quale sarà il prossimo patogeno? Sarebbe tempo di sovvertire le attuali priorità economiche neo-liberiste e portare al centro la fondamentale importanza del benessere sociale e la centralità delle relazioni sociali e delle comunità. La salute come “bene comune” al centro dell’attenzione, se imposto come priorità ai Governi, potrebbe essere l’occasione per riportare al centro altri “beni comuni” dimenticati dalla rincorsa alla crescita economica. Beni comuni fondati su valori che sarebbe “cosa buona e giusta” rinnovare: responsabilità individuale e collettiva, solidarietà, partecipazione nella consapevolezza.

Firmato da: Claudio Calabresi, Claudio Culotta, Marco Fallabrini, Antonio Manti, Bruno Piotti, Gianfranco Porcile, Rodolfo Tangari, Federico Valerio.

NOTE

1) E. Conticini et al. Can atmospheric pollution be considered a co-factor in extremely high level of SARS.-Cov-2 lethality in Northen Italy? Accepted for pubblication on Environmental Pollution, https://doi.org/10.1016/j.envpol.2020.114465.
2) Y. Ogen. Assessing nitrogen dioxide (NO2) levels as a contributing factor to coronavirus (COVID-19) fatality. Science of the Total Environ ment 726 (2020) 138605
3) https://www.researchgate.net/publication/340725833_Links_between_air_pollution_and_COVID-19_in_England

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