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MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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di Luisella Battaglia

Gli eventi catastrofici che abbiamo vissuto nel passato – da Seveso a Bhopal, da Chernobyl a Fukushima –, generando il timore di una contaminazione generalizzata della nostra vita quotidiana, ci hanno fatto percepire il lato oscuro della globalizzazione. Le catastrofi che ormai temiamo maggiormente sono quelle indotte dal nostro sistema socio-economico e dal nostro modo di vivere: non sono più, come un tempo, un’espressione della natura ma piuttosto del nostro rapporto tecnico e simbolico con essa e, aggiungerei, anche delle nostre difficili relazioni con le altre specie.
Basti pensare al caso ‘mucca pazza’ da cui era emerso anni fa in tutta la sua drammaticità il nodo cruciale, e eticamente ancora irrisolto, del rapporto tra umani e animali e che aveva spinto qualcuno a chiedersi se non fosse più appropriato parlare, anziché di mucca pazza, di homo demens, Un caso sollevato - come oggi avviene col coronavirus - dal fondato sospetto di una trasmissione del morbo attraverso un salto di specie, un sospetto che è stato frettolosamente rimosso, nonostante chiami in causa le enormi questioni della globalizzazione dei mercati e gli stessi equilibri politici ed economici del mondo. Ma cosa evoca il “salto di specie”? Non significa forse che abbiamo alterato equilibri, modificato rapporti, dimenticato sia le regole più elementari di prudenza sia le norme di rispetto che dovrebbero governare i nostri rapporti con le altre specie? Se il dominio dell’uomo è il risultato di una lunga guerra d’indipendenza dalla natura, gli animali rappresentano i prigionieri esibiti di un esercito trionfante. Certo, il confine per noi più difficile da attraversare, quello che più resiste alla compassione e sfida l’empatia è senz’altro quello della specie. Se è vero che l’etologia ci fornisce una serie di informazioni sulla vita degli animali e la complessità del loro comportamento, resta il fatto che continuiamo a pensarli quasi come alieni, provenienti da mondi diversi, le cui esperienze non hanno nulla a che vedere con la nostra vita. Non a caso alcuni anni fa proprio ad un pipistrello si riferiva un filosofo, Thomas Nagel, in un sofisticato saggio dal titolo “Che effetto fa essere un pipistrello?” per mostrare i limiti dell’empatia, ovvero l’impossibilità per noi umani di capire che cosa significa essere nella pelle di un altro animale. Ma ecco che il salto di specie ci ricorda che siamo più vicini, anzi pericolosamente vicini, legati da una parentela che non siamo disposti a riconoscere ma che dovrebbe, se meritassimo davvero di appartenere alla nobile famiglia dell’homo sapiens, sollecitare l’istanza di una riflessione bioetica in termini di una salute davvero globale. Come conciliare, ad esempio, i nostri standard di giustizia con i maltrattamenti inflitti agli animali, specie nella catena alimentare e industriale? “Dobbiamo estendere - risponde la filosofa Martha Nussbaum - la giustizia al di là dei confini della specie umana per occuparci della spaventosa situazione degli animali non umani, molti dei quali (quelli allevati dall’industria alimentare, ad esempio) vivono esistenze di grande dolore e privazione solo per soddisfare gli esseri umani”.
Quali sono i costi etici della nostra alimentazione? È irrilevante, dal punto di vista morale, quello di cui ci nutriamo? Se è vero che abbiamo superato le due angosce primordiali che ci hanno accompagnato dalla notte dei tempi - trovare cibo e non diventare cibo per altri - oggi siamo assaliti da altre paure. L’alimentazione, per la sua stessa complessità, diventa cartina di tornasole per testimoniare costumi, stili di vita, scelte morali, appartenenze, rapporti col proprio corpo, la terra e le altre specie, consapevolezza di nuovi diritti e di inedite responsabilità.
Se il problema della salute è globale la soluzione non può che essere globale. Per questo sarebbe auspicabile che un‘organizzazione internazionale come l’OMS (Organizzazione Mondiale Sanità) dinanzi all’emergenza della pandemia avesse maggiori poteri, oltre a quelli di dare direttive tecniche, consigliare, monitorare, istruire etc., avviando nuove forme di cooperazione. Un tema difficile, particolarmente delicato per i rapporti con i Servizi Sanitari nazionali che dovremmo, tuttavia, cominciare seriamente a discutere.

Articolo di Luisella Battaglia pubblicato venerd' 13 marzo 2020 in IL SECOLO XIX
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