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MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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“La rivoluzione silenziosa della medicina”. Così è stata chiamata la svolta che, a partire dagli anni 80 ha condotto a una nuova attenzione nei confronti del genere e di tutte le variabili che lo caratterizzano: biologiche, ambientali, culturali, sociali. Il tema delle differenze di genere ha progressivamente assunto una rilevanza centrale sia nella sperimentazione farmacologica che nella ricerca scientifica, al fine di garantire a ogni individuo l’appropriatezza terapeutica, rafforzando il concetto – fondamentale in bioetica – della centralità del paziente e, conseguentemente, della personalizzazione delle terapie. Occorre tuttavia sgombrare il campo da un equivoco: quello di chi pensa alla medicina di genere come alla medicina delle donne. Se è vero, infatti, che storicamente tale medicina inizia ad essere promossa sull’onda dei movimenti per la salute delle donne, in cui vengono messi in discussione i risultati delle sperimentazioni condotte su un solo sesso, quello maschile, per denunciare la sistematica sottovalutazione o l’errata interpretazione dei diversi sintomi femminili - da cui reazioni avverse ai farmaci, risposte terapeutiche inadeguate, etc, - il suo esito è stato quello di pervenire ad una medicina “genere-specifica” che guardi ad ogni persona nella sua specificità. Si tratta di porsi come obiettivo una condizione che prenda in considerazione i determinanti di salute intervenendo sui fattori di rischio e agendo sia sul piano della prevenzione primaria, attraverso l’adozione di stili di vita salutari, sia sul piano della prevenzione secondaria, mediante screening per diagnosi precise. Il genere risulta quindi un fattore determinante la salute. Basti pensare che l’OMS ha inserito fin dal 1998 la medicina di genere nell’Equity Act, a conferma che il principio di equità deve essere applicato all’accesso e all’appropriatezza delle cure, tenendo nel massimo conto le peculiarità individuali e che nel 2017 la medicina di genere è entrata tra gli obiettivi formativi del Servizio Sanitario nazionale con l’istituzione di un Centro di Riferimento per la promozione della ricerca e per lo sviluppo di una rete tra i vari centri italiani. Si tratta quindi di un approccio che apre una nuova prospettiva per il futuro della salute nella direzione di una maggiore equità, dal momento che tener conto delle differenze di genere significa poter adottare misure di contrasto delle disuguaglianze economiche e sociali presenti nelle diverse aree geografiche e che sono destinate a creare condizioni di disparità. Una sfida che rimane tra le più urgenti per il futuro tenendo anche conto di un ulteriore aspetto, quello della sostenibilità del nostro sistema sanitario. Quali gli obiettivi? In estrema sintesi: ridurre il livello d’errore nella pratica medica, promuovere l’appropriatezza terapeutica e farmacologica, personalizzare le terapie, migliorare il livello di ricerca, generare risparmi per il nostro servizio sanitario.
La medicina di genere sembra pertanto rientrare nel lungo percorso verso una ‘buona medicina’ che miri a guarire, e quindi ad essere efficace, ma anche preoccupata di essere giusta, rispettando i diritti della persona, e risultare appropriata nell’orizzonte della giustizia, prendendo in seria considerazione l’accesso ai servizi e l’equa distribuzione delle risorse.

Articolo pubblicato in IL SECOLO XIX, sabato 15 febbraio 2020

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