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MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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Pre Festival di Bioetica 2024

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Video incontri e convegni dell'Istituto Italiano di Bioetica

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La politica e il tabù dell’eutanasia.
Su vita e diritto l’Italia resta al palo.
Mauro Fusco
(tratto da: “D&G - Diritto & Giustizia” n. 38 del 21.10.2006)
Lo straziante appello-testimonianza di Piergiorgio Welby, co-presidente dell'Associazione Luca Coscioni ammalato di distrofia muscolare allo stadio terminale, e la sentita replica del Presidente Napolitano, contenente l’auspicio che il Parlamento raccolga le istanze di tanti malati nella stessa condizione dell’esponente radicale, hanno di recente riportato all’attenzione dei media il drammatico tema delle decisioni di fine vita. Come spesso accade in relazione ai temi di bioetica, dalla procreazione assistita alle cellule staminali, ancora una volta il fatto di cronaca ha il pregio di riproporre all’attenzione del mondo politico e della società civile questioni irrisolte che, tuttavia, richiederebbero ben più dell’attenzione evanescente destinata a spegnersi in pochi giorni insieme ai riflettori dei tanti talk-show televisivi. Se infatti oggi sembra possibile che il discorso sull’eutanasia e sulla sofferenza del malato terminale possa effettivamente dare luogo a qualcosa di concreto come l’avvio di un serio dibattito parlamentare, non si può fare a meno di osservare che simili speranze in passato siano state più volte ampiamente disattese.
Un tema scomodo
Prima di chiedersi cosa sia possibile aspettarsi dall’ennesimo “revival” mediatico, è quindi più che mai doveroso chiedersi in via preliminare perché nel nostro paese il dibattito politico e giuridico sui temi di fine vita abbia sempre avuto un esito poco felice. Accanto alle tradizionali difficoltà del legiferare in bioetica, aggravate nel nostro paese dalla tradizionale conflittualità tra orientamenti laici e cattolici presenti trasversalmente in tutti gli schieramenti parlamentari, la questione è ulteriormente complicata dal dato di fatto sociologico-culturale in base al quale la morte nella nostra società sia ancora una sorta di “tabù”. Nella società del benessere, in cui la salute non è più intesa come semplice assenza di malattie ma come fitness, ovvero corrispondenza ad un modello di perfezione eteroimposto dai media, la morte tende invero ad essere relegata in una dimensione privata, di inevitabile constatazione di una vulnerabilità che i modelli imposti alla società dai media impongono di nascondere. A costo di utilizzare un’espressione brutale, la morte in quanto tale non fa notizia né business e la riflessione che ne discende tende ad essere culturalmente emarginata in quanto nuoce alla dimensione edonistica e consumistica che domina la moderna società occidentale. Ecco quindi che, al di là del caso di cronaca singolarmente inteso, ogni dibattito su temi come eutanasia, sedazione terminale, terapia del dolore, stato vegetativo permanente, testamento biologico, ha sempre avuto vita troppo breve per portare ad una concreta disciplina giuridica di questioni che richiederebbero invece, come l’interruzione volontaria di gravidanza e la procreazione medicalmente assistita hanno dimostrato, un lavoro almeno decennale.
Linee di confine sfumate
Accanto alle difficoltà di natura sociologica e culturale appena delineate, va inoltre evidenziato che mai come sul tema della sofferenza terminale le linee di confine tra situazioni in apparenza diverse sono spesso così sfumate da rendere impossibile qualsivoglia astrazione, soprattutto di natura giuridica. L’esperienza assolutamente personale del dolore e della morte, nei molteplici modi in cui questa può manifestarsi, accomunati unicamente dall’impossibilità per la scienza medica di trovarvi una soluzione, rende infatti pressoché impossibile stabilire con certezza una netta separazione tra l’ammissibile e l’illecito e di operare valutazioni che prescindano dal singolo caso concreto.
Si pensi, ad esempio, alla questione della sedazione terminale (la somministrazione al malato terminale di farmaci che ne allevino la sofferenza mediante la riduzione del suo livello di consapevolezza, col medico che accetta l’eventualità che tale somministrazione possa anticiparne la morte), pratica al limite tra eutanasia attiva (ritenuta dai più inammissibile eticamente e giuridicamente) e cure palliative, ampiamente accettate dal mondo medico ma anche da quello cattolico (significativi sono in proposito gli storici interventi di Pio XII sul tema risalenti al lontano 1957). Allo stesso modo sicuramente difficile è definire con certezza la nozione di accanimento terapeutico, che l’art. 14 del vigente codice di deontologia definisce come “trattamenti, da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita”, utilizzando un concetto, quello di qualità della vita, assolutamente opinabile nonché estremamente soggettivo. Si considerino infine tutte le problematiche relative alla qualificazione dell’alimentazione artificiale come “normale mezzo di sostentamento” o vero e proprio “trattamento terapeutico” legittimamente rifiutabile dall’ammalato (o di chi, al posto suo, debba prestare il consenso all’atto medico), che emerge in tutta la sua gravità nei casi di stato vegetativo permanente, come hanno dimostrato le lunghe e travagliate vicende giudiziarie di Terry Schiavo e di Eluana Englaro (cfr. «Diritto & Giustizia» numero 19 del 14.05.2005, pp. 12 e ss).
Una questione di autonomia e di libertà
La situazione fin qui sommariamente descritta, sicuramente di per sé poco incoraggiante, risulta ancor più grave nel nostro paese, in cui la tutela dell’autonomia del singolo, la privacy secondo la più pura accezione britannica, fulcro di tutte le decisioni di fine vita, è senza dubbio meno radicata rispetto a gran parte degli altri paesi europei. In Italia è invero indiscutibile che tale autonomia sia, soprattutto su temi di bioetica, spesso e volentieri posta in secondo piano rispetto alla “tutela di valori” ritenuti spesso superiori, primo fra tutti l’esigenza di rispettare la sacralità della vita, ritenuta da numerosi esponenti del mondo politico un ostacolo insormontabile alla legalizzazione di qualsiasi forma di eutanasia. Al di là di ogni argomentazione sulla validità di tale principio, che richiederebbe di sicuro uno spazio ben più ampio di quello a disposizione, è senz’altro innegabile che l’affermazione di tali valori, inevitabilmente assoluti, mal si concili con uno scenario come quello delle decisioni di fine vita, estremamente variegato e profondamente legato al caso concreto.
A riguardo è infatti palese come qualsiasi decisione avente ad oggetto le scelte di fine vita non possa fare a meno di confrontarsi con la volontà del paziente terminale, con il suo personalissimo ed insindacabile approccio alla sofferenza e alla vita che si spegne inesorabilmente, senza che la medicina possa fare alcunché se non alleviarne in parte il dolore fisico. Tale volontà non è altro che l’affermazione dell’ormai irrinunciabile postulato rappresentato da quel principio di autonomia, consacrato nello strumento del consenso informato, che ha profondamente mutato il rapporto medico-paziente negli ultimi cinquant’anni. Se infatti è senz’altro pacifico che il consenso dell’interessato sia il presupposto legittimante di qualsivoglia atto medico, appare di certo difficile negare che l’autonomia del singolo possa trovare applicazione anche nelle decisioni di fine vita, anche laddove questo significhi anticipare il momento della morte.
Recenti casi di cronaca (famoso è il caso della donna siciliana ammalata di diabete che nel febbraio 2004 si lasciò morire rifiutando l’amputazione del piede in cancrena) hanno invero dimostrato come da un punto di vista strettamente giuridico il rifiuto delle cure sia diventato un vero e proprio diritto del singolo, sia dove esso sia determinato da scelte religiose (si pensi alle trasfusioni per i testimoni di Geova) che personali. Tra queste non può che annoverarsi anche l’implicito (ma non troppo) giudizio sulla qualità della propria vita, giudizio che, come si è visto prima, stante l’inutilità di qualsivoglia astrazione, può competere unicamente e insindacabilmente a chi vive tale esperienza in prima persona.
Testamento biologico: un traguardo possibile
Ricondotto il nucleo centrale delle problematiche nel suo alveo naturale, ovvero la volontà del malato, il successivo passo non può che essere l’individuazione dello strumento attraverso il quale tale volontà possa trovare espressione nonché tutela giuridicamente rilevante. Tale strumento non può che essere quello delle direttive anticipate di trattamento, indicate anche con le similari espressioni di testamento biologico, testamento di vita, living will, ecc. Esse, per usare la definizione data dal Comitato Nazionale di Bioetica nell’omonimo parere del 18 dicembre 2003, stanno tutte ad indicare il “documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato”. Si tratta quindi di un atto unilaterale, di natura medico-giuridica, con il quale ciascun individuo esprime “ora per allora” il proprio consenso o dissenso a determinate terapie mediche, evitando di far ricadere tale scelta sui propri familiari o sui medici nell’ipotesi in cui si trovi nell’impossibilità di prestarlo. Lo strumento consente di dare attuazione concreta a quanto previsto dall’art. 9 della Convenzione di Oviedo sui Diritti dell'Uomo e la biomedicina secondo cui “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione”. Analogamente anche l’art. 34 del vigente codice di deontologia medica del 1998 espressamente prevede che “il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell'indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona. Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso”.
Al di là di tali fondamentali disposizioni, che darebbero già, anche in assenza di legge, una certa rilevanza ad eventuali manifestazioni preventive della volontà del malato, è tuttavia intuitivo che, affinché tale strumento sia pienamente efficace, sia necessario un riconoscimento legislativo dello stesso, analogamente a quanto avviene già in molti paesi stranieri. In particolare, e con estrema approssimazione, è senz’altro prioritario che il legislatore definisca la forma di tale documento (plausibilmente scritta, con o senza le formalità testamentarie), le modalità di verifica della capacità dell’interessato, l’eventuale validità temporale dello stesso, le modalità di deposito presso istituzioni capaci di dialogare in tempo reale, in caso di necessità, con le strutture sanitarie, l’eventuale controfirma di un medico (per verificare che il consenso o il dissenso sia realmente “informato”), l’indicazione delle pratiche mediche rifiutabili e non, nonché la presenza ed il ruolo di un eventuale curatore o “fiduciario”.
Come si vede, il discorso su un eventuale riconoscimento normativo delle dichiarazioni anticipate di trattamento, auspicato dal Comitato Nazionale di Bioetica oltre che dal mondo medico, si presenta senz’altro più complesso di quanto potrebbe sembrare a prima vista, soprattutto per le resistenze di coloro che lo vedono come un primo passo per la legalizzazione di pratiche eutanasiche, piuttosto che come uno strumento per scongiurare forme di accanimento terapeutico e per tutelare la reale volontà del malato. Dall’altro lato non si può fare a meno di osservare, alla luce degli oltre cinquant’anni in cui il principio di autonomia ha progressivamente e inesorabilmente scalzato il paternalismo medico, che proporre oggi forme aggressive di controllo dello stato sulla libertà del singolo in relazione al come e al se curarsi, al vivere o al lasciarsi morire, appare quantomeno anacronistico anche per un paese che come il nostro è decisamente poco propenso a raccogliere istanze che all’estero sono già una realtà pluridecennale.
Prospettive per il difficoltoso intervento del legislatore
Come spesso accade per quanto riguarda i problemi di bioetica, l’Italia è infatti quasi sempre fanalino di coda per quanto concerne il passaggio dal dibattito speculativo (molto spesso fine a sé stesso) alla formazione del diritto. Se si considera che i primi dibattiti sul diritto ad una morte dignitosa negli Stati Uniti risalgono agli anni ’70 (si pensi ai casi celebri di Ann Quinlan e Nancy Cruzan), sicuramente lascia sconcertati rilevare che nel nostro paese nessuna delle proposte di legge in materia presentate a partire dal lontano 1984 sia mai arrivata all’esame delle aule parlamentari, essendosi le stesse sempre arenate nei lavori delle varie commissioni. Attualmente, al vaglio della Commissione Sanità del senato sono presenti otto disegni di legge di varia provenienza politica, che vanno dalla legalizzazione dell’eutanasia al divieto assoluto della stessa, passando per il riconoscimento giuridico delle direttive anticipate di trattamento. Tra le varie proposte presentate, proprio questo ultimo argomento è senz’altro quello con le maggiori chances non solo di approdare in parlamento ma anche di trasformarsi in atto normativo. Anche su tale tema, come si anticipava poc’anzi, è tuttavia ben più che lecito attendersi polemiche e divisioni all’interno dei vari schieramenti politici, soprattutto per quanto concerne i trattamenti rifiutabili nonché la definizione di accanimento terapeutico, a causa del timore, più demonizzato che reale, di introdurre forme mascherate di eutanasia. Parlare di eutanasia, al di là dell’ondata di commozione causata dall’appello di Welby, è invero ancora una sorta di tabù per gran parte del mondo politico italiano e ben poche sono pertanto le possibilità che nel nostro paese sia avviato un processo di depenalizzazione dell’eutanasia attiva o del suicidio assistito già conclusosi con forme diverse nei Paesi Bassi, in Belgio, in Svizzera e in Svezia.
La piena tutela dell’autonomia del singolo anche di fronte alle scelte estreme, come quella che in questi giorni ha compiuto, con estrema lucidità e coraggio, Piergiorgio Welby rivendicando il proprio diritto ad una morte dignitosa, appare quindi un obiettivo ancora troppo lontano per il legislatore italiano, sebbene sia quantomeno doveroso sperare che questa volta, a differenza che in passato, si possa almeno iniziare un dibattito capace di sopravvivere allo spegnimento dei riflettori dei media.
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