Genova, P.zza Verdi 4/4 - 16121

 
MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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Lorenzo De Caprio
Gli equivoci dell'eutanasia
<<Il medico, nel rapporto con il paziente deve improntare la sua attività nel rispetto dei diritti fondamentali della persona>> recita il Codice Deontologico. La ovvia dichiarazione di principio non è stata nel passato ovvia. Solo da poco e non senza “difficoltà” il diritto all’autodeterminazione si è trasferito in medicina, e solo oggi il principio d’Autonomia mette al riparo la persona del paziente dalle scelte arbitrarie e paternalistiche di un medico che, aggiunge il Codice, <non può e non deve intraprendere alcuna attività diagnostica e/o terapeutica senza il consenso esplicito dell’interessato… In ogni caso, in presenza d’esplicito rifiuto o di ritiro del consenso precedentemente espresso, il medico deve desistere da qualsiasi atto diagnostico o curativo>. Alla luce dalla giurisprudenza e dalla bioetica “laica” e “cattolica”, Welby ,in quanto “persona” e persona capace d’intendere e volere ha tutto il diritto di rifiutare il supporto respiratorio, ed il medico ha l’obbligo morale prima e giuridico poi di “staccare la spina”. Infatti, l’azione del medico è moralmente legittima solo in presenza di consenso ed è illegittima, anche giuridicamente perseguibile, in sua assenza. Sotto questo aspetto il rifiuto di Welby non è diverso da quello di una signora che tempo addietro rifiutò l’intervento “salvavita” d’amputazione e scelse in piena autonomia di morire. In sostanza, per chiudere gli occhi al povero Welby non serve altra legge. Non gli serve il Testamento Biologico che, derivato dal consenso informato, consente ad una persona, oggi capace d’intendere e volere, di esprimere in anticipo consenso o rifiuto nei riguardi di futuri trattamenti sanitari in caso di eventuale perdita di autonomia decisionale. Una legge del genere consentirebbe solo l’ interruzione dei trattamenti in persone incapaci d’intendere e volere ma mantenute in condizioni di artificiale sopravvivenza forzata, a condizione che queste abbiano prima espresso un’opinione al riguardo.
Se si nega a Welby il diritto all’autodeterminazione, implicitamente si restaura il vecchio paternalismo medico, si cancella con un colpo solo il principio di Autonomia, la disciplina del consenso informato e tutte le condanne inferte ai medici per assenza o vizio di consenso. Il medico dunque può staccare la spina ed a ciò, tra l’altro, è “giuridicamente” sollecitato dal Codice Deontologico, che all’art.14, definendo l’ “accanimento terapeutico”, prescrive: <il medico deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita>. Nella vicenda Welby, come nei casi precedenti, confliggono due opposte concezioni della vita. La battaglia sul “diritto di morire” (in pace) verte sul valore cosmico, intrinseco che noi, sia laici che credenti, in quanto viventi umani necessariamente attribuiamo alla Vita; ed è per questo questi conflitti hanno una natura “religiosa”. Coloro che paventano nella scelta di Welby una sorta di legittimazione del suicidio e che, gridando all’eutanasia, si oppongono al “lasciar morire”, sottolineano l’argomento che la vita, in quanto tale, è “sacra” e che il diritto di Welby alla libertà dalla inutile sofferenza debba cedere davanti al valore assoluto della Vita. Queste persone intendono dire che la vita di Welby sia pure ridotta in quell’orribile stato, è ancora Vita; non intendono dire che sia necessariamente contro gli interessi di Welby permettergli di morire. Potrebbero perfino ammettere, al contrario, che sia nel suo interesse morire.
Il conflitto è tra due modi “religiosi” d’intendere la vita; tra quelli che ritengono che la vita, anche se ridotta a semplice sopravvivenza artificiale, è sacra in quanto la vita è di per se stessa sacra, e quelli che sollevano la vita umana dalla mera esistenza animale e sostengono che la vita per essere “umana” debba avere qualità aggiunte, tali da sacralizzarla nell’umano, rendendola Vita degna d’essere vissuta dall’uomo. In questa prospettiva, l’accanimento sopravviene quando la tecnica medica si limita a prolungare la mera vita in modo del tutto innaturale ed è su questa condanna che fermamente convergono, pur con diverse argomentazioni, tanto la bioetica cosiddetta laica che quella cosiddetta cattolica. Al contrario, chi si esprime a favore della sopravvivenza ad oltranza di Welby giustifica quella pratica disumana ed ascientifica che va sotto il nome di accanimento terapeutico, e non per caso queste stesse persone parlano di “eutanasia passiva”. Espressione del tutto fuorviante, da respingere in quanto confonde il ragionevole lasciar morire (in pace) una persona agonizzante, già condannata dalla malattia, con l’omicidio e lo criminalizza assimilandolo alle pratiche naziste. Espressione tuttavia molto comune che fa capire quanto sia forte il vincolo ideologico, sociale e giuridico che costringe, da un lato, il medico a combattere strenuamente e vanamente la morte e che dall’altro morti-fica il paziente condannandolo alla Vita.
[1]Carta degli Operatori Sanitari. Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari. Città del Vaticano 1995 pp89-114.
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