Commento al documento del CNB sulle Direttive anticipate di trattamento
Raffale Prodomo
Il documento sulle direttive anticipate, recentemente reso pubblico dal Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) offre un utile contributo alla discussione etico-politica di un tema estremamente importante[1]. Si tratta del riconoscimento dell’autodeterminazione individuale in ambito medico, in altre parole del diritto di scegliere se e come curarsi. In questo senso si tratta solo di riconoscere, anche a chi non ha più la possibilità di esprimere una volontà attuale, il potere di determinare cosa deve essere o non essere fatto sul proprio corpo. In altra occasione ho definito il tema delle direttive anticipate come una nuova frontiera del consenso-informato, la frontiera temporale che allarga al futuro prevedibile la potestà decisionale del paziente consentendogli di effettuare dichiarazioni di volontà anticipate con un valore eticamente e giuridicamente vincolante per gli operatori sanitari[2]. Il tutto inserito, quindi, nel più generale contesto dell’evoluzione del rapporto medico-paziente: da un paternalismo spesso venato da tinte autoritarie a una atmosfera di rispetto e valorizzazione delle libertà individuali[3].
Come rendere ossequio, sia nella forma che nella sostanza, al principio di autodeterminazione nel caso di malattie ad uno stadio in cui la mente è offuscata o addirittura assente?
Nel dibattito internazionale sulla materia si sono affermati due strumenti di valore etico-giuridico: la dichiarazione anticipata, in forma anche scritta, di una serie di volontà da mettere in atto al concretizzarsi di determinate situazioni cliniche e l’individuazione di una figura particolare di fiduciario nominato, a tutela dei propri interessi di salute, dal soggetto stesso. La combinazione tra le due proposte prevede, in sintesi, che, spesso in situazione di benessere, sia redatto e sottoscritto un documento contenente dichiarazioni di volontà a futura memoria, intese a precisare cosa si accetta e cosa si rifiuta come terapia medica. L’interpretazione autentica del documento viene poi demandata al fiduciario nominato dallo stesso dichiarante, mentre il medico è tenuto a rilevare la sussistenza dello stato di cose previsto dalle dichiarazioni e, dopo tale accertamento fattuale, è tenuto a rispettare la scelta di valore e le priorità indicate dal suo assistito[4].
Entrambi questi strumenti sono previsti e proposti nel documento del CNB, il quale, su questo punto, rappresenta una non equivoca indicazione per il legislatore, chiamato a ribadire attraverso gli opportuni provvedimenti legislativi un principio peraltro già presente nell’ordinamento. Opportunamente sono ricordati, infatti, sia il codice deontologico dei medici sia la Convenzione di Oviedo sulla bioetica, documenti che, seppure con diverso valore, sono indicativi del già avvenuto accoglimento nel nostro ordinamento del principio di rispettare le volontà espresse in anticipo da un malato non più in grado di farlo al momento[5]. Si sono così poste le condizioni di un necessario e ampio consenso sul piano etico perché l’argomento non sia più eluso o accantonato politicamente (sperando, ovviamente, che da queste premesse si produca una legislazione bioetica più rispettosa del pluralismo di quanto non sia stata la legge sulla fecondazione assistita!).
L’accettazione del principio è stata, infatti, il frutto di un compromesso raggiunto tra varie anime e orientamenti culturali, più o meno favorevoli al riconoscimento delle direttive anticipate, presenti nel Comitato. Lo sforzo di conciliare prospettive divergenti emerge in primo luogo sul piano stilistico. Dalla lettura del testo si nota, ad esempio, un uso cauto ed attento delle specificazioni avverbiali con un dosaggio sapiente delle aggettivazioni che, nell’insieme, tendono a circoscrivere, attenuare e precisare il più possibile dichiarazioni di principio a prima vista molto nette e forti. Ma oltre a questa generale impressione stilistica abbiamo almeno due punti in cui il documento sfiora questioni altamente controverse.
Il primo punto è relativo alla possibilità di inserire nelle direttive anticipate il rifiuto di nutrizione e idratazione artificiale nonché di quelle terapie che, pur non configurando un accanimento terapeutico in senso stretto, potrebbero essere considerate, comunque, sproporzionate. Per non parlare, ovviamente, della possibilità che nelle direttive siano accolte esplicitamente richieste di eutanasia attiva. A tale proposito nel documento viene diligentemente registrato il parere di quanti non ritengono giustificabile eticamente allargare la sfera della disponibilità individuale fino a questo punto. Tuttavia, pur essendoci opinioni controverse la conclusione espressa collegialmente sembrerebbe essere quella di prevedere anche la possibilità del rifiuto di nutrizione e idratazione artificiale (il testo non è del tutto chiaro ed esplicito). Del resto se la logica era quella di estendere nel futuro le scelte possibili nel presente e in stato di coscienza, siccome è possibile coscientemente rifiutare idratazione e nutrizione (non solo artificiali) non si vede perché questa scelta dovrebbe essere negata a chi non può più esprimere una volontà attuale.
Diversa è, invece, la questione circa l’eutanasia attiva. Questa evenienza, allo stato, è esclusa dal nostro ordinamento e dovrebbe essere espunta dal dibattito sulle direttive anticipate per ragioni di opportunità pragmatica. Non che una discussione pubblica sull’eutanasia attiva non sia utile o auspicabile, solo essa non va confusa con l’argomento delle direttive anticipate: le due cose sono collegate ma possono e devono essere distinte. Sull’eutanasia attiva, infatti, le divergenze culturali sono ancora molto nette e ben difficili da ricomporre, sulle direttive anticipate, come il documento del CNB dimostra, è, al contrario, possibile un ampio consenso per intersezione tra le diverse etiche[6].
Il secondo punto sul quale vale la pena di soffermarsi criticamente è quello relativo al valore da assegnare a tali manifestazioni di volontà: una mera espressione di desideri e preferenze soggettive da tenere presenti ma non determinanti la decisione terapeutica o un vincolo assoluto che gli operatori sanitari non possono eludere?
La dicotomia è presentata nel documento con la strategia stilistica prima sottolineata del compromesso avverbiale. Ecco come si esprimono i saggi del Comitato nazionale per la Bioetica: <>[7].
Tale distinzione tra il meramente orientativo e l’assolutamente vincolante potrebbe essere interpretata in due modi molto diversi tra loro.
Una prima più auspicabile interpretazione (probabilmente anche la più plausibile tenendo conto dell’ispirazione generale del testo) è la seguente: ci sono dichiarazioni di volontà che prevedono l’accettazione o il rifiuto di terapie in determinate circostanze e condizioni cliniche, il medico o le accerta e, quindi, si comporta di conseguenza come il paziente ha lasciato scritto, oppure, tali condizioni empiriche, secondo il suo punto di vista tecnico, non si verificano e, quindi, non si mettono in atto le disposizioni. Inteso così il concetto che le dichiarazioni anticipate siano non (assolutamente) vincolanti ma nemmeno (meramente) orientative ha un senso. Al medico viene lasciata l’ampia facoltà di discernere e accertare tecnicamente la situazione di fatto, egli non è vincolato in modo assoluto a dare per presente la situazione ipotizzata dall’estensore delle direttive (controversia evidentemente possibile solo nei confronti di un fiduciario che ritenesse al contrario di trovarsi nella situazione prevista dal dichiarante). Questa sembra, in effetti, l’interpretazione del testo più in sintonia con le dichiarazioni di principio a favore del prevalere della volontà del paziente nei confronti dei rigurgiti di paternalismo medico.
Certo, è lecito chiedersi se tale distinzione fosse proprio necessaria e funzionale alla chiarezza espositiva e non sia, al contrario, possibile fonte di cattive interpretazioni che reintroducono il paternalismo che si vorrebbe escludere. Non è, infatti, implicito nel rapporto medico-paziente che i dettagli clinici della situazione siano (ovvia) prerogativa del medico, il quale addirittura è tenuto, nell’informare e rendere partecipe della valutazione della realtà il paziente, a utilizzare un linguaggio comprensibile?
Su questo non c’è alcun dubbio in ambito deontologico e giuridico: il ruolo del paziente nella decisione del programma terapeutico è prevalente non in funzione di una competenza tecnica bensì in ragione del diritto a scegliere il corso di cose valutato come migliore sul piano delle conseguenze di vita. Sul terreno delle valutazioni esistenziali il medico è prescrittivamente muto, non può far altro che dare consigli o esortazioni! Nel peggiore dei casi, quando cioè le scelte del paziente gli sembrino moralmente inaccettabili, può rifiutarsi in coscienza di assisterlo e passare ad altri professionisti l’onere della cura.
Il pericolo della ricordata definizione (<>) potrebbe essere, invece, quello di una errata o capziosa interpretazione come facoltà per il medico di dissentire dal paziente non sul piano della valutazione fattuale ed empirica, ma sul piano normativo e prescrittivo. In altri termini, la non assolutezza del vincolo potrebbe slittare dal piano dei giudizi di fatto a quello dei giudizi di valore. Questo sarebbe inaccettabile e incoerente con l’interpretazione delle direttive anticipate come ulteriore affermazione, in chiave anti-paternalistica, dell’autonomia decisionale del paziente. Una tale lettura del testo minerebbe alle fondamenta il valore deontologico e giuridico delle stesse dichiarazioni anticipate di trattamento.
In conclusioni, il testo in questione, sul piano squisitamente teorico, si potrebbe definire, celiando, non proprio (meramente) ambiguo ma nemmeno (assolutamente) chiaro!
Al di là della celia resta l’importanza dell’affermazione di principio delle direttive anticipate come estensione della libertà decisionale del paziente. Ulteriori e più esplicite specificazioni teoriche potranno poi seguire nel dibattito pubblico che, da un tale documento, può essere avviato e agevolato ma non certo chiuso, mentre lo spazio per definire procedure giuridicamente vincolanti è lasciato alla capacità di elaborazione e di mediazione delle forze politiche in sede legislativa. [1] CNB, Dichiarazione anticipate di trattamento, 18 dicembre 2003, consultabile sul sito www.governo.it
[2] sia consentito il rinvio a R. Prodomo, Le nuove frontiere del consenso informato, in M. Barni (a cura di), Bioetica, deontologia e diritto per un nuovo codice professionale del medico, Giuffrè, Milano 1999, pp. 179-181
[3] sia consentito il rinvio a R. Prodomo, Medicina e libertà individuali, Alfredo Guida Editore, Napoli 1997; Id., Lineamenti di una bioetica liberale, Apeiron, Bologna 2003
[4] per un excursus storico e un’analisi teorica della questione si veda G. Macellari, Il testamento biologico. Una questione di vita e di morte, Vicolo del Pavone, Piacenza 2003; S. Spinanti, F. Petrelli, Scelte etiche ed eutanasia, Paoline, Milano 2003
[5] Art. 9 della Convenzione di Oviedo: <>.
Art. 34 del Codice deontologico dei medici italiani (1998): <>
[6] Per una sottolineatura di questa possibilità di consenso (con l’auspicio di una sua realizzazione), si rinvia ancora a R. Prodomo, Lineamenti di una bioetica liberale, cit., capitolo finale, Un’etica pubblica per la fine della vita, pp. 144-153
[7] CNB, Dichiarazione anticipate di trattamento, cit. , p. 14 (il corsivo è mio)
Come rendere ossequio, sia nella forma che nella sostanza, al principio di autodeterminazione nel caso di malattie ad uno stadio in cui la mente è offuscata o addirittura assente?
Nel dibattito internazionale sulla materia si sono affermati due strumenti di valore etico-giuridico: la dichiarazione anticipata, in forma anche scritta, di una serie di volontà da mettere in atto al concretizzarsi di determinate situazioni cliniche e l’individuazione di una figura particolare di fiduciario nominato, a tutela dei propri interessi di salute, dal soggetto stesso. La combinazione tra le due proposte prevede, in sintesi, che, spesso in situazione di benessere, sia redatto e sottoscritto un documento contenente dichiarazioni di volontà a futura memoria, intese a precisare cosa si accetta e cosa si rifiuta come terapia medica. L’interpretazione autentica del documento viene poi demandata al fiduciario nominato dallo stesso dichiarante, mentre il medico è tenuto a rilevare la sussistenza dello stato di cose previsto dalle dichiarazioni e, dopo tale accertamento fattuale, è tenuto a rispettare la scelta di valore e le priorità indicate dal suo assistito[4].
Entrambi questi strumenti sono previsti e proposti nel documento del CNB, il quale, su questo punto, rappresenta una non equivoca indicazione per il legislatore, chiamato a ribadire attraverso gli opportuni provvedimenti legislativi un principio peraltro già presente nell’ordinamento. Opportunamente sono ricordati, infatti, sia il codice deontologico dei medici sia la Convenzione di Oviedo sulla bioetica, documenti che, seppure con diverso valore, sono indicativi del già avvenuto accoglimento nel nostro ordinamento del principio di rispettare le volontà espresse in anticipo da un malato non più in grado di farlo al momento[5]. Si sono così poste le condizioni di un necessario e ampio consenso sul piano etico perché l’argomento non sia più eluso o accantonato politicamente (sperando, ovviamente, che da queste premesse si produca una legislazione bioetica più rispettosa del pluralismo di quanto non sia stata la legge sulla fecondazione assistita!).
L’accettazione del principio è stata, infatti, il frutto di un compromesso raggiunto tra varie anime e orientamenti culturali, più o meno favorevoli al riconoscimento delle direttive anticipate, presenti nel Comitato. Lo sforzo di conciliare prospettive divergenti emerge in primo luogo sul piano stilistico. Dalla lettura del testo si nota, ad esempio, un uso cauto ed attento delle specificazioni avverbiali con un dosaggio sapiente delle aggettivazioni che, nell’insieme, tendono a circoscrivere, attenuare e precisare il più possibile dichiarazioni di principio a prima vista molto nette e forti. Ma oltre a questa generale impressione stilistica abbiamo almeno due punti in cui il documento sfiora questioni altamente controverse.
Il primo punto è relativo alla possibilità di inserire nelle direttive anticipate il rifiuto di nutrizione e idratazione artificiale nonché di quelle terapie che, pur non configurando un accanimento terapeutico in senso stretto, potrebbero essere considerate, comunque, sproporzionate. Per non parlare, ovviamente, della possibilità che nelle direttive siano accolte esplicitamente richieste di eutanasia attiva. A tale proposito nel documento viene diligentemente registrato il parere di quanti non ritengono giustificabile eticamente allargare la sfera della disponibilità individuale fino a questo punto. Tuttavia, pur essendoci opinioni controverse la conclusione espressa collegialmente sembrerebbe essere quella di prevedere anche la possibilità del rifiuto di nutrizione e idratazione artificiale (il testo non è del tutto chiaro ed esplicito). Del resto se la logica era quella di estendere nel futuro le scelte possibili nel presente e in stato di coscienza, siccome è possibile coscientemente rifiutare idratazione e nutrizione (non solo artificiali) non si vede perché questa scelta dovrebbe essere negata a chi non può più esprimere una volontà attuale.
Diversa è, invece, la questione circa l’eutanasia attiva. Questa evenienza, allo stato, è esclusa dal nostro ordinamento e dovrebbe essere espunta dal dibattito sulle direttive anticipate per ragioni di opportunità pragmatica. Non che una discussione pubblica sull’eutanasia attiva non sia utile o auspicabile, solo essa non va confusa con l’argomento delle direttive anticipate: le due cose sono collegate ma possono e devono essere distinte. Sull’eutanasia attiva, infatti, le divergenze culturali sono ancora molto nette e ben difficili da ricomporre, sulle direttive anticipate, come il documento del CNB dimostra, è, al contrario, possibile un ampio consenso per intersezione tra le diverse etiche[6].
Il secondo punto sul quale vale la pena di soffermarsi criticamente è quello relativo al valore da assegnare a tali manifestazioni di volontà: una mera espressione di desideri e preferenze soggettive da tenere presenti ma non determinanti la decisione terapeutica o un vincolo assoluto che gli operatori sanitari non possono eludere?
La dicotomia è presentata nel documento con la strategia stilistica prima sottolineata del compromesso avverbiale. Ecco come si esprimono i saggi del Comitato nazionale per la Bioetica: <>[7].
Tale distinzione tra il meramente orientativo e l’assolutamente vincolante potrebbe essere interpretata in due modi molto diversi tra loro.
Una prima più auspicabile interpretazione (probabilmente anche la più plausibile tenendo conto dell’ispirazione generale del testo) è la seguente: ci sono dichiarazioni di volontà che prevedono l’accettazione o il rifiuto di terapie in determinate circostanze e condizioni cliniche, il medico o le accerta e, quindi, si comporta di conseguenza come il paziente ha lasciato scritto, oppure, tali condizioni empiriche, secondo il suo punto di vista tecnico, non si verificano e, quindi, non si mettono in atto le disposizioni. Inteso così il concetto che le dichiarazioni anticipate siano non (assolutamente) vincolanti ma nemmeno (meramente) orientative ha un senso. Al medico viene lasciata l’ampia facoltà di discernere e accertare tecnicamente la situazione di fatto, egli non è vincolato in modo assoluto a dare per presente la situazione ipotizzata dall’estensore delle direttive (controversia evidentemente possibile solo nei confronti di un fiduciario che ritenesse al contrario di trovarsi nella situazione prevista dal dichiarante). Questa sembra, in effetti, l’interpretazione del testo più in sintonia con le dichiarazioni di principio a favore del prevalere della volontà del paziente nei confronti dei rigurgiti di paternalismo medico.
Certo, è lecito chiedersi se tale distinzione fosse proprio necessaria e funzionale alla chiarezza espositiva e non sia, al contrario, possibile fonte di cattive interpretazioni che reintroducono il paternalismo che si vorrebbe escludere. Non è, infatti, implicito nel rapporto medico-paziente che i dettagli clinici della situazione siano (ovvia) prerogativa del medico, il quale addirittura è tenuto, nell’informare e rendere partecipe della valutazione della realtà il paziente, a utilizzare un linguaggio comprensibile?
Su questo non c’è alcun dubbio in ambito deontologico e giuridico: il ruolo del paziente nella decisione del programma terapeutico è prevalente non in funzione di una competenza tecnica bensì in ragione del diritto a scegliere il corso di cose valutato come migliore sul piano delle conseguenze di vita. Sul terreno delle valutazioni esistenziali il medico è prescrittivamente muto, non può far altro che dare consigli o esortazioni! Nel peggiore dei casi, quando cioè le scelte del paziente gli sembrino moralmente inaccettabili, può rifiutarsi in coscienza di assisterlo e passare ad altri professionisti l’onere della cura.
Il pericolo della ricordata definizione (<>) potrebbe essere, invece, quello di una errata o capziosa interpretazione come facoltà per il medico di dissentire dal paziente non sul piano della valutazione fattuale ed empirica, ma sul piano normativo e prescrittivo. In altri termini, la non assolutezza del vincolo potrebbe slittare dal piano dei giudizi di fatto a quello dei giudizi di valore. Questo sarebbe inaccettabile e incoerente con l’interpretazione delle direttive anticipate come ulteriore affermazione, in chiave anti-paternalistica, dell’autonomia decisionale del paziente. Una tale lettura del testo minerebbe alle fondamenta il valore deontologico e giuridico delle stesse dichiarazioni anticipate di trattamento.
In conclusioni, il testo in questione, sul piano squisitamente teorico, si potrebbe definire, celiando, non proprio (meramente) ambiguo ma nemmeno (assolutamente) chiaro!
Al di là della celia resta l’importanza dell’affermazione di principio delle direttive anticipate come estensione della libertà decisionale del paziente. Ulteriori e più esplicite specificazioni teoriche potranno poi seguire nel dibattito pubblico che, da un tale documento, può essere avviato e agevolato ma non certo chiuso, mentre lo spazio per definire procedure giuridicamente vincolanti è lasciato alla capacità di elaborazione e di mediazione delle forze politiche in sede legislativa. [1] CNB, Dichiarazione anticipate di trattamento, 18 dicembre 2003, consultabile sul sito www.governo.it
[2] sia consentito il rinvio a R. Prodomo, Le nuove frontiere del consenso informato, in M. Barni (a cura di), Bioetica, deontologia e diritto per un nuovo codice professionale del medico, Giuffrè, Milano 1999, pp. 179-181
[3] sia consentito il rinvio a R. Prodomo, Medicina e libertà individuali, Alfredo Guida Editore, Napoli 1997; Id., Lineamenti di una bioetica liberale, Apeiron, Bologna 2003
[4] per un excursus storico e un’analisi teorica della questione si veda G. Macellari, Il testamento biologico. Una questione di vita e di morte, Vicolo del Pavone, Piacenza 2003; S. Spinanti, F. Petrelli, Scelte etiche ed eutanasia, Paoline, Milano 2003
[5] Art. 9 della Convenzione di Oviedo: <>.
Art. 34 del Codice deontologico dei medici italiani (1998): <>
[6] Per una sottolineatura di questa possibilità di consenso (con l’auspicio di una sua realizzazione), si rinvia ancora a R. Prodomo, Lineamenti di una bioetica liberale, cit., capitolo finale, Un’etica pubblica per la fine della vita, pp. 144-153
[7] CNB, Dichiarazione anticipate di trattamento, cit. , p. 14 (il corsivo è mio)