Un atto d’amore non è mai un test di laboratorio
Luisella Battaglia
(tratto da "Il Secolo XIX", 19 febbraio 2009, pag.19)
“Credo che un figlio debba essere sempre un atto d’amore, non un esperimento di laboratorio”. La dichiarazione severa di monsignor Fisichella si riferisce alla vicenda della giovane donna di Vigevano che ha chiesto di avere un figlio dal marito ricoverato in coma irreversibile, a causa di un gravissimo tumore al cervello, al San Matteo di Pavia. Ancora una volta, dinanzi all’impiego della tecnologia in campo procreativo, - la moglie ha richiesto che venga prelevato il liquido seminale per poi sottoporsi alla fecondazione assistita – è prevalsa, da parte delle gerarchie ecclesiastiche, la condanna incondizionata: la metodologia sembra avere il potere di pervertire ogni finalità umana come, in questo caso, il progetto di avere un figlio dall’uomo amato contro il destino e in nome di una grande speranza. Si tratta di un gesto arrogante, di una sfida contro Dio? Mi sembra davvero difficile non definire questa richiesta un atto d’amore: perché pensare che il bimbo che (forse) nascerà debba sentirsi frutto di un ‘esperimento di laboratorio’, una sorta di homunculus, un essere artificiale e meccanico, e non invece un figlio vero, fortemente voluto, chiamato alla vita da un amore così forte da sconfiggere la morte? Che un figlio sia un ‘esperimento’, un oggetto anziché un soggetto, non di pende dalle modalità della sua procreazione ma da quelle della sua accoglienza... Il dato più paradossale è che in tal modo, con questa forte enfasi sull’elemento biologico del procreazione, viene trascurata quella dimensione simbolica che la rende propriamente umana: sono le intenzioni, le attese, le speranze a conferire senso e significato ad un evento che non appartiene più alla sola fisicità ma entra a pieno titolo nel mondo dei valori.
Ciò detto,la vicenda presenta aspetti assai complessi dal punto di vista etico e giuridico e non a caso ha suscitato un vivace dibattito. L’aspetto più problematico è rappresentato evidentemente dal consenso dell’uomo, dal momento che per la fecondazione “in vitro” è necessario il consenso di entrambi i coniugi. Questioni simili sono state affrontate quando, ad esempio, un detenuto è stato autorizzato ad avere un figlio dalla moglie lontana grazie alle tecniche di procreazione assistita o quando molti giovani americani, al tempo della guerra in Vietnam o, più recentemente, durante l’ultima guerra irakena, hanno depositato in apposite banche il seme che le loro compagne avrebbero potuto utilizzare per attuare il comune desiderio di una discendenza. Casi che ci mostrano come il corpo sia ormai sottratto al tempo e possa, per così dire, continuare ad esercitare alcune sue funzioni – come quella procreativa – anche quando la sua esistenza è conclusa. I nostri pareri possono divergere sul significato di questo desiderio, testimonianza per alcuni di una sorta di bizzarra ‘necrofilia’ gravida di oscure conseguenze e per altri invece di una tenace volontà di sopravvivere in un rapporto d’amore che si estende oltre la morte. Al di là della nostra personale valutazione, il caso presente è comunque significativamente diverso a causa, appunto, dell’assenza di un consenso esplicito dell’interessato. E’ possibile o, meglio, è lecito presumerlo? Quale conto fare dei desideri della moglie che nella sua richiesta si presenta come interprete della volontà del coniuge? La risposta che si è data è stata quella di nominare un tutore in grado si esprimerne la volontà: la scelta è caduta sul padre,con un chiaro riferimento sia all’appartenenza familiare sia alla responsabilità che si dovrà assumere in nome del figlio che nascerà.. Una soluzione che appare per molti aspetti un ragionevole compromesso nel suo tener conto di una molteplicità di fattori degni di umana comprensione ma che manifesta, ancora una volta, il ritardo con cui il nostro paese ha affrontato la questione delle cosiddette ‘dichiarazioni anticipate’. Si tratti di una scelta di morte o di vita, la persona deve essere al centro delle decisioni che la riguardano: perché dunque non pensare ad un testamento biologico che indichi colla massima chiarezza anche le volontà relative ad una serie di decisioni attinenti il nostro corpo e la destinazione eventuale delle sue funzioni? Se non vogliamo che la nostra vita e la nostra morte diventino “un esperimento di laboratorio”, solo a noi spetta questa suprema decisione che è insieme un atto di libertà e di responsabilità.
Ciò detto,la vicenda presenta aspetti assai complessi dal punto di vista etico e giuridico e non a caso ha suscitato un vivace dibattito. L’aspetto più problematico è rappresentato evidentemente dal consenso dell’uomo, dal momento che per la fecondazione “in vitro” è necessario il consenso di entrambi i coniugi. Questioni simili sono state affrontate quando, ad esempio, un detenuto è stato autorizzato ad avere un figlio dalla moglie lontana grazie alle tecniche di procreazione assistita o quando molti giovani americani, al tempo della guerra in Vietnam o, più recentemente, durante l’ultima guerra irakena, hanno depositato in apposite banche il seme che le loro compagne avrebbero potuto utilizzare per attuare il comune desiderio di una discendenza. Casi che ci mostrano come il corpo sia ormai sottratto al tempo e possa, per così dire, continuare ad esercitare alcune sue funzioni – come quella procreativa – anche quando la sua esistenza è conclusa. I nostri pareri possono divergere sul significato di questo desiderio, testimonianza per alcuni di una sorta di bizzarra ‘necrofilia’ gravida di oscure conseguenze e per altri invece di una tenace volontà di sopravvivere in un rapporto d’amore che si estende oltre la morte. Al di là della nostra personale valutazione, il caso presente è comunque significativamente diverso a causa, appunto, dell’assenza di un consenso esplicito dell’interessato. E’ possibile o, meglio, è lecito presumerlo? Quale conto fare dei desideri della moglie che nella sua richiesta si presenta come interprete della volontà del coniuge? La risposta che si è data è stata quella di nominare un tutore in grado si esprimerne la volontà: la scelta è caduta sul padre,con un chiaro riferimento sia all’appartenenza familiare sia alla responsabilità che si dovrà assumere in nome del figlio che nascerà.. Una soluzione che appare per molti aspetti un ragionevole compromesso nel suo tener conto di una molteplicità di fattori degni di umana comprensione ma che manifesta, ancora una volta, il ritardo con cui il nostro paese ha affrontato la questione delle cosiddette ‘dichiarazioni anticipate’. Si tratti di una scelta di morte o di vita, la persona deve essere al centro delle decisioni che la riguardano: perché dunque non pensare ad un testamento biologico che indichi colla massima chiarezza anche le volontà relative ad una serie di decisioni attinenti il nostro corpo e la destinazione eventuale delle sue funzioni? Se non vogliamo che la nostra vita e la nostra morte diventino “un esperimento di laboratorio”, solo a noi spetta questa suprema decisione che è insieme un atto di libertà e di responsabilità.