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MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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Diagnosi preimpianto: oggi si può? Le situazione dopo il cambio di rotta del T.A.R. Lazio
(pubblicato su Diritto & Giustizi@ del 29.1.2008)
di Mauro Fusco
(dottore di ricerca in Bioetica – Università degli Studi di Napoli Federico II)
La sentenza
Un brusco cambiamento di rotta. E’ questa forse l’espressione che meglio descrive la sentenza del T.A.R. per il Lazio n. 398 del 21 gennaio scorso (il testo è pubblicato sul numero del 24.1.2008 di questa Rivista) che rappresenta l’ultima, ma solo in senso cronologico, tappa del burrascoso iter giudiziario, innanzi al giudice amministrativo, del D.M. 21.07.2004 avente ad oggetto le linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita. Fatto ed antefatto: le linee guida, la diagnosi preimpianto e l’iter processuale Emanate a poco più di quattro mesi dall’entrata in vigore della tanto contestata legge sulla procreazione assistita, in applicazione dell’art. 7 della medesima, le linee guida avrebbero dovuto avere il compito, almeno così era nell’intenzione del legislatore, in conformità alla loro natura di atto regolamentare, di fornire agli operatori del settore “le indicazioni delle procedure e delle tecniche” ai fini dell’applicazione pratica delle tecniche stesse. In realtà, un esame anche soltanto superficiale del D.M. in questione è sufficiente per rendersi conto di come, accanto alla specificazione delle tecniche e delle procedure, con tale atto il Ministero della Salute introduceva ulteriori limiti a quelli, già onerosi, imposti dal testo di legge, soprattutto con riferimento alla prescrizione secondo cui gli esami sullo stato di salute degli embrioni creati in vitro dovessero essere limitati alla sola indagine osservazionale, che di fatto metteva fuori legge praticamente ogni forma di diagnosi preimpianto.
Utilizzando la locuzione, quantomeno controversa, di “finalità eugenetica” le linee guida rendevano, infatti, esplicitamente vietato il ricorso a tutte quelle indagini cromosomiche, effettuate sull’embrione nei primi stadi del suo sviluppo, capaci identificare precocemente eventuali disfunzioni o patologie ereditarie tra cui l’emofilia, la beta-talassemia, la fibrosi cistica, l’atrofia muscolare spinale, l’anemia falciforme, la distrofia muscolare di Duchenne-Becker e numerose altre. Prima dell’entrata in vigore della legge e delle relative linee guida, la diagnosi preimpianto consentiva a coppie portatrici di tali patologie ereditarie di creare in vitro un certo numero di embrioni e trasferire eventualmente in utero solo quelli risultati sani all’esito della diagnosi preimpianto.
Avverso tale divieto ed avverso numerosi altri punti controversi del D.M. in questione, nel novembre 2004 l’Associazione W.A.R.M. (World Association Reproductive Medicine), alla quale fanno capo numerose strutture sanitarie e centri autorizzati ad effettuare trattamenti di procreazione assistita, depositava innanzi al T.A.R. Lazio un ricorso particolarmente articolato con il quale si chiedeva l’annullamento del Decreto Ministeriale e si sollevava contestualmente la questione di legittimità costituzionale in relazione ad alcune norme della legge 40. Il ricorso, nel quale intervenivano anche il comitato per la tutela della salute della donna, il forum delle associazioni familiari ed il movimento per la vita, veniva deciso con la sentenza n. 3452 del 9 maggio 2005 (cfr. il supplemento settimanale cartaceo «D&G» a questa rivista, n. 21 del 28.5.2005) che respingeva in modo anche abbastanza deciso tutte le richieste dell’associazione ricorrente, ritenendo altresì infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate nel corso del processo.
Avverso la sentenza l’associazione ricorrente proponeva appello dinanzi al Consiglio di Stato che, con sentenza del 19 dicembre 2006, accogliendo un’eccezione di natura procedurale (l’inammissibilità dell’intervento in giudizio degli interventori ad opponendum per tardività), annullava la precedente pronunzia e rinviava gli atti al giudice di prima istanza. Fissata una nuova udienza pubblica il 31 ottobre 2007, la causa veniva di nuovo discussa dinanzi al T.A.R. Lazio che, del tutto inaspettatamente, con la sentenza n. 398 cambiava radicalmente il proprio orientamento accogliendo, seppur in parte, le richieste dell’associazione ricorrente con motivazioni su cui vale senz’altro la pena, seppur brevemente, soffermarsi.
La sentenza n. 398/08 in breve
Tralasciando gli aspetti meramente procedurali e le relative eccezioni, la sentenza di recente pubblicata si pone sotto molti aspetti sulla medesima linea della precedente decisione resa dal Tribunale Amministrativo nel medesimo contenzioso. In entrambe le sentenze, ad esempio, viene ritenuto corretto il procedimento seguito dal Ministero nella redazione delle linee guida e non necessaria una particolare motivazione sulle scelte procedurali adottate dal Ministero, stante la natura regolamentare dell’atto in questione ed il suo contenuto tecnico altamente discrezionale. Anche nella recente pronunzia, inoltre, vengono ritenute non accoglibili le censure relative alla mancata definizione dell’embrione che, secondo i giudici, “non può competere ad un’Autorità amministrativa […] né essere disciplinata da un regolamento, per di più ministeriale”, o quelle relative all’utilizzo, sicuramente poco ortodosso, almeno dal punto di vista medico, dei termini di infertilità e sterilità come sinonimi. Esito analogo in entrambe le decisioni hanno inoltre avuto le obiezioni inerenti all’obbligo di certificazione dell’infertilità da parte del medico, escluso nei casi di sterilità idiopatica o inspiegabile ed all’informazione sui costi nelle strutture pubbliche, ritenuta sufficiente ed adeguata al pari delle cautele sull’utilizzo dei dati personali delle coppie interessate.
Tenore ben diverso ha invece la sentenza n. 398 in relazione al già richiamato divieto di diagnosi preimpianto contenuto esplicitamente nelle linee guida ed oggetto del sesto motivo di ricorso. Se infatti, a tal proposito, la sentenza del maggio 2005 aveva ritenuto che “il divieto di diagnosi preimpianto risulta coerente con la legge n. 40, ed in particolare con quanto prescritto dall’art. 13, II comma”, sorprende rilevare come, a distanza di poco più di due anni, la medesima sezione del T.A.R,. in relazione al medesimo ricorso, rilevi l’illegittimità della norma in questione sostenendo che “in buona sostanza, fermo il generale divieto di sperimentazione su ciascun embrione umano, la legge n. 40 del 2004 consente la ricerca e la sperimentazione e gli interventi necessari per finalità terapeutiche e diagnostiche se volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione, le Linee Guida riducono tale possibilità alla sola osservazione”. Secondo la ricostruzione contenuta nella sentenza n. 398, il Decreto Ministeriale, introducendo un’ulteriore restrizione rispetto a quanto previsto dalla legge, avrebbe travalicato i limiti e le finalità che l’ordinamento e lo stesso art. 7 della legge 40 ha attribuito alla regolamentazione ministeriale, ovvero la disciplina delle procedure e delle tecniche di procreazione assistita. In proposito i giudici amministrativi correttamente argomentano che “si tratta di disposizione che riconosce all’Autorità amministrativa, ministeriale, il potere di adottare regole di alto contenuto tecnico e di natura eminentemente procedurale e non quello di intervenire, positivamente, sull’oggetto della procreazione medicalmente assistita che rimane consegnata alla legge”. Di qui la decisione, senza dubbio inaspettata, ma sicuramente corretta, adottata dai giudici capitolini di “accogliere in parte il ricorso relativamente al sesto motivo di gravame e per l’effetto annullare la disposizione delle Linee Guida in materia di procreazione medicalmente assistita approvate con D.M. 21 luglio 2004 nella parte riguardante le Misure di Tutela dell’embrione laddove si statuisce che ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell'articolo 13, comma 5, dovrà essere di tipo osservazionale”.
Un discorso analogo può essere fatto in relazione al settimo motivo di ricorso con cui la W.A.R.M. contestava la legittimità costituzionale, per violazione degli art. 2, 3 e 32 della Costituzione, delle Linee Guida nella parte in cui non consentono la crioconservazione degli embrioni al fine dell’impianto e ne prevedono la formazione in un numero limitato fino ad un massimo di tre, da impiantare contestualmente. La censura si ripercuote inevitabilmente sull’articolo 14, commi 2 e 3, della legge 40 del 2004 di cui le norme regolamentari impugnate costituiscono la mera e letterale applicazione e nel quale è lo stesso legislatore a imporre il limite di tre embrioni e ad ammettere che la crioconservazione esclusivamente nell’ipotesi in cui il trasferimento nell'utero degli embrioni non risulti possibile per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna e comunque fino alla data del trasferimento, da realizzare non appena possibile. Sul punto si osserva che la medesima eccezione di incostituzionalità era stata fermamente respinta nel 2005 con una rigida motivazione fondata sul presupposto per cui “le linee guida hanno effettuato un ragionevole bilanciamento (forse, l’unico possibile) tra la tutela dell’embrione e la tutela della salute della donna, compatibile con il riconoscimento anche all’embrione della soggettività giuridica”. Sulla base di tale punto fermo i giudici laziali affermavano originariamente che “è innegabile l’afflittività di tali pratiche mediche (auspicabilmente destinate a ridursi con la possibilità di congelare ovociti, anziché embrioni), ma non sembra risolversi stricto iure in un dubbio di illegittimità costituzionale della norma, in quanto il diritto alla salute della donna va bilanciato, come si diceva in precedenza, con la tutela dell’embrione”. A conclusioni diametralmente opposte perviene invece la sentenza n. 398/08, nella quale si legge: “Sembra al Collegio che la nuova disciplina, che dichiara di essere ispirata allo scopo “…di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana” contrasti con l’articolo 3 della Costituzione nella misura in cui rivela una sua intrinseca irrazionalità violando il canone di ragionevolezza, contrasti ancora con il medesimo articolo 3 per quanto attiene alla parità di trattamento e con l’articolo 32 della Costituzione nella misura in cui consente pratiche che non bilanciano adeguatamente la tutela della salute della donna con la tutela dell’embrione”. Sorprende invero scoprire come per il medesimo T.A.R., le norme relative alla predeterminazione del numero di embrioni ed al divieto di crioconservazione, ritenute solo due anni fa “l’unico bilanciamento possibile”, appaiano oggi “rivelarsi non in linea con quel bilanciamento di interessi (tutela dell’embrione – procreazione) che la legge n. 40 del 2004 sembra voler perseguire” e, dunque, sospette di incostituzionalità. L’argomentazione dei giudici del 2008 si fonda, e questa è senza dubbio la novità più importante, su un’interpretazione della legge 40, sicuramente poco letterale ma senza dubbio condivisibile, secondo cui la tutela dell’embrione che emerge nelle molteplici disposizione di legge vada intesa “non in modo assoluto ma in modo affievolito dalla necessità che la tecnica di procreazione medicalmente assistita utilizzata concretamente sia tale da consentire di raggiungere concrete aspettative di gravidanza”. Di qui la decisione di rimettere alla valutazione della Corte Costituzionale l’art. 14 commi 2 e 3 della legge n. 40 per contrasto con gli articoli 3 e 32 della Costituzione. Qualcosa è cambiato? Possibili motivazioni di un cambiamento annunciato Il brusco cambio di orientamento da parte dei giudici del T.A.R. romano si presta ad una ben ampia serie di interpretazioni, rectius congetture, che sicuramente trascendono dal mero cambiamento dei giudici componenti il Collegio giudicante. E’ difficile, invero, dare una risposta certa su quali valutazioni siano a fondamento di una decisione sicuramente storica che mette in discussione, e finanche annulla, alcune delle disposizioni maggiormente restrittive della normativa in materia di procreazione medicalmente assistita.
Sicuramente un’utile chiave di lettura può essere data dal fatto che negli ultimi mesi alcune corti di merito si erano espresse in favore di coppie portatrici di malattie trasmissibili che chiedevano, in via d’urgenza, di poter effettuare la diagnosi preimpianto e di trasferire in utero soltanto gli embrioni risultati sani. Ci si riferisce in particolare alla sentenza resa dal giudice Grazia Cabitza del Tribunale di Cagliari del 22 settembre scorso (cfr. Diritto e giustizi@ del 23.10.2007) con cui una coppia di Quartu Sant’Elena in Sardegna, affetta da sterilità e portatrice sana di betatalessemia, vedeva accolta la propria richiesta di effettuare presso l’ASL di appartenenza la diagnosi preimpianto prima di procedere nuovamente al trasferimento in utero degli embrioni ottenuti tramite procreazione assistita. Con tale pronunzia veniva per la prima volta disapplicata, perché ritenuta contraria al dettato costituzionale, la norma, contenuta nelle linee guida, che vieta la diagnosi preimpianto, stante l’accertata ed indubbia assenza di qualsivoglia finalità eugenetica del ricorso a tale pratica. La diagnosi preimpianto veniva infatti correttamente ritenuta un’applicazione del diritto alla piena consapevolezza sui trattamenti sanitari, diritto esplicitamente tutelato dall’art. 6 e dall’art. 14, 5° comma della stessa legge 40, oltre che dalle principali normative nazionali e internazionali in materia di sanità.
A considerazioni del tutto analoghe perveniva, soltanto alcuni giorni or sono, il giudice Isabella Mariani del Tribunale di Firenze che, con ordinanza del 17 dicembre scorso, accoglieva il ricorso ex art. 700 c.p.c. di una coppia affetta da esostosi multipla, un’altra grave malattia genetica ereditaria. I coniugi in questione chiedevano di disapplicare, in modo analogo a quanto fatto dal Tribunale di Cagliari, le norme delle linee guida contrarie alla diagnosi preimpianto e di derogare altresì ai divieti, previsti dalla legge, che limitano il numero di embrioni creabili in vitro e ne vietano la crioconservazione. Anche in tal caso, l’applicazione al caso concreto delle “migliori regole della scienza in relazione alla salute della madre” (locuzione presente nello stesso dispositivo dell’ordinanza) veniva ritenuta prevalente rispetto a quanto disposto dalla regolamentazione legislativa, in applicazione di quel principio, forse non tenuto abbastanza in considerazione dal legislatore, secondo cui è l’autonomia del medico ed il miglior interesse del paziente che devono dettare legge quando è in discussione il diritto fondamentale alla salute della persona.
Come è facile rendersi conto, le pronunzie appena citate hanno, di fatto, aperto la strada ad uno scardinamento, attuato nella non proprio idonea sede giudiziaria, di quella normativa che, pur criticata da più parti e spesso tacciata di incostituzionalità, è rimasta di fatto inalterata sin dalla sua emanazione, nonostante sia stata sottoposta al vaglio di quattro quesiti referendari ed al giudizio della Corte Costituzionale (cfr. ordinanza n. 369 del 9 novembre 2006 pubblicata su «Diritto e giustizi@» on line del 10.11.2006 e commentata su «D&G» n. 43 del 25.11.2006). Parimenti inefficaci si sono rivelati, in materia, i numerosi quanto accademici propositi di modifica susseguitisi negli ultimi anni, rimasti, al pari di numerose altre iniziative legislative su altri temi scottanti di bioetica come il testamento biologico, soltanto vane promesse appese al sottile filo di una stentata maggioranza parlamentare. Sotto questo punto di vista la recente sentenza del T.A.R. romano può essere senz’altro interpretata come una sorta di “spinta” data dalla giustizia amministrativa all’esecutivo affinché provveda a sostituire quantomeno le linee guida, anche in considerazione del fatto che quelle attualmente vigenti sono “scadute” l’agosto scorso (l’art. 7 della legge 40 prevede infatti che le stesse siano aggiornate periodicamente, almeno ogni tre anni, in rapporto all'evoluzione tecnico-scientifica). Oggi si può?
La situazione di incertezza interpretativa causata dalle molteplici pronunzie di merito e dalla pendenza di un nuovo giudizio dinanzi alla Corte Costituzionale non consente di concludere questa breve disamina disponendo di sicurezze sul futuro della normativa italiana in materia di procreazione medicalmente assistita. A questo va necessariamente aggiunto che la situazione di incertezza e crisi politica in cui versa attualmente il nostro paese lascia ben poche speranze circa una possibile modifica entro tempi brevi delle linee guida in sede ministeriale o della legge 40 in sede parlamentare. Parimenti difficile è ipotizzare in un intervento per così dire “risolutivo” della Consulta, che seguirebbe, in ogni caso, i tempi notoriamente lunghi dei giudici delle leggi.
Allo stato di fatti, tuttavia, la sentenza n. 398 ha comunque l’indubbio pregio di aver annullato il divieto esplicito di diagnosi preimpianto contenuto nelle linee guida, ragion per cui non dovrebbe essere più necessario, per le coppie portatrici di malattie trasmissibili che desiderino un figlio sano, richiederne la disapplicazione ai giudici di merito o, peggio, affidarsi alla “lotteria della natura” ed eventualmente ricorrere tardivamente all’interruzione di gravidanza. Il condizionale è, tuttavia, purtroppo d’obbligo, atteso che, come giustamente hanno evidenziato i giudici di Corte Costituzionale nella già citata ordinanza n. 369/2006 ed il giudice Donatella Satta del Tribunale di Cagliari nella relativa ordinanza di rimessione (cfr. «D&G» n. 33 del 17.9.2005): “il divieto della diagnosi preimpianto è comunemente desunto anche dalla interpretazione della legge alla luce dei suoi criteri ispiratori, dai quali emerge la preoccupazione di restringere entro limiti rigorosi la ricerca scientifica sugli embrioni, in via generale vietata salvo le eccezioni previste dalla legge, nonché l'intento di garantire in tale ottica la massima tutela della salute e dello sviluppo dell'embrione” nonché dal divieto generale di crioconservazione e di soppressione di embrioni, contenuto nell’art. 14 della legge stessa. Alla luce di queste considerazioni non si può, quindi, che concludere ancora una volta con l’amara consapevolezza del fatto che l’incertezza normativa sui temi di bioetica e l’incapacità del legislatore italiano di porvi un argine finiscono quasi sempre con il pesare sulla situazione già difficile dei medici ma soprattuto delle coppie con problemi di infertilità o portatrici di malattie trasmissibili, per le quali è una ben magra consolazione sapere che qualcosa sta cominciando, seppur faticosamente, a cambiare.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio - Sede di Roma -Sezione III quater
composto dai seguenti magistrati:
Dr. Mario Di Giuseppe - Presidente
Dr. Linda Sandulli - Consigliere relatore
Dr. Carlo Taglienti - Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 11530 del 2004 proposto da Warm – World Association Reproductive Medicine, Associazione senza fini di lucro, in persona del vice presidente Erminio Striani, rappresentata e difesa dagli avvocati Gian Carlo Muccio, Gianluigi e Valeria Pellegrino, Erminio Striani ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avvocato Pellegrino in Roma, Corso Rinascimento 11;
CONTRO
Il Ministero della Salute, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è legalmente domiciliato in Roma Via dei Portoghesi 12; il Consiglio Superiore della Sanità, in persona del rappresentante legale in carica, non costituito; l’Istituto Superiore della Sanità, in persona del rappresentante legale in carica, non costituito
e con l’intervento ad opponendum
- della Federazione Nazionale dei Centri e dei Movimenti per la Vita Italiani (Movimento per la vita), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Ciro Intino ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, Via della Giuliana 50;
del Comitato per la tutela della salute della donna, in persona del legale rappresentante in carica e del Forum delle Associazioni Familiari, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentati e difesi dagli avvocati Aldo e Isabella Loiodice, i quali sono elettivamente domiciliati in Roma, Via Ombrone 12, palazzina B;
per l’annullamento
del D.M. 21 luglio 2004, pubblicato nella G.U. 16 agosto 2004 S.G. n. 191, contenente le “Linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita”;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visti gli atti della causa;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Salute e gli atti di intervento ad opponendum della Federazione Nazionale dei Centri e Movimenti per la Vita e del Forum delle Associazioni Familiari e del Comitato per la salute della donna;
Nominato relatore all’Udienza Pubblica del 31 ottobre 2007 il consigliere dr. Linda Sandulli e sentiti gli avvocati come da verbale d’udienza ;
ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
Con ricorso tempestivamente notificato e depositato la World Association Reproductive Medicine - Warm –associazione che organizza e rappresenta gli interessi collettivi di centri e di professionisti svolgenti attività di procreazione medicalmente assistita, impugna, chiedendone l’annullamento, il decreto ministeriale riferito in epigrafe, contenente le linee guida in tale materia.
Deduce i seguenti motivi:
1) Violazione e falsa applicazione dell’articolo 3 della legge n. 241 del 1990 per omessa motivazione o lacunosità della medesima. Eccesso di potere sotto il medesimo profilo. Violazione dell’articolo 7 della legge n. 40 del 2004 nella parte in cui è stata nominata una commissione non prevista dalla legge per fornire il parere di competenza dell’Istituto Superiore di Sanità. Eccesso di potere sotto il medesimo profilo. Vizio del procedimento. Violazione dei principi di trasparenza.
2) Violazione di legge per omessa definizione del termine embrione anche agli effetti della sua configurazione giuridica; eccesso di potere sotto lo stesso profilo; invalidità derivata.
3) Violazione di legge ed eccesso di potere del provvedimento impugnato nella parte in cui dichiara sinonimi i termini di infertilità e sterilità.
4) Eccesso di potere nella parte in cui sotto il titolo “accesso alle tecniche” si impone che la certificazione dello stato di infertilità (che sarebbe sinonimo di sterilità) sia effettuata dagli specialisti del Centro di fecondazione assistita.
5) Violazione di legge ed eccesso di potere del provvedimento impugnato nella parte in cui sotto il titolo “consenso informato” non viene chiarito che l’informazione da dare alle coppie sui costi del trattamento ricade anche sugli enti pubblici, nel caso di attività istituzionale a pagamento, ai sensi dell’articolo 15 quinquies del D. Lgs. n. 502 del 1992, ovvero di attività libero professionale intramoenia a pagamento ai sensi dell’articolo 15 ter e seguenti del D. Lgs. n. 502 del 1992 e successive modificazioni.
6) Eccesso di potere per ingiustizia manifesta, irrazionalità e violazione dei principi comuni in materia di tutela della salute. Falso supposto di fatto e diritto; contraddittorietà, violazione degli articoli 12, 13 e 14 della Convenzione di Oviedo.
7) Eccesso di potere per ingiustizia manifesta ed irrazionalità del provvedimento gravato nella parte in cui sotto il titolo “Limiti all’applicazione delle tecniche sugli embrioni” impone al comma 2 la creazione di un numero di embrioni comunque non superiore a tre. Violazione dell’articolo 32 della Costituzione. In subordine illegittimità costituzionale dell’articolo 14 della legge n. 40 del 2004.
8) Eccesso di potere per cattivo uso del potere conferito sotto il profilo dell’omissione, consistente nella mancata indicazione al medico del comportamento che deve essere tenuto nel caso di crioconservazione, la donazione ad altra coppia e la distruzione dell’embrione.
9) Violazione del D. Lgs. n. 196 del 2003 in materia di trattamento e conservazione di dati sensibili. Eccesso di potere sotto lo stesso profilo; invalidità derivata del provvedimento gravato nella parte in cui sotto il titolo “registrazione e mantenimento dei dati” prevede che i contenitori che racchiudono i gameti riportino le generalità dei soggetti che li hanno prodotti e/ o cui sono destinati.”.
Si è costituita in giudizio l’Amministrazione intimata che, dopo aver eccepito l’inammissibilità del ricorso per impugnazione di un atto non immediatamente lesivo, ha controdedotto alle argomentazioni della ricorrente e chiesto il rigetto del gravame.
Sono, poi, intervenute nel giudizio, con intervento ad opponendum, Il Forum delle Associazioni Familiari, la Federazione Nazionale dei Centri e Movimenti per la vita e il Comitato per la tutela della salute della donna.
Tutti hanno sollevato alcune eccezioni di inammissibilità del ricorso e contestato la sua infondatezza nel merito.
Con sentenza n. 3452 del 7 aprile e del 5 maggio 2005 la sezione III ter di questo Tribunale ha respinto il ricorso.
E’ stato interposto appello avanti al Consiglio di Stato il quale ha accolto l’eccezione di inammissibilità per tardività dell’intervento in giudizio degli interventori ad opponendum, sollevata in prime cure dalla ricorrente – e respinta dal medesimo giudice –in base alla prevalenza dell’articolo 40 del R.D. 17 agosto 1907 n. 642, contenente le disposizioni sul regolamento di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, sull’articolo 23, quarto comma, della legge 6 dicembre 1971 n. 1034 che imporrebbe la notifica dell’atto di intervento almeno 10 giorni prima dell’udienza, pronunciandosi con la sentenza 19 dicembre 2006. Ha così proceduto alla restituzione degli atti al giudice di prima istanza.
In prossimità dell’udienza di discussione della causa le parti costituite hanno presentato memoria con la quale hanno ulteriormente illustrato le rispettive tesi difensive dopo aver, preliminarmente sollevato eccezioni in rito.
All’udienza del 31 ottobre 2007 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
Va, preliminarmente, precisato che sulla legittimazione ad agire dell’associazione ricorrente, secondo quanto si evince anche dalla sentenza del Consiglio di Stato prima riferita, non vi è alcuno spazio di riesame atteso che si è ormai formato il giudicato.
Il giudice dell’appello, prima di esaminare l’eccezione di difetto del contraddittorio, per la quale ha disposto il rinvio della questione a questo giudice e di cui si dirà in appresso, ha, infatti, rilevato che sul capo della sentenza riguardante il profilo ora esposto non vi era gravame e, trattandosi di questione il cui esame precede, logicamente, quello relativo al perfetto instaurarsi del contraddittorio ne ha posto in evidenza l’inoppugnabilità, proprio in ragione di quanto appena esposto, vale a dire a causa della mancanza di espressa impugnazione, sul punto.
Va, anche disattesa l’eccezione di difetto di interesse alla decisione conseguente al fatto che nel caso in esame l’atto gravato avrebbe natura di circolare applicativa.
Il D.M. 21 luglio 2004 ha infatti, carattere immediatamente precettivo secondo quanto risulterà chiaro dall’esame delle singole censure che lo riguardano e che di seguito verranno svolte.
Va, poi, ulteriormente precisato che l’odierno giudizio riguarda tutti i motivi di ricorso proposti all’atto dell’introduzione del primo gravame in quanto la sentenza di annullamento e di rinvio a questo giudice, pronunciata dal Consiglio di Stato ai sensi dell’articolo 35 della legge n. 241 del 1990, ha eliminato integralmente e in radice la sentenza del giudice di prima istanza.
A questa conclusione si perviene in ragione del vizio riscontrato dal giudice di appello che riguarda l’inammissibilità in quel giudizio, per tardività, dell’intervento ad opponendum proposto dal Comitato e dall’Associazione indicati in epigrafe.
Si tratta, infatti, di un vizio che ha pregiudicato il corretto instaurarsi del contraddittorio e che può aver influito, per tale via, sulla corretta formazione della volontà e sul convincimento del giudice sicché è necessario che si proceda ad una nuova e piena formazione della volontà del Collegio, esigenza nella quale si rinviene il fondamento del presente gravame.
Va ricordato che nel processo amministrativo, l'appello ha carattere impugnatorio, sicché se è onere dell'appellante investire puntualmente il "decisum" di prime cure e in particolare precisare i motivi per cui quest'ultimo sarebbe erroneo e da riformare, avendo lo stesso per oggetto la sentenza gravata e non il provvedimento impugnato in primo grado, è proprio la prima a venire in rilievo (Consiglio Stato, sezione IV, 15 giugno 2004, n. 4018) e a subire gli effetti del riesame, a partire dalle questioni pregiudiziali ove espressamente impugnate, come nel caso in esame.
Sempre in via preliminare giova, peraltro, rilevare che i difensori di parte ricorrente hanno dichiarato, a verbale d’udienza, di rinunciare espressamente a tutti i termini a difesa in relazione all’intervento ad opponendum del Movimento della vita.
Con il primo mezzo di gravame la ricorrente lamenta la violazione dell’articolo 3 della legge n. 241 del 1990 per omessa motivazione o lacunosità della medesima. La violazione dell’articolo 7 della legge n. 40 del 2004 nella parte in cui è stata nominata una commissione non prevista dalla legge per fornire il parere di competenza dell’Istituto Superiore di Sanità e l’eccesso di potere sotto il medesimo profilo. Lamenta, altresì, il vizio del procedimento e dei principi di trasparenza.
Si tratta di una censura molto articolata sia nella esposizione che nella sostanza.
Secondo la ricorrente, il provvedimento gravato, contraddistinto come provvedimento a contenuto tecnico, non rispetterebbe l’obbligo della motivazione in quanto in presenza di almeno due opzioni possibili si limiterebbe a indicare la scelta preferita senza fornire alcuna motivazione in ordine alla ragione di tale scelta.
Inoltre, non sarebbe stato allegato il parere del Consiglio Superiore della Sanità e nemmeno i verbali dai quali evincere i motivati dissensi che, ad esempio, hanno determinato alle dimissioni il vice Presidente di tale organo. Non si darebbe conto del contenuto di tale parere.
L’Istituto Superiore della Sanità sarebbe stato soltanto “sentito” laddove la norma applicata parla di avvalimento
La commissione di esperti, nominata allo scopo dal Ministro della Salute, non sarebbe legittima in quanto non prevista dalla norma. Inoltre, dei suoi lavori non sarebbe stato dato conto.
Tutto l’operare del Ministro (e non del Ministero come pure avrebbe dovuto essere) denoterebbe una mancanza di trasparenza.
Il collegio non condivide tale censura.
Osserva, in via preliminare, che l’atto sottoposto alla sua attenzione è attuativo della legge n. 40 del 2004 prima riferita, ed ha natura regolamentare e contenuto generale.
L’iter formativo è quello disciplinato nell’articolo 7 della predetta legge ove si prevede che: “Il Ministro della salute, avvalendosi dell'Istituto Superiore di Sanità, e previo parere del Consiglio superiore di sanità, definisce, con proprio decreto, da emanare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, linee guida contenenti l'indicazione delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita.”.
La norma prefigura le fasi del procedimento e gli organi tecnici coinvolti senza prevedere altri organi come la commissione di esperti di fiducia del Ministro effettivamente nominata ed affiancata agli organi tecnici espressamente previsti e tuttavia è difficile escludere che in una materia quale quella all’esame, di particolare complessità tecnica, la possibilità di fare ricorso ad un organo di tal fatta, quale organo capace di un ulteriore apporto di conoscenze possa essere negata, risolvendosi il suo intervento in un contributo aggiuntivo, idoneo, in astratto, a prefigurare un migliore risultato.
In una fattispecie quale quella all’esame, poi, in presenza di un atto regolamentare, sono da escludere il lamentato difetto di motivazione e quello di mancato avvalimento dell’Istituto Superiore di Sanità.
Essendo l’atto censurato, un atto a contenuto generale, lo stesso rimane espressamente escluso - dalla legge n. 241 del 1990 - dall’obbligo della motivazione, mentre la consultazione dell’Istituto Superiore di Sanità da parte del resistente Ministero coincide con il coinvolgimento previsto dall’articolo 7 prima citato non potendo essere attribuito all’espressione “si avvale”, utilizzata nella disposizione citata, un significato diverso da quello del coinvolgimento nel procedimento nei termini che hanno portato all’adozione dell’atto impugnato.
Neppure può aderirsi alla dedotta mancanza di trasparenza.
La natura di atto a contenuto tecnico discrezionale e generale del provvedimento impugnato ed, in particolare, la mancata previsione di un obbligo di motivazione, escludono che l’omessa esplicitazione dei singoli pareri possa configurare il vizio dedotto.
D’altro canto la trasparenza dell’azione amministrativa viene assicurata, in casi come quello all’esame, dal diritto di accesso al quale ciascun soggetto interessato può fare ricorso per ottenere copia dei documenti inerenti all’attività istruttoria svolta, che restano esclusi dall’accesso soltanto nelle limitate ipotesi previste dall’articolo 24 della legge n. 241 del 1990.
Infondata si rivela anche la seconda censura con la quale l’associazione ricorrente lamenta la violazione di legge per omessa definizione del termine embrione anche agli effetti della sua configurazione giuridica; l’eccesso di potere sotto lo stesso profilo e l’invalidità derivata del provvedimento gravato.
Le Linee guida impugnate, sulla base di quanto previsto dall’articolo 7 della legge n. 40 del 2004, hanno come finalità l'indicazione delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita e non possono svolgersi su un terreno diverso da quello procedurale loro assegnato, come è la definizione dell’embrione, cioè il prodotto del concepimento umano nella fase di formazione degli organi al quale riconoscere il ruolo di “persona” e, conseguentemente, riconoscere la tutela giuridica approntata dall’ordinamento.
La definizione di embrione allo scopo appena detto, stante la non definitività del livello di conoscenza raggiunto dalla scienza biologica, sul punto, non può competere ad un’Autorità amministrativa quale è quella che ha adottato l’impugnato provvedimento né essere disciplinata da un regolamento, per di più ministeriale, quale è, appunto, l’atto censurato, ma appartiene, in quanto espressione di una scelta di discrezionalità politica, al legislatore.
Con il terzo motivo l’associazione ricorrente lamenta la violazione di legge del provvedimento gravato nella parte in cui dichiara sinonimi i termini di infertilità e sterilità.
Dopo un’introduzione nella quale i due termini vengono tenuti distinti per la donna, in base al richiamo ad una corrente scientifica, il provvedimento impugnato prosegue affermando, a proposito dell’uomo, che si tratta di sinonimi e torna ad operare una distinzione a proposito della coppia fino a concludere, irragionevolmente, che al suo interno i due termini saranno usati come sinonimi.
La motivazione di questa scelta unificante ovvero omologante sarebbe del tutto inesistente. Da ciò la violazione dell’articolo 3 della legge n. 241 del 1990.
La censura è infondata e va respinta richiamando le argomentazioni svolte in occasione dell’esame del primo motivo di ricorso.
E’ stato già affermato che la legge n. 241 del 1990 esclude la sussistenza di un obbligo di motivazione nel caso degli atti a contenuto generale sicché anche in relazione al profilo in esame, rientrante in tale atto, non può che concludersi nel senso prima prospettato.
La quarta censura pone in rilievo l’eccesso di potere nella parte in cui sotto il titolo “accesso alle tecniche” impone che la certificazione dello stato di infertilità (che sarebbe sinonimo di sterilità) sia effettuata da specialisti del Centro di fecondazione assistita e la violazione dell’articolo 4 della legge n. 40 del 2004.
Il fatto di pretendere dal Centro anzidetto, e più in particolare dai sanitari, una certificazione, professionalmente impegnativa, su una condizione che non può essere direttamente conosciuta dai sanitari come è nell’ipotesi dell’infertilità - oggettivamente riscontrabile ex post, solo a seguito di un periodo di rapporti “non protetti”, senza esito, da parte di una coppia - si porrebbe in contrasto con la legge n. 40 ove si parla più semplicemente e genericamente di “atto medico documentato” e in contrasto con ogni principio di razionalità, trattandosi, nella sostanza di certificazione impossibile capace di scoraggiare, concretamente, il ricorso alla tecnica della procreazione assistita e in tal modo di violare gli articoli 2 e 3 della Costituzione nei quali è racchiuso, tra l’altro, il diritto alla procreazione come espressione del diritto allo svolgimento della propria personalità.
Anche tale censura non viene condivisa dal Collegio.
Ferma la legge n. 40 del 2004, ritiene il Collegio che l’espressione “certificazione”, ivi usata in senso atecnico, non possa condurre al risultato prefigurato dalla ricorrente associazione che sembra essere quello di un obbligo di una certificazione anche in relazione allo stato di infertilità quale causa di impossibilità di procreare “inspiegata”. Tale conclusione porterebbe, invero, ad un risultato del tutto illogico e deve essere, per tale ragione, esclusa.
L’espressione in questione va, invece, interpretata sulla base della lettura congiunta della legge n. 40 del 2004 con le Linee Guida, che della prima costituiscono atto applicativo, a proposito della quale si osserva, in particolare, che l’articolo 4 sembra distinguere tra sterilità e infertilità inspiegata e sterilità e infertilità derivante da causa accertata e certificata da atto medico con la conseguenza dell’obbligo della certificazione soltanto in quest’ultima ipotesi, non potendosi certo pretendere l’idonea certificazione medica nel primo caso ove la dichiarazione resa dalla coppia costituisce non “un” momento indispensabile, ma “il” momento indispensabile in quanto è quest’ultima ad essere l’unica titolare della conoscenza diretta della vicenda in essere. Nella ipotesi appena detta dovrà essere ritenuta sufficiente una mera documentazione dell’esistenza di un impedimento alla procreazione.
Alla luce di tali conclusioni, vanno disattese le eccezioni di illegittimità costituzionale sollevate sul punto.
Con la quinta censura l’associazione ricorrente lamenta la violazione di legge e l’eccesso di potere del provvedimento impugnato nella parte in cui sotto il titolo “consenso informato” non viene chiarito che l’informazione da dare alle coppie sui costi del trattamento ricade anche sugli enti pubblici, nel caso di attività istituzionale a pagamento.
A tale proposito deve osservarsi che l’equiparazione tra l’attività professionale intramuraria e quella svolta in una struttura privata autorizzata esiste già nel nostro ordinamento e costituisce fatto notorio.
In ogni caso, il costo delle prestazioni a pagamento fornite dalle strutture pubbliche è oggetto di approvazione da parte del direttore delle medesime e la delibera di approvazione è oggetto di pubblicazione mediante affissione all’albo pretorio, sicché anche per tale via, deve essere escluso che coloro che si rivolgono al servizio pubblico, nel caso di attività intramuraria, siano privi della necessaria conoscenza dei costi da sopportare.
La possibilità di ottenere le informazioni sui costi anche nel caso di trattamento presso strutture pubbliche in attività intramuraria alla pari di quanto avviene presso quelle private esclude l’alterazione del principio della concorrenza e la pretesa violazione dell’articolo 41 della Costituzione.
Viene, ora, all’esame la sesta censura con la quale la Warm lamenta l’eccesso di potere per ingiustizia manifesta, irrazionalità e violazione dei principi comuni in materia di tutela della salute laddove sotto il titolo “misure di tutela degli embrioni, sperimentazione sugli embrioni umani in relazione all’articolo 13 della legge 40/2004 prevede che:” è proibita ogni diagnosi pre impianto a finalità eugenetica” ed aggiunge “ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell’articolo 14, comma 5, dovrà essere di tipo osservazionale”. Lamenta, inoltre, il falso supposto di fatto e diritto e la violazione degli articoli 12, 13 e 14 della Convenzione di Oviedo.
Tale censura è stata accompagnata da altre argomentazioni, oltre a quelle introduttive, sviluppate dalla Warm anche alla luce della sentenza del Tribunale Civile di Cagliari del 24 settembre 2007 la quale, vale la pena di sottolineare, riguarda profili e posizioni soggettive che non possono essere conosciute da questo giudice cui può essere chiesto, soltanto, di vagliare la legittimità dell’operato dell’Autorità amministrativa in relazione all’attuazione della legge n. 40 del 2004.
Fatta questa precisazione il Collegio ritiene che per poter esaminare la censura esposta sia utile richiamare espressamente l’articolo 13 della legge n. 40 del 2004 e la norma delle Linee Guida sul punto.
Stabilisce l’articolo 13, che:
“È vietata qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano.
La ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell'embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative.
Sono, comunque, vietati:
a) la produzione di embrioni umani a fini di ricerca o di sperimentazione o comunque a fini diversi da quello previsto dalla presente legge;
b) ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti ovvero interventi che, attraverso tecniche di selezione, di manipolazione o comunque tramite procedimenti artificiali, siano diretti ad alterare il patrimonio genetico dell'embrione o del gamete ovvero a predeterminarne caratteristiche genetiche, ad eccezione degli interventi aventi finalità diagnostiche e terapeutiche, di cui al comma 2 del presente articolo”;
Dopo una riproposizione integrale di tale norma, le Linee Guida, nel capo relativo alle “Misure di Tutela dell’embrione”, stabiliscono, in applicazione dell’articolo 13 della legge n. 40 del 2004 e in aggiunta a quanto appena esposto, che:
“E’ proibita ogni diagnosi preimpianto a finalità eugenetica.
Ogni indagine relativo allo stato di salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell’articolo 14, comma 5, dovrà essere di tipo osservazionale.
Qualora dall’indagine vengano evidenziate gravi anomalie irreversibili dello sviluppo di un embrione, il medico responsabile della struttura ne informa la coppia ai sensi dell’articolo 14, comma 5.
Ove in tal caso il trasferimento dell’embrione, non coercibile, non risulti attuato, la coltura in vitro del medesimo deve essere mantenuta fino al suo estinguersi”.
Dalla comparazione tra le due disposizioni emerge che, mentre nella legge si consente la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano, sia pure per finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell'embrione stesso, e si consentono interventi aventi finalità diagnostiche e terapeutiche, sempre al medesimo scopo, nelle Linee Guida tale possibilità viene contratta al punto di essere limitata alla sola ”osservazione” dell’embrione.
In buona sostanza, fermo il generale divieto di sperimentazione su ciascun embrione umano, la legge n. 40 del 2004 consente la ricerca e la sperimentazione e gli interventi necessari per finalità terapeutiche e diagnostiche se volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione, le Linee Guida riducono tale possibilità alla sola osservazione.
Tale ultima previsione si rivela illegittima.
Secondo quanto inizialmente precisato l’atto impugnato è atto amministrativo di natura regolamentare, di provenienza ministeriale, le cui finalità sono quelle stabilite nell’articolo 7 e consistono nel potere di dettare la disciplina delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita.
Si tratta di disposizione che riconosce all’Autorità amministrativa, ministeriale, il potere di adottare regole di alto contenuto tecnico e di natura eminentemente procedurale e non quello di intervenire, positivamente, sull’oggetto della procreazione medicalmente assistita che rimane consegnata alla legge.
Ciò, del resto, in armonia con quanto già affermato a proposito della definizione di embrione.
Anche in quel caso, malgrado si fosse in presenza di una nozione che è, in modo preponderante, di contenuto tecnico scientifico, si è ritenuto che nell’assenza di una soluzione scientifica univoca o fortemente prevalente non potesse competere all’Autorità amministrativa la scelta della definizione da adottare che, in considerazione delle conseguenze e delle implicazioni sul tessuto sociale della stessa, non può che spettare al legislatore.
Allo stesso modo deve ritenersi che per quanto riguarda l’ambito oggettivo di delimitazione della disciplina della procreazione medicalmente assistita, il potere relativo non possa che competere al legislatore, con la conseguenza che se quest’ultimo, nella sua ampia discrezionalità politica ha stabilito di consentire interventi diagnostici sull’embrione per le finalità prima espresse, questi ultimi non possono essere limitati nel senso prospettato nella norma delle Linee Guida.
Né vale richiamare la validità temporale delle Linee Guida che nella legge n. 40 del 2004 viene limitata a tre anni. Ciò che rileva al fine del presente giudizio è l’attualità della pretesa lesione e non la futura possibilità, peraltro indimostrabile in quanto legata alla situazione futura e incerta, di un cambiamento della disposizione in atto in conseguenza del “l'evoluzione tecnico-scientifica” sul punto, che potrebbe esserci ma potrebbe anche non verificarsi nello stretto arco temporale indicato dalla norma.
La previsione si rivela, pertanto, illegittima incorrendo nel denunciato vizio di eccesso di potere con il conseguente suo annullamento.
Deve ora procedersi all’esame del settimo motivo di ricorso con il quale la Warm lamenta l’eccesso di potere per ingiustizia manifesta ed irrazionalità del provvedimento gravato nella parte in cui sotto il titolo “Limiti all’applicazione delle tecniche sugli embrioni” si impone, all’articolo 14, commi 2 e 3, la creazione di un numero di embrioni comunque non superiore a tre e il loro contestuale impianto e si fa divieto della crioconservazione tranne ipotesi del tutto eccezionali.
Assume la Warm che le Linee guida avrebbero dovuto elencare in via esemplificativa, patologie e condizioni morbose non prevedibili al momento del trasferimento degli ovociti, per le quali effettuare la crioconservazione nel caso in cui tutti e tre gli ovociti inseminati, pur idonei al trasferimento, dovessero essere ritenuti in contrasto con l’interesse della donna o anche di ognuno degli ovociti stessi.
Da ciò rileva la pretesa violazione dell’articolo 32, comma 2, della Costituzione.
Nell’ostacolo alla procreazione assistita, derivante sempre da tale norma, rileva anche la violazione degli articoli 2 e 3 della Costituzione in considerazione del fatto che la stessa deprimerebbe la genitorialità intesa come espressione della personalità umana.
La questione proposta dalla Warm, consistente nella censura delle Linee Guida nella parte in cui non consentono la crioconservazione degli embrioni al fine dell’impianto e ne prevedono la formazione in un numero limitato fino ad un massimo di tre, da impiantare contestualmente, pur proposta avverso le prime, vale a dire avverso un atto a contenuto generale di fonte secondaria, tocca, nella realtà, l’articolo 14, commi 2 e 3, della legge n. 40 del 2004 atteso che tali norme regolamentari costituiscono letterale e pedissequa espressione della legge.
La loro contestazione non può che passare, pertanto, attraverso un’eventuale questione di costituzionalità della norma di legge che ne costituisce il letterale fondamento, naturalmente sempre che dovesse ritenersi sussistente l’ulteriore condizione della non manifesta infondatezza.
In ogni caso, in ciò risiede la rilevanza della questione al fine del decidere.
Per quanto attiene alla non manifesta infondatezza, osserva il Collegio che la pratica della procreazione medicalmente assistita, che interessa una percentuale in aumento della popolazione adulta in età cosiddetta fertile, costituisce un rimedio ad una patologia qual’è la sterilità/infertilità.
E’, cioè, un trattamento sanitario, vale a dire una “pratica terapeutica tesa a sopperire ad alterazioni dell’organismo”.
Inoltre, ispirazione dell’intera legge n. 40 del 2004 secondo quanto si desume, in particolare, dall’articolo 1 è quella di assicurare i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito, rispetto al quale valgono le precisazioni che di seguito verranno svolte.
Infine, ai sensi dell’articolo 4, comma 2, lettera a), nel fare ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è necessario ispirarsi al principio della gradualità, al fine di evitare il ricorso ad interventi aventi un grado di invasività tecnico e psicologico più gravoso (di quanto necessario) per i destinatari.
Detto principio trova la sua ispirazione nella norma menzionata attraverso l’espresso riferimento al principio della minore invasività. Gradualità quindi, come portato della minore invasività.
La legge non fornisce una definizione del termine concepito e nemmeno del termine embrione. Anzi usa il primo termine una sola volta, nell’articolo 1, quello che indica quali sono le sue finalità ed utilizza il secondo termine, quello di embrione, in tutti gli altri passaggi, tanto da doversi ritenere che la tutela del concepito voglia significare tutela dell’embrione sulla base di un’equivalenza perfetta, ancorché implicita, tra i due termini.
Quanto alla definizione di “embrione” e all’assenza di una qualunque disposizione nella legge n. 40 del 2004 al riguardo, deve ritenersi che con tale termine si intenda fare riferimento ad un significato dell’embrione, appunto, il più ampio possibile, vale a dire alla situazione che si determina a partire dalla fecondazione dell’ovulo.
Svolte tali considerazioni preliminari il Collegio richiama l’articolo 14 della legge n. 40 del 2004, intitolato “Limiti all’applicazione delle tecniche sugli embrioni” ove al comma 2 si prevede che le tecniche di produzione degli embrioni “non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre” e il comma 3, ove si prosegue affermando che nel caso in cui “il trasferimento nell'utero degli embrioni non risulti possibile per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione è consentita la crioconservazione degli embrioni stessi fino alla data del trasferimento, da realizzare non appena possibile”.
La preoccupazione manifestata, in primis, dalle due disposizioni esposte sembra essere, in buona sostanza, quella di pervenire ad un unico impianto allo scopo precipuo di evitare la crioconservazione che sarebbe, invece, indispensabile nel caso in cui dovesse essere prodotto un numero di embrioni superiore a quello effettivamente impiantabile, in ogni caso superiore a 3.
La ragione di tale previsione risiede, probabilmente, nella circostanza che con la tecnica della crioconservazione molti embrioni possono andare perduti.
La pratica approvata modifica quanto fino ad ora seguito presso i Centri di fecondazione ove, in genere, si inseminavano un numero di ovociti, quando possibile, superiore a tre, con l'obiettivo di poter impiantare un numero di embrioni pari a due o tre, di buona qualità, che dessero concrete speranze di gravidanza e si procedeva al congelamento degli embrioni in sovrannumero provvedendosi al loro trasferimento in successivi cicli nel caso in cui non si fosse instaurata la gravidanza al primo tentativo. Tutto questo con una variabilità che dipendeva dai diversi fattori da considerare quali, oltre alla qualità degli embrioni cui si è appena accennato, l’età della donna e i precedenti esiti di altre procedure di procreazione medicalmente assistita; in buona sostanza in diretta correlazione con le probabilità di riuscita del procedimento di procreazione medicalmente assistita.
Sembra al Collegio che la nuova disciplina, che dichiara di essere ispirata allo scopo “…. di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana” contrasti con l’articolo 3 della Costituzione nella misura in cui rivela una sua intrinseca irrazionalità violando il canone di ragionevolezza, contrasti ancora con il medesimo articolo 3 per quanto attiene alla parità di trattamento e con l’articolo 32 della Costituzione nella misura in cui consente pratiche che non bilanciano adeguatamente la tutela della salute della donna con la tutela dell’embrione.
Ed invero la finalità dichiarata all’articolo 1 della legge n. 40 del 2004, è quella di disciplinare il ricorso alle tecniche della procreazione medicalmente assistita utilizzabili per favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana, garantendo la tutela di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito, vale a dire, sulla scorta di quanto prima esposto, l’embrione.
Tale fine viene perseguito, peraltro, dalla medesima legge n. 40 del 2004, non in modo assoluto ma in modo affievolito dalla necessità che la tecnica di procreazione medicalmente assistita utilizzata concretamente sia tale da consentire di raggiungere concrete aspettative di gravidanza.
Ed invero, nel caso di impianto contemporaneo di due o tre embrioni, la legge ammette implicitamente che nel caso in cui un solo embrione dia luogo ad una gravidanza, gli altri possano disperdersi.
Ora, l’ammissione di tale implicita possibilità non può che trovare la sua giustificazione, come prima accennato, nella necessità di assicurare concrete attese di gravidanza della donna che si sottopone al procedimento di procreazione medicalmente assistita.
Si consente un impianto di embrioni fino a tre nella speranza che almeno uno vada a buon fine.
Se fosse stata riconosciuta, all’embrione, una tutela estesa fino alla sua latitudine massima, allora la disposizione contenuta nel comma 2 dell’articolo 14, avrebbe dovuto consentire la produzione e l’impianto di un solo embrione alla volta al fine di evitare il sacrificio degli altri contemporaneamente impiantati.
Ammettere, come ha fatto la legge n. 40 del 2004, all’articolo 14, comma 2, la possibilità di un impianto di più embrioni (fino ad un massimo di tre) nella consapevolezza che alcuni di essi potranno disperdersi significa accettare che per una concreta aspettativa di gravidanza è necessario procedere ad un impianto superiore all’unità e accettare, altresì, che alcuni di essi o anche uno solo oltre a quello che dà luogo ad una gravidanza, possano andare dispersi.
Del resto, nel caso di totale insuccesso di un tentativo, la tutela piena e incondizionata dell’embrione avrebbe dovuto comportare il divieto di ripetizione del procedimento, atteso che nell’ammissione di tale ripetizione c’è l’accettazione della possibile perdita di uno o di tutti gli embrioni impiantati se all’impianto non segue la gravidanza tutte le volte che si ripete il tentativo.
Nelle situazioni appena descritte la legge consente che la tutela dell’embrione affievolisca per lasciare spazio al fine perseguito che è quello di consentire il ricorso ad una tecnica di procreazione medicalmente assistita garantita da concrete speranze di successo.
Infatti, è per favorire concrete speranze di gravidanza che si ammette l’impianto di tre embrioni, pur sapendo che in parte o tutti possono perdersi ed è sempre per consentire un’aspettativa di gravidanza che si consente il ricorso ripetuto alle tecniche disciplinate dalla legge n. 40 del 2004.
Ora, se tale argomento si rivela corretto, nel senso che finalità della legge è quella di individuare un giusto bilanciamento tra l’interesse di tutela dell’embrione e quello di tutela dell’esigenza di procreazione, allora non si comprende la ragione della previsione che impone la produzione di embrioni in numero tale da rendere possibile l’effettuazione di un unico impianto e comunque in numero non superiore a tre e la ragione del sostanziale divieto di crioconservazione, ammessa nella sola ipotesi di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna insorto successivamente alle fecondazione.
Si tratta di norme, quelle contenute nei commi 2 e 3 dell’articolo 14 nella parte sopra esaminata, che non sembrano collocarsi nella scia del fine che la stessa legge afferma di voler perseguire nella misura in cui appaiono svincolate da ogni valutazione sulla concreta possibilità di successo della pratica da effettuare ma si preoccupano, eminentemente, di evitare che attraverso la produzione di un numero di embrioni superiore a tre - come massimo impiantabile anche alla luce della pratica seguita prima della legge n. 40 del 2004 – si possa rendere necessario il ricorso alla crioconservazione.
Se la tutela dell’embrione non è assoluta ma si spinge fino al punto di assicurare concrete aspettative di gravidanza secondo quanto è stato esposto finora, allora la legge n. 40 del 2004 con le norme che si commentano non avrebbe dovuto escludere la possibilità di consentire l’accertamento delle molte variabili che accompagnano la vicenda della procreazione assistita, quali ad esempio la salute e l’età della donna interessata e la possibilità che la donna produca embrioni non forti intendendo con ciò non quelli che sono capaci di produrre una “razza migliore” - espressamente e giustamente vietata dalla legge n. 40 del 2004-, ma semplicemente quelli che si possono rivelare più idonei a realizzare il risultato della gravidanza e della procreazione.
In tali ipotesi, venendo meno la correlazione necessaria tra affievolimento e concrete aspettative di gravidanza, pur ricorrendosi ad un impianto degli embrioni nel numero consentito dalla legge, l’impianto degli embrioni in un numero predeterminato dalla legge può rivelarsi un inutile sacrificio dei primi proprio a causa delle fortemente diminuite probabilità di successo della tecnica di procreazione medicalmente assistita.
Si ammette, insomma, non un affievolimento della tutela dell’embrione in presenza di un risultato possibile, ma un sostanziale sacrificio di esso a fronte di un risultato fortemente improbabile.
In ciò, sembra al Collegio, che le due disposizioni rivelino la loro intrinseca irragionevolezza.
Né tale situazione può ritenersi insussistente a causa del numero variabile da 1 a 3 degli embrioni impiantabili sulla scorta del comma 2, dell’articolo 14 della legge n. 40 del 2004, i quali consentirebbero quella variabilità indispensabile per tener conto nella giusta misura della diversità di condizioni della donna.
La previsione del comma 2 dell’articolo 14 della legge n. 40 del 2004, sulla base della pratica seguita fino alla sua introduzione, tende ad assicurare concrete possibilità di gravidanza alle persone di medie condizioni fisiche mentre non fornisce la medesima possibilità, nel senso che non la assicura nei confronti delle donne non giovani o di quelle che non riescono a produrre contestualmente tre embrioni di buona qualità nei sensi prima precisati. E in ciò si rivela, inoltre, la disparità di trattamento dovuta alla circostanza che situazioni diverse debbono soggiare allo stesso trattamento predeterminato per legge.
La predeterminazione del numero degli embrioni producibili e successivamente impiantabili, imposta dalla norma in modo aprioristico e a prescindere da ogni concreta valutazione del medico curante, sulla persona che intende sottoporsi al procedimento di procreazione medicalmente assistita, appare rivelarsi non in linea con quel bilanciamento di interessi (tutela dell’embrione – procreazione) che la legge n. 40 del 2004 sembra voler perseguire.
Ed ancora, non tiene in nessuna considerazione la circostanza che nel caso della procreazione medicalmente assistita, la cui peculiarità e delicatezza non vuole essere disconosciuta, si è in presenza di un trattamento sanitario, vale a dire di una “pratica terapeutica tesa a sopperire ad alterazioni dell’organismo” per la cui somministrazione dovrebbe essere riconosciuta, al medico curante, la possibilità di una valutazione del singolo caso sottoposto al trattamento.
Ma le disposizioni di cui si discute sembrano incorrere anche in un contrasto con il diritto alla salute sancito dall’articolo 32 della Costituzione.
Infatti, la limitazione del numero degli embrioni producibili e contestualmente impiantabili e il divieto della loro crioconservazione – se non nella circoscritta ipotesi prima descritta – comporta che nell’ipotesi, tutt’altro che improbabile, di un tentativo non andato a buon fine è necessario assoggettare la donna ad un successivo trattamento ovarico, ad una pratica medica che comporta in sé il rischio della sindrome da iperstimolazione ovarica e che trova nella legge, e non in esigenze di carattere medico il suo fondamento. Pratica che, oltre a prescindere da ogni valutazione sulle conseguenze sul piano fisico e psicologico della paziente ad essa sottoposta, appare addirittura in contrasto con i principi ai quali la legge n. 40 del 2004 dichiara di volersi ispirare, e che risultano espressamente enunciati nell’articolo 4, comma 2, lettera a) nella parte in cui si afferma che uno dei principi di applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita è quello della “minore invasività”
Non sembra che possa ritenersi tale la limitazione della produzione del numero degli embrioni e il divieto di crioconservazione di quelli eventualmente non impiantati che può comportare, nelle ipotesi, tutt’altro che infrequenti di insuccesso del tentativo, la ripetizione del procedimento a partire proprio dal trattamento ovario secondo quanto è stato appena esposto.
Tutto questo in presenza, peraltro, di una garanzia di tutela dell’embrione che la stessa legge n. 40 del 2004 non riconosce in via assoluta.
La questione si rivela pertanto non manifestamente infondata.
Infondato, invece, è l’ottavo motivo di ricorso con il quale la Warm lamenta la mancata indicazione al medico del comportamento da tenere nel caso di crioconservazione di materiale genetico appartenente ad individuo non più vivente, vale a dire a soggetto deceduto tra il momento dell’inseminazione e quello del trasferimento in utero.
L’articolo 5 della legge n. 40 del 2004, disciplinante i requisiti soggettivi per l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita stabilisce che possono accedervi coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi, mentre l’articolo 12, comma 2, della predetta legge, contenente divieti e sanzioni, prevede la comminatoria di una sanzione pecuniaria per l’ipotesi di applicazione delle tecniche in questione a coppie i cui componenti non siano entrambi viventi.
Le due previsioni normative richiamate però nulla dicono a proposito del caso in cui, una volta avviata la tecnica di procreazione medicalmente assistita, l’uomo deceda, soprattutto dopo la formazione dell’embrione.
Intervengono, in tal caso, sia l’articolo 14, comma 1, della predetta legge, che vieta la soppressione degli embrioni sia l’articolo 6, comma 3, che prevede l’inefficacia della revoca della volontà di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita dopo la fecondazione dell’ovulo sicchè deve ritenersi che la presenza in vita del partner o meglio dei componenti la coppia sia richiesta soltanto prima dell’inizio della procedura.
Infondata, infine, è l’ultima censura – la nona – con la quale si deduce il contrasto delle disposizioni in materia di “registrazione e mantenimento dei dati” contenute nelle Linee Guida con il D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196 (codice in materia di protezione dei dati personali).
Diversamente da quanto sostenuto dalla Warm la scheda clinica contenente le generalità di entrambi i partners va conservata unitamente alla scheda di laboratorio dal Centro presso il quale è stata avviata la procedura di procreazione medicalmente assistita.
In via conclusiva il Collegio ritiene di dover:
1) accogliere in parte il ricorso relativamente al sesto motivo di gravame e per l’effetto annullare la disposizione delle Linee Guida in materia di procreazione medicalmente assistita approvate con D.M. 21 luglio 2004 nella parte riguardante le Misure di Tutela dell’embrione laddove si statuisce che ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell'articolo 13, comma 5, dovrà essere di tipo osservazionale.
2) sospendere il giudizio e rimettere alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, commi 2 e 3, della legge n. 40 del 19 febbraio 2004, per contrasto con gli articoli 3 e 32 della Costituzione;
Rinviare al definitivo la statuizione sulle spese di causa.
PQM
Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio - Sede di Roma - Sezione III quater
Accoglie nei limiti di cui in motivazione il ricorso proposto dalla Warm, meglio specificato in epigrafe, e per l’effetto annulla le Linee Guida di cui al D. M. 21.7.2004 nella parte contenuta nelle Misure di Tutela dell’embrione laddove si statuisce che ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell'articolo 13, comma 5, dovrà essere di tipo osservazionale;
Solleva la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, commi 2 e 3, della legge n. 40 del 19 febbraio 2004 per contrasto con gli articoli 3 e 32 della Costituzione.
Sospende il giudizio in corso e dispone che, a cura della Segreteria, gli atti del presente giudizio vengano trasmessi alla Corte Costituzionale e che il presente atto sia notificato alle parti, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.
Rinvia al definitivo la statuizione sulle spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità Amministrativa.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 31 ottobre 2007
Dr.Mario Di Giuseppe - Presidente
Dr. Linda Sandulli - Consigliere estensore
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