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MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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La procreazione assistita
Alcuni interrogativi etico-sociali
GIUSEPPE ACOCELLA
(Presidente del Corso di laurea in Scienze del servizio sociale, Università di Napoli “Federico II”)
(tratto dal Colloquium sulla fecondazione assistita tenutosi presso l'Associazione "Oltre il Chiostro" di Napoli)
Mi auguro che la iniziativa odierna rappresenti un luogo di riflessione su un tema così importante e delicato, finalmente sottratto alla perversa logica degli schieramenti ideologici che, piuttosto che affrontare il merito della questione, preferiscono rendere manifeste e radicali le contrapposizioni di principio. Il dovere di chi promuove cultura e ricerca intorno a questi argomenti è invece – pur nella differenza delle impostazioni scientifiche e delle opzioni culturali - quello di offrire confronti che mettano a nudo gli aspetti fondamentali e le tematiche specifiche ad di là dei pregiudizi e dei gravami ideologici e di schieramento. L’approvazione recente della legge sulla regolamentazione delle tecniche per la fecondazione assistita non ha certamente offerto con il dibattito parlamentare e con le manifestazioni ad esso collegate una buona prova nella direzione della discussione del merito delle questioni.
Limiterò il mio intervento a proporre alcuni interrogativi, ritenendo che l’approccio di uno studioso di etica e di bioetica sociale non coincida con quello che caratterizza chi professa le discipline scientifiche o quelle giuridiche in ambito bioetico, ma piuttosto sia riconoscibile nel compito della “sentinella” che cerca di scrutare l’orizzonte estremo delle questioni che si profilano e porre le domande morali che dall’osservazioni scaturiscono.
Mi limiterò a rilevare quattro nodi (interrogativi che sono anche talvolta esprimibili in paradossi, talvolta attraverso contraddizioni) a mio avviso sostanziali nella considerazione dei temi che il dibattito sul “diritto a generare”, che appare una delle più rilevanti “nuove questioni sociali” del nostro tempo), ha sollevato, ponendo a me e a tutti interrogativi inquietanti: 1. Un primo problema è costituito dal paradosso per cui, se da un lato si registra un costante calo demografico (nel nostro come negli altri paesi ad economia avanzata), che si traducono nella caduta del “coraggio” di generare figli ed in un ethos caratterizzato da un diffuso senso di sfiducia, dall’altro lato si moltiplicano - evidentemente per risposta ad una domanda crescente - “centri di fertilità”, che promettono – spesso con una evidente finalità speculativa e con incerte procedure e garanzie - la procreazione assistita.
Il paradosso sarebbe maggiormente decifrabile se – in seguito alla constatazione che il calo demografico è dovuto in parte anche a fattori biologici e sociali (avanzamento dell’età in cui si decide di generare, in specie per quanto riguarda la donna, con crescita della infecondità femminile; aumento della infertilità maschile nei paesi industrializzati, ecc.) – la domanda di generare con l’ausilio di sostegni tecnico-sanitari si presentasse limitato al rimedio terapeutico di ripristino (che suppone una “norma naturale”) nei confronti delle limitazioni intervenute rispetto alla capacità generatrice e alla fertilità, nel solco dell’intervento curativo a salvaguardia della salute, della perdita di funzionalità parziale, del buon funzionamento di un arto o di un organo. Questo profilo si è poi intrecciato con il problema del confine da fissare tra fecondazione omologa ed eterologa, e sul conseguente, correlato allargamento nella seconda opzione a fruitori non più circoscritti alle coppie eterossessuale.
Orbene, gli elementi emersi nel dibattito accesosi sul ricorso alla fecondazione eterologa, e non solo da parte di coppie “di fatto” (ma che dal fatto la norma – nel caso della omologa - intende trasferire nell’ordinamento, promettendo però nel contempo di tenerle fuori da esso riconoscendole appunto “di fatto”), bensì anche di coppie non “abilitate” alla procreazione naturale, rafforzano il paradosso invece di spiegarlo.
2. Un secondo problema è costituito dal fatto che - promossa l’iniziativa parlamentare in conseguenza della generale preoccupazione di porre limiti ed ordine nel “Far-West” della procreazione assistita, troppo spesso spinta da interessi speculativi sempre più evidenti e diffusi (e che forse hanno agito e pesato sulle posizioni emerse in materia nel Parlamento e nel paese) – una parte dei dibattenti abbia inteso il compito del legiferare come impegno ad attestarsi sulla richiesta di allargare i confini illimitatamente fino a comprendere qualsiasi intervento il “Far-West” avesse sperimentato. Di fatto una tale richiesta di allargamento coincidente con tutto quanto già praticato finisce per vanificare il significato stesso dell’iniziativa parlamentare ed il ruolo della legge, a meno che non si ritenga che al Parlamento non spetti altro che legalizzare tutto ciò che interessi (anche quelli speculativi o semplicemente particolaristici) impongono, piuttosto che legiferare in nome dell’interesse generale e del bene comune. Un problema squisitamente filosofico-giuridico ed etico-sociale, dunque, che riguarda l’individuazione del “possibile etico” (che da fondamento all’ordinamento giuridico) nel mero “possibile tecnico”. La norma deve essere solo lo “specchio della società, qualunque cosa (eventualmente anche abietta) essa in un determinato momento storico esprima?
In realtà la richiesta di indiscriminata legalizzazione dell’esistente finisce per conseguire – consapevolmente o meno – un altro risultato, giungendo paradossalmente a separare in modo assoluto la funzione procreativa dal significato della relazione di coppia, così “assolutizzando” l’astratto diritto a generare, e ridimensionando drasticamente la rilevanza (sociale e giuridica, oltreché etica) della società familiare. Ma un figlio è tale perché destinato a “soddisfare” un bisogno, come qualsiasi altro isolato oggetto o essere animato (un animale da compagnia), o l’aspirazione ad “avere” un figlio si realizza solo nella misura in cui si è padre/madre di un figlio e si è figli se lo si è di qualcuno (genitori) ?
D’altronde la lacerazione tra “creazione del figlio” da un lato e significato della “genitorialità” e della realtà familiare dall’altro, priva inesorabilmente di senso la stessa sessualità generativa nella coppia, sostituendola con un processo meccanico neutro (la procreazione, programmata persino nei caratteri fisici e genetici imposti al figlio, come si verifica nel disinvolto ed illimitato ricorso della medicina “del desiderio”, come la definisce Hans Jonas, che può giungere fino ai limiti dell’esecrata eugenetica). E’ difficile pensare che una società del “buon vivere” – come quella cui tutti i popoli aspirano nel loro faticoso itinerario – possa essere perseguita annullando la responsabilità della sessualità attraverso la rinuncia alla dimensione sociale del rapporto familiare o di coppia.
Viene infatti così a vanificarsi la funzione “educativa” (nel senso più ampio) della famiglia, assoggettandola a modelli mercantili e rendendone marginale il ruolo, proprio nel momento in cui invece se ne esalta ovunque la necessità per fronteggiare gli elementi di disgregazione sociale che rappresentano i maggiori fattori di crisi nelle società contemporanee. Al modello familiare – costituente una vera e propria istituzione sociale, non arbitraria, e garante verso ciascuno dei suoi componenti - subentrerebbe invece una coppia senza responsabilità, originata da un contratto parziale, chiamata a condividere solo alcuni istituti dell’ordinamento (diritto alla mutua assistenza, diritto successorio, carichi fiscali, ecc.), senza divenire soggetto costitutivo permanente di esso.
3. La terza contraddizione emerge proprio dalla insistita richiesta di dilatazione della diagnostica prenatale, tale da sconfinare ormai, nel caso di uso improprio (non rivolto cioè ad individuare malformazioni congenite), nell’eugenetica. Si è enormemente favorita la diffusione di una mentalità del rifiuto di ogni imperfezione (ma dilatandone il confine fino ad escludere ogni caratteristica che non prefiguri bellezza e perfezione), e proprio nel momento storico e sociale nel quale faticosamente e con grande sforzo è venuta affermandosi la cultura civile dell’accettazione dell’handicap e della menomazione fisica e mentale. La conquistata consapevolezza che un handicap non sminuisce il valore della persona, e non deve limitare né la dignità di essa né le possibilità di affermazione individuale, ha portato non solo ad una legislazione avanzata in questa direzione, ma ad un ethos che metteva al centro il rispetto per la “disabilità” fisica e mentale, riconoscendo a chi ne era portatore il diritto a ricevere sostegno dalla comunità ad operare e vivere valorizzando la propria “diversa abilità”.
L’assuefazione alla eliminazione - fortemente propugnato anche in occasione del dibattito sulla procreazione assistita - dell’imperfetto non-nato, sarà senza conseguenze sulla considerazione dell’imperfetto vivente ? Quanto a lungo la contraddizione che ne nasce sarà sopportabile ? Peraltro la questione del trattamento degli embrioni, il cui uso la legge limita, comporta una severa riflessione, poiché riapre scenari che si ritenevano espunti dalla storia umana e mette in gioco livelli di civiltà che si ritenevano conquistati per sempre.
4. Infine una ulteriore contraddizione esplode tra la faticosa affermazione della dignità della condizione di figli, segnata dal travagliato percorso per l’affermazione dei diritti dei minori, dalla trasformazione dei costumi, dalla conquista dell’indipendenza esistenziale ed etica per ogni essere umano - che ha segnato anche drammaticamente le relazioni genitori-figli dalle società arcaiche ad oggi - da un lato, e l’indifferenza rivelata dall’affermazione del “diritto assoluto a generare” nei confronti del figlio-oggetto.
Senza introdurre i problemi che comporta l’approccio alla clonazione (dichiarata già attuabile da illustri clinici, che ne proclamano apertamente l’uso strumentale mosso dal “desiderio” o dalla convenienza), l’accettazione acritica della manipolazione genetica nell’intento di determinare i caratteri del nascituro introduce scenari straordinariamente preoccupanti.
L’imposizione di determinati caratteri - dichiarati necessari a fini preventivi e terapeutici, e apparentemente decisi dalla coppia, ma in realtà ancor più disposti dalla convenienza affaristica del business delle procreazioni assistite e dei laboratori - non rappresenta forse l’intento di “impadronirsi” del figlio programmato e della sua stessa evoluzione (movendo da quella biologica) umana e morale, assoggettandolo alla volontà pregiudiziale del programmatore ? La famiglia finisce per consegnarsi così già nel momento iniziale della relazione con il figlio ad agenzie esterne che impongono modelli instabili di relazioni. Il valore morale della autonomia della persona non risulta così irrimediabilmente compromessa?
Ma non si vanifica in questo modo la costruzione della libera ed autonoma personalità dell’essere umano attraverso il passaggio essenziale dell’emancipazione dal grembo della famiglia ? Non si fa passare in secondo piano – fino a vanificarla - la stessa funzione educativa ed identitaria della famiglia e della comunità ? I mondi separati dell’individualismo diventano il modello della nuova realtà sociale, segnando la fine della solidarietà familiare come tappa e modello della solidarietà nell’intera società ? Può questo rappresentare un progresso ?
Se solo tutto ciò che è possibile tecnicamente finisce per apparire l’unico “possibile etico” per l’uomo e per la sua storia, è possibile per i viventi una reale esperienza di libertà?
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