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MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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l futuro della bioetica

Sintesi del corso

Eugenio Capezzuto

Dal 15 al 29 maggio 2008, si è svolto un corso di aggiornamento promosso dall’Istituto Italiano di Bioetica-Campania, articolato in quattro incontri, di cui i primi tre (15/5-22/5) presso la Fondazione “G. Pascale” di Napoli, e il quarto (29/5), una tavola rotonda per la presentazione del volume collettaneo Il futuro della bioetica curato da R. Prodomo,[1] presso l’associazione culturale “Oltre il Chiostro” di Napoli. Scopo del corso è stato di affrontare un tema importante e attuale della riflessione bioetica: il futuro della Bioetica. Esperti e docenti di diverse discipline hanno guidato le sessioni di studio, aperte al contributo di tutti i partecipanti. I. Tra scienza e fede: la Bioetica come scienza della complessità
Sono due gli interventi su questo tema. Il primo è del prof. Raffaele Prodomo, docente di Bioetica presso la Seconda Università di Napoli, che ha introdotto un pubblico, formato in gran parte dai soci dell’Istituto Italiano di Bioetica-Campania, a una riflessione sulla propria disciplina e sul suo “stato dell’arte” nel dibattito tra scienza e fede. L’intenzione era di analizzarla in una prospettiva che assume il punto di vista della complessità. Il secondo è del prof. Mario Coltorti, Presidente onorario dell’Istituto Italiano di Bioetica-Campania che ha affrontato la complessità nella prospettiva del credente cristiano. I.1. Il punto di vista della complessità
In riferimento al tema di questo primo incontro, la prospettiva della complessità assume una particolare valenza, perché nelle discussioni di bioetica, ma in generale nelle discussioni filosofiche tradizionali, spesso i termini Scienza e Fede sono intesi come antagonisti. Il punto di vista della complessità, invece, tenta di conciliare entrambe queste fonti del sapere, sia quella più strettamente scientifica, sia quella più strettamente religiosa in senso lato. Esso si colloca in maniera antagonista nei confronti di due ipotesi tra loro opposte: lo scientismo e il fondamentalismo religioso.
Lo scientismo o riduzionismo ha la pretesa di poter conoscere e interpretare un qualsiasi fenomeno scomponendolo nelle sue parti più semplici, per poi analizzarne tutte le possibili interazioni. Oggi esso si manifesta attraverso un punto di vista estremamente semplice che mette in discussione il fondamento di qualunque conoscenza religiosa, l’esistenza di Dio sostanzialmente, all’interno del dibattito scientifico.[2] La ragione per la quale si ritorna a discutere su Dio all’interno della cultura scientifica e soprattutto della cultura biologica nell’età contemporanea è legata alla nascita negli Stati Uniti del creazionismo, un movimento religioso che cerca di riproporre come teoria scientifica, e non come ipotesi mitologica, il discorso biblico della creazione. Questo movimento, che ha poi avuto ripercussioni anche in Europa, è in contrapposizione con il Darwinismo, una teoria che, invece, vede nell’origine della vita e nella sua evoluzione un fenomeno completamente spiegabile in termini naturali. Questa contrapposizione ha radicalizzato le posizioni, al punto da spingere alcuni darwinisti a dover dimostrare la non esistenza di un Essere Supremo Creatore, ed altri ad includere Dio all’interno del discorso scientifico. Entrambe queste posizioni, opposte tra di loro, commettono l’errore di ridurre l’idea di Dio a un qualcosa di verificabile da un punto di vista empirico.
Il secondo argomento di polemica, nei cui confronti ci si mette assumendo il punto di vista della complessità, è il fondamentalismo religioso che cerca di introdurre l’ipotesi religiosa all’interno del dibattito scientifico. Il fondamentalismo religioso che oggi più preoccupa dal punto di vista della riflessione bioetica è quello legato alla diretta interpretazione della religione come fonte di norme di comportamento comune. È in sostanza il fondamentalismo di una certa cultura cattolica italiana che, ispirandosi al principio dei ‘valori non negoziabili’, ha determinato una separazione tra l’etica religiosa e l’etica civile. Questo principio, che non ammette il pluralismo sul piano etico, è alla base anche dei tentativi solo parzialmente riusciti di far passare attraverso una normativa di tipo giuridico dei contenuti di carattere etico.
A questo punto si pone la domanda: come si può realizzare una conciliazione tra i contenuti religiosi e i contenuti scientifici, oppure come si può realizzare una coesistenza tra punti di vista etico-religiosi alternativi? Bisogna trovare un consenso per intersezione,[3] risponde il bioeticista Prodomo, cioè un consenso che sia politico, nel senso di poggiato su una legge, che non sia un codice etico, che sia il frutto di una intersezione non politica ma etica.[4] Perché si possa realizzare concretamente questa intersezione tra Scienza e Fede nel dibattito bioetico è necessario che la bioetica si ponga come scienza della complessità, una scienza, cioè, che non adotta un suo proprio metodo, ma adotta i metodi di tutte le altre discipline. Il discorso bioetico non è monodisciplinare, ma transdisciplinare, in cui tutte le discipline possono realmente confrontarsi tra loro. Solo l’interazione tra i saperi, non più organizzati secondo una gerarchia, come avveniva nel passato, permette di avere un punto di vista più completo rispetto a quello di un singolo sapere particolare. Questa interazione certamente non risolve il problema del rapporto Scienza e Fede, perché sicuramente ci sono molti punti di polemica che resteranno, molte contrapposizioni che non sono sanabili, ma, almeno per quanto riguarda la versione politica, questo è l’unico modo per tenere saldi tutti e due i punti di vista, e fare in modo che entrambi abbiano una dignità nella discussione pubblica. Se si superano gli unilateralismi è possibile cercare un dialogo anche tra punti di vista, culture, sensibilità molto diverse ispirate a valori laici o secolarizzati o a valori religiosi trascendentali. I.2. La complessità vissuta dal credente cristiano
Il prof. Mario Coltorti, nella premessa, dichiara di voler intervenire sul complesso rapporto tra Scienza e Fede usando il linguaggio di «un credente che ha una certa visione». Il motivo per cui introduce questo discorso in termini di linguaggio è fondato sulla convinzione che se non usiamo un certo linguaggio è difficile riuscire a valutare le cose che vogliamo dire.
Sono quattro i linguaggi che possiedono gli umani per la comprensione del cosmo e della vita degli uomini: filosofico razionale, scientifico-tecnologico, artistico intuitivo e quello della fede nel soprannaturale. Ognuno di questi linguaggi ha sicuramente dei limiti, quelli presenti nella capacità umana di comprendere e risolvere la complessità e la contraddittorietà della nostra situazione e anche dei condizionamenti storici. Ma ci sono anche delle necessità di intersezione, di possibili integrazioni e contaminazioni tra i vari linguaggi. Noi tutti, infatti, viviamo in molti mondi diversi, un mondo naturale e un mondo fisico, un mondo scientifico, un mondo del senso comune, ma non c’è che un mondo, è il mondo in cui viviamo, e dobbiamo spiegare come esistiamo in quanto parte di esso. Dinanzi a questo mondo complesso la domanda fondamentale dell’uomo è: da chi e che cosa esso è indirizzato, solo dal caso? Secondo P. Davies, la ricerca della vita nell’universo è il banco di prova di due visioni del mondo diametralmente opposte. La prima è la visione di un universo senza senso, di leggi impersonali ignare di qualunque scopo, di un cosmo in cui la vita e l’intelligenza, e la scienza e l’arte, e la speranza e la paura sono solo i fortuiti accessori, abbellimenti di un affresco dell’irreversibile conduzione cosmica. La seconda è la visione di un universo autoorganizzato, governato da leggi ingegnose, che spingono la materia ad evolversi verso la vita e la coscienza. Un universo in cui l’emergere degli esseri pensanti è parte integrante fondamentale dell’ordine complessivo delle cose. Un universo nel quale non siamo del tutto soli.[5] Un universo, secondo Einstein, retto da leggi nelle quali è manifesto un qualche spirito enormemente superiore a quello dell’uomo. In questa prospettiva la ricerca scientifica porta ad un sentimento religioso di tipo particolare, che risulta completamente differente dalla religiosità ingenua di taluni.[6]
Ma che cosa è la religiosità? Non è solo appartenenza ad un credo religioso, ma è anche la cosiddetta sacralità intrinseca della vita, della persona e del cosmo (religiosità laica). E in che rapporto stanno i laici di buona fede e i credenti in buona fede? Spesso le loro posizioni divergono. Il credente Coltorti ritiene che il cristiano abbia il diritto-dovere di partecipare all’integrazione degli aspetti principali dei linguaggi usati dai laici, nel riconoscimento dei limiti di ciascuno, attraverso collegamenti trasversali che arricchiscono il patrimonio spirituale dei vari interlocutori, pur nelle loro diverse concezioni circa i problemi religiosi. Ciò comporta anche il diritto-dovere di partecipare al reciproco rispetto dei principi morali del patrimonio morale di ciascuno, specie di fronte a temi esistenziali complessi per i quali non esistono regole preordinate in senso assoluto. Il credente cristiano non deve guardare alla pluralità e diversità di etiche e bioetiche come una molteplicità di etiche false al cospetto della etica vera, quella cristiana, bensì come una varietà di risposte a cui gli esseri umani sono pervenuti ponendosi le proprie domande esistenziali. La rispettosa tolleranza delle idee e valori altrui dovrà necessariamente tradursi nelle attività pubbliche del credente nell’impegno a realizzare una legislazione equa che rispetta le concezioni d’ispirazione tanto religiosa che laica, tenendo conto delle sfide e delle molteplici situazioni contingenti umane, scientifiche, tecnologiche, politiche che variano in una visione evolutiva storica, perché il principio di responsabilità anche per le generazioni future prevalga sulla volontà di potenza dell’uomo.
In un mondo, il mondo degli uomini, così complesso e dominato da diverse forme espressive che portano il bisogno della spiritualità, cioè l’incontro con Dio, la sfida e la tensione interiore del convinto credente è quella del sereno incontro e del dialogo pluralistico per una coincidenza il più possibile completa tra la città di Dio e la città degli uomini. La realizzazione di questo ideale trae ispirazione dal vangelo che ci chiama alla pratica dell’amore. Un noto cultore protestante di bioetica, Joseph Fletcher[7] ci ricorda che l’etica cristiana della situazione ha una norma fondamentale che in qualsiasi circostanza è buona e giusta: l’agape, da cui in ogni kairos emerge la sofìa adatta per affrontare quell’evento con le sue irripetibili peculiarità. In una società aperta, pluralista come quella attuale, è necessaria dunque la fedeltà, ma non l’ideologizzazione, agli aspetti positivi delle proprie tradizioni e concezioni di vita, con rispetto e comprensione per quelle degli altri, il che è ben oltre la tolleranza volterriana, è rispetto. Forse ciò è un’utopia, conclude il prof. Coltorti, ma l’utopia è come un lievito, non basta per fare un pane, ma senza non si può fare un buon pane. II. La business bioethics
Si confrontano su questo tema la prof.ssa M. A. La Torre, Presidente del Consiglio Direttivo dell’Istituto Italiano di Bioetica-Campania, ed il filosofo P. Giustiniani. Il primo intervento è una riflessione sul rapporto tra l’Etica degli Affari e la Bioetica, a partire da un settore specifico di interesse della Bioetica che è quello delle Biotecnologie;[8] il secondo intervento, in perfetta sintonia con il primo, presenta alcuni passaggi nodali che il filosofo ha consegnato nel suo contributo contenuto nel volume curato dal prof. R. Prodomo.[9] II.1 Etica degli affari e bioetica: verso una business bioethics?
Le ricerche biotecnologiche propongono nuove sfide, ovviamente, non solo dal punto di vista scientifico, ma anche alla riflessione etica. La novità radicale rispetto al passato è che la ricerca scientifica attuale manifesta una capacità di incidere sul vivente in maniere inedite. È cambiata cioè la capacità di andare alle radici stesse della vita e quindi di innescare modificazioni che poi avranno conseguenze sulla vita futura. Ciò si accompagna, però, ad una sostanziale incertezza su questi esiti futuri,[10] a timori connessi ai margini di imprevedibilità di queste modificazioni che richiedono l’intervento dei decisori politici a disciplinarne la liceità. Le questioni inedite poste dalla nuova ricerca biotecnologica sono molteplici, dalla perplessità circa la brevettabilità del “vivente” (specie se il genoma è definito patrimonio comune dell’umanità), la giustizia mondiale, alle perplessità sui danni ambientali e la trasferibilità delle modificazioni genetiche nell’alimentazione umana.
Con questo non si vuole proporre una sorta di moratoria, cavalcare la diffidenza che oggi spesso si avverte rispetto a queste questioni, ma i problemi etici e pratici sollevati dagli sviluppi tecnologici giustificano l’adozione di criteri primari di riferimento e di controllo su tutte le sperimentazioni negli ambiti della ricerca umana, animale, vegetale. Il Principio di precauzione, ad esempio, che risale alla Dichiarazione di Rio del 1992, è un principio molto rigoroso e cogente che informa tutte le dichiarazioni di principio e i tentativi di regolamentazione in materia ambientale. Esso sancisce che è illecito intraprendere una determinata sperimentazione se non si ha la ragionevole certezza che essa non sarà dannosa.[11] Accanto al Principio di precauzione, che ha però perduto il suo valore di inderogabile criterio di valutazione, essendosi ridotto a un generico invito alla prudenza e alla cautela, vi è il principio della libertà della ricerca, verso il quale vi è una resistenza da parte degli scienziati, perché non ne accettano talune regole e tentativi di normativizzazione.
Le applicazioni biotecnologiche diventano spesso problematiche sul piano etico, anche perché esse non investono solo il campo di competenza dello scienziato, del bioeticista e del legislatore, ma chiamano alla corresponsabilità altri attori, considerati solitamente estranei all’ambito della riflessione morale. Ci riferiamo alle industrie private chimiche e farmaceutiche che disponendo di adeguati capitali finanziano ricerche scientifiche finalizzate alla realizzazione di prodotti da immettere sul mercato mondiale, ad esempio nuovi farmaci. A tale proposito non mancano alcuni interrogativi: la ricerca scientifica industriale è al servizio dei bisogni dell’umanità, o si lascia troppo condizionare dal profitto economico che deriva dalla vendita di beni spendibili sul mercato internazionale? Fino a che punto si è sicuri della correttezza dei risultati offerti dai ricercatori industriali? A tutela dei timori suscitati dall’operato della ricerca scientifica, è sorta, ad esempio, la Carta europea dei ricercatori, che si occupa del ruolo, delle responsabilità e dei diritti dei ricercatori, ma che prevede anche alcuni doveri fondamentali, quali la trasparenza del loro operato in rapporto a possibili conflitti di interesse, e l’impiego esplicito di informazione chiara e corretta verso l’opinione pubblica. Altri attori chiamati a rispondere moralmente delle loro scelte in campo biotecnologico sono le multinazionali con sede nei paesi sviluppati. Non mancano interrogativi anche sulla loro condotta. Infatti, la maggioranza delle loro ricerche, utilizzate ad esempio in campo agroalimentare, provengono dai paesi del Sud del mondo, ai quali dunque andrebbero garantiti, attraverso una adeguata disciplina dei brevetti, l’opportuna tutela e i benefici economici derivanti dallo sfruttamento di tali ricchezze. Le domande etiche non si esauriscono solo nel campo agroalimentare ma si estendono anche a quello farmaceutico. Le industrie farmaceutiche, infatti, se da un lato contribuiscono al miglioramento della salute pubblica attraverso la ricerca e la produzione di farmaci essenziali per la cura delle patologie, sollevano, dall’altro lato, molti dilemmi etici concernenti ad esempio la proprietà intellettuale, i requisiti etici dei trials clinici, il prezzo dei farmaci e la possibilità di accesso ad essi, la gestione del marketing e della pubblicità, la trasparenza dell’informazione. La linea di demarcazione tra valutazione medico-sanitaria o biologico-ambientale e valutazione economico-manageriale sembra difficile da tracciare, alimentando, per altro, diffidenze e un senso di insicurezza sociale che si ripercuote negativamente sul rapporto dei cittadini con le imprese for profit, ma, evidentemente, in prospettiva, anche sulle loro possibilità di profitto.[12] La dichiarazione di Erice sui principi etici della ricerca farmacogenetica (2001) rappresenta un tentativo di regolamentare la ricerca rispetto al potere esercitato dalle industrie chimico-farmaceutiche.
Tutte le questioni bioetiche fin qui esaminate che chiamano in causa le industrie e le imprese for profit, lasciano chiaramente intravedere la non totale estraneità di tali industrie rispetto ai principi etici e alla responsabilità sociale. Esse stesse, infatti, sono gravate da un dovere di cittadinanza per la loro appartenenza al contesto societario dal quale attingono risorse comuni. Il loro debito verso la società, in parte riparato dalla produzione di valore economico, richiede un ripensamento del loro ruolo nella società. È emblematico il caso,[13] ad esempio, di una azienda commerciale, specializzata in diagnostica genetica sugli adulti per complesse patologie, che sceglie legittimamente di allargare il proprio mercato e di cominciare ad offrire un servizio commerciale di test genetici direttamente ai consumatori attraverso il sito della compagnia, rispettando tutte le disposizioni di legge e i protocolli. Stiamo infatti parlando di un’azienda che non produce normali beni commerciali e ciò si accompagna ad una serie di questioni etiche significativamente differenti. La mera tutela della privacy non esaurisce la gamma delle problematiche etiche che una pratica commerciale della diagnosi genetica suscita. Le regole del mercato non sono evidentemente sufficienti in una materia così delicata.
Allora il punto cruciale su cui il tema introdotto dalla prof.ssa La Torre vuol fare riflettere è che le aziende e gli enti di ricerca privati in relazione alla salute e la possibilità di prevenzione e cura hanno obbligazioni morali che non coincidono semplicemente con i vincoli legislativi. Non bastano perciò i codici deontologici,[14] ma vi è piuttosto bisogno di un codice etico che deriva dall’aver preso coscienza che vi sono implicazioni morali che la legge non considera, cioè un codice etico che vada a coprire quello spazio di discrezionalità che la legge lascia scoperto. L’evoluzione della industria della salute richiede un avvicinamento tra la bioetica, che deve riflettere sia sugli aspetti teorici, sia su quelli tragici della salute, e il mondo degli affari, che deve tenere conto anche dei principi della pratica medica e in particolare dei problemi locali, e mostrare più attenzione ai criteri di beneficenza e giustizia.[15]
È questo in sostanza il significato del neologismo business bioetichs, cioè è possibile che anche il business nei settori nei quali prevale l’interesse della salute debba fare i conti con certi criteri di valutazione di ordine morale. Il calcolo costo-benefici quindi non è solo questione di breve termine, ma considera anche i benefici e rischi non economici; perciò non considera solo entrate e uscite, ma anche le ricadute sulla società, non solo perdite di costi monetari, ma anche perdite ambientali, di salute, ecc… L’idea è che le imprese che operano con diretta rilevanza con la salute debbano rispondere a codici di condotta specifica, cioè non limitarsi a rispettare le regole del mercato. II.2 Brevettazione della vita e libertà di ricerca
La questione che il filosofo P. Giustiniani sottopone alla riflessione dei partecipanti riguarda un problema di business privative su prodotti di tipo biologico umano. Poiché il peso dei fattori economici esige che venga precisato il sottile discrimine tra scoperta e invenzione, ci chiediamo se siffatti prodotti dell’ingegno umano debbano considerarsi frutto di una scoperta o una invenzione.[16] Perché, se si tratta di una scoperta scientifica, con essa abbiamo dato un contributo alla storia della scienza, una possibilità di ricerca e di incremento. Se, invece, come sembra avvenire, anche a motivi di oggettivi interessi di impresa, è una invenzione, il problema diventa di etica e di bioetica; ma si tratta prevalentemente di un problema di privativa sul brevetto di un particolare prodotto dell’ingegno umano. Nel piccolo volume di F. Ajmar, Chi? Piccolo galateo di Bioetica,[17] troviamo posto sotto forma romanzata il problema sollevato dal prof. Giustiniani. Si tratta di un romanzo genetico, cioè scientificamente ineccepibile, di una coppia di amanti, i quali vogliono produrre un prodotto biologico umano, detto figlio, che non sia proprio a loro immagine e somiglianza, ma che almeno non abbia dei problemi di per sé capaci di rendere sgradevole, qualitativamente inefficace la vita. Per questo chiedono la consulenza di una società genetica, quindi della farmacogenetica, psicogenetica, biogenetica e della biotecnologia. Un desiderio legittimo che suscita interrogativi tecnici e anche morali sui limiti della sua realizzazione attraverso l’intervento della tecnologia. La domanda che si pone è infatti: fino a che punto è giusto o è bene procedere?
Il dovere di tipo morale viaggia con le essenze, con le atmosfere del si deve, o più correttamente con le atmosfere più rarefatte, non concrete come sono quelle tecnologiche e scientifiche, e prima o poi queste considerazioni hanno un peso sulla decisione che questi due amanti dovranno prendere. Al loro tavolo si alternano perciò non soltanto i consulenti genetici, ma anche psicologi, politici e sacerdoti. Il titolo del romanzo Chi?... pone la questione: chi è che decide in tale complessa situazione? I due si convincono che la decisione ultima è la loro. Ma sono uno contro uno, una condizione che può non portare ad alcuna decisione. È la metafora della decisione di tipo normativo, delle norme, delle regole degli Stati, della leggerezza della normativa tradizionale che devono fare i conti in questo settore con le normative internazionali e con gli interessi collegati. Sarà il cameriere della coppia di amanti, presente tutte le sere ai loro incontri con gli interlocutori specializzati, a far pendere la bilancia verso questa o quella decisione finale. Nel frattempo, però, in maniera naturale e fortuita, nasce il figlio tanto desiderato. Ma che cosa vuole dirci questo libro? Cosa ha a che fare con la business bioethics? Il genetista F. Ajmar, all’inizio degli anni ’90, quando in Italia si cominciava a discutere sulla business bioethics, affermava che gli investimenti di ingenti capitali nello studio del genoma umano avevano indotto dei comportamenti di necessità delle coppie stabili o non stabili e anche dei singoli individui di mappare il proprio DNA, almeno per fini di prevenzione, se non proprio allo scopo di progettazione di prodotti biologici umani. Era già una profezia di quanto avviene nella ricerca biotecnologica attuale.
In quegli anni, il Parlamento Europeo con la Direttiva 98/44 CE, il Consiglio di Europa (1998), e successivamente i singoli Stati europei hanno affrontato la questione della brevettazione di prodotti biotecnologici. Il problema era inizialmente solo ed esclusivamente di carattere commerciale ed economico, poi si configurò come un nodo complesso e controverso di problemi con forti coloriture non soltanto economiche e mercantili, ma altresì etiche e bioetiche. In Italia, il Decreto legge 10 gennaio 2006 numero 3 «Attuazione della direttiva 98/44/CE in materia di protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche» esclude dalla brevettabilità, in primo luogo «il corpo umano sin dal momento del concepimento e nei vari stadi del suo sviluppo, nonché la mera scoperta di uno degli elementi del corpo stesso, ivi compresa la sequenza, o la sequenza parziale di un gene al fine di garantire che il diritto brevettale sia esercitato nel rispetto dei diritti fondamentali sulla dignità e l’integrità dell’uomo e dell’ambiente». Questa esclusione ci permette di cogliere il senso della domanda posta all’inizio dal prof. Giustiniani e dall’intervento di Aymar. Si tratta di una esclusione molto raffinata che considera il gene o la sequenza dei geni come una parte del corpo umano, mentre invece la moderna biotecnologia tende a configurarlo come un ‘archivio di informazioni’. In quanto parte del corpo umano, essa è intesa dal legislatore italiano come una mera scoperta scientifica e non una invenzione, perciò non è brevettabile. Viene concesso allo scopritore l’esercizio di un diritto nel rispetto dei diritti fondamentali, quali la dignità e l’integrità dell’uomo e dell’ambiente. Ma che cosa significano integrità e dignità umana per il bioeticista? Il concetto di integrità è comprensibile in quanto significa ‘non lacerazione di parti’, ma la dignità che cosa è? Indica forse ciò che ha più valore rispetto ad altri valori disposti in una scala gerarchica, perché c’è un valore morale da salvaguardare: la dignità dell’uomo. Ma, come ci ricordava la prof.ssa La Torre nel suo intervento, i valori morali nel contesto del pluralismo etico vanno criticamente ripensati, e il prof. Prodomo, nel suo volume sulla natura umana,[18] aggiunge che bisogna confrontare prospettive e saperi diversi, a condizione che ogni partecipante alla discussione teorica si ponga nella giusta predisposizione all’ascolto degli altri.
Il prof. Giustiniani rivolge perciò una critica all’operato del legislatore italiano che non ha ritenuto brevettabile una sequenza genetica in nome di un valore non condiviso. In ultima istanza, poi, l’invocazione di una dignità e l’esclusione di brevettabilità di parti del corpo umano, in quanto scoperte e non invenzioni, chiama in causa il concetto di natura umana che è un nodo problematico per la scienza della vita. Il decreto contempla altre esclusioni. La seconda riguarda i metodi per il trattamento chirurgico-terapeutico del corpo umano o animale o i metodi di diagnosi applicati al corpo umano e animale. Anche questa seconda esclusione non si giustifica. Così come la terza che riguarda le invenzioni il cui sfruttamento commerciale è contrario alla dignità umana, all’ordine pubblico e al buon costume, alla tutela della salute e della vita della persona e degli animali, alla preservazione dei vegetali, la biodiversità o alle prevenzioni di gravi danni ambientali. Certamente la considerazione del danno ambientale giustifica la non brevettabilità, ma essa non è giustificabile quando considera la dignità umana un valore più rilevante di altri valori. Perché considerare il valore economico, non inteso come mero profitto, l’ultimo dei valori? Non ha l’”economico” valore integrativo con la dignità, la giustizia …? Non esiste una gerarchia di valori, ma esistono solo valori covalenti!
Il campo della brevettabilità di sequenze genetiche è un territorio non solo di discussione, ma sta diventando un territorio di business, e non si può escludere, teme il nostro relatore, che altri vi possano entrare a ‘gamba tesa’ in nome di valori non negoziabili. III. Recenti controversie giurisprudenziali in tema di fecondazione assistita
Questo terzo incontro vede due giuristi dibattere su alcuni aspetti problematici della legge 40/2004 che hanno dato luogo a recenti controversie giurisprudenziali. La dottoressa Franca Meola presenta due controversi interventi giurisprudenziali sul tema della diagnosi pre-impianto sull’embrione umano; il dott. Mauro Fusco presenta alcuni aspetti problematici delle linee guida della legge 40/2004, soprattutto in relazione al tema della diagnosi pre-impianto. III.1 Il caso Cagliari [19]
Il primo intervento giurisprudenziale è quello del giugno 2005 del Tribunale di Catania che respinge il ricorso presentato da una coppia di coniugi catanesi, sterile e portatrice di una grave malattia trasmissibile al feto (βetatalassemia), per non essere stata ammessa alla diagnosi pre-impianto sull’embrione.[20] La motivazione con cui il giudice di Catania respingeva il ricorso dei due coniugi era che, per lui, non si poneva alcun problema di interpretazione del testo normativo, poiché questo manifestava in maniera chiara ed inequivocabile la volontà legislativa di non concedere a chi si rivolge alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita nessuna possibilità di scelta dell’embrione, dal momento che questa possibilità è di fatto negata anche ai futuri genitori di un figlio procreato naturalmente.
Il secondo intervento giurisprudenziale fu quello fatto successivamente dal Tribunale di Cagliari per un caso analogo a quello di Catania. In un primo momento, il giudice di Cagliari, considerando la complessità del quadro normativo, aveva palesato l’esigenza di una interpretazione della legge, rimettendo gli atti alla Corte Costituzionale, sperando di poter avere maggiori lumi sul significato delle disposizioni impugnate. In mancanza di un intervento della Corte Costituzionale, egli rigettava l’interpretazione più elastica che consentiva alla coppia di accedere alla diagnosi pre-impianto, e con una ordinanza nega ai due coniugi sterili, affetti anch’essi da βetatalassemia, di accedere alla diagnosi pre-impianto. I coniugi abbandonano il giudizio e, successivamente, ripropongono la questione però attraverso un ordinario giudizio di merito. Il giudice di Cagliari, questa volta, ribalta le conclusioni della sua precedente ordinanza e sentenzia, senza che la Corte Costituzionale fosse intervenuta, l’ammissibilità della coppia di coniugi alla diagnosi pre-impianto.[21] Il motivo fondamentale con cui il Tribunale di Cagliari ammette l’accesso della coppia alla diagnosi pre-impianto è ravvisabile nella legge stessa. Nell’art. 6 del testo legislativo 40/2004, al quinto comma, è scritto che coloro che accedono alle tecniche di procreazione medicalmente assistita devono essere edotti non soltanto degli effetti di queste tecniche, ma anche dello stato di salute degli embrioni. Questo obbligo di informativa, posto a carico del medico della struttura sanitaria, serve a permettere alla donna di manifestare il proprio consenso all’intervento di impianto in utero degli embrioni. A questo punto sorge la domanda: se, dopo aver dato il proprio consenso informato all’intervento, la donna successivamente viene posta a conoscenza del cattivo stato di salute dell’embrione, obbligatoriamente deve sottoporsi all’intervento? Qual è la finalità del consenso informato? È dunque nella legge stessa, è nell’obbligo di rispettare la volontà del soggetto di sottoporsi al trattamento sanitario che bisogna rintracciare il fondamento positivo che permette la diagnosi pre-impianto.
La sentenza del giudice di Cagliari è senz’altro significativa, ma rappresenta solo un piccolissimo tassello collocato nel percorso giurisprudenziale che porterà prima o poi ad una modifica del testo dell’intera legge. III.2 Le linee guida emanate dal Ministro per la Salute
Come già accennato, la fonte normativa delle linee guida della legge 40/2004 è l’art. 7.[22] Quanto è affermato nel secondo comma di questo articolo, ossia le linee guida sono «vincolanti» stride con il concetto stesso di linee guida, perché esse sono normalmente indicazioni procedurali emanate sulla base della comune esperienza medica, che devono essere sicuramente seguite, ma non sono vincolanti in senso assoluto, poiché vanno sempre commisurate al caso pratico.
Le linee guida ministeriali del 22 luglio 2004, emanate ai sensi dell’art. 7 della legge in esame (Decreto Ministero della Salute G.U. n. 191 del 16 agosto 2004), si aprono con una serie di definizioni più o meno contestabili, sicuramente contestate. Esse, in primo luogo, affermano che i due termini, infertilità e sterilità, saranno usati come sinonimi, ma ciò non è corretto dal punto di vista medico-scientifico. In secondo luogo esse descrivono le modalità di certificazione della sterilità-infertilità, che è individuata dalla legge 40/2004 come unico presupposto per l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita. In terzo luogo esse affermano il principio di gradualità nel ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, e descrivono l’attività di sostegno e consulenza rivolta alla coppia sterile richiedente l’accesso alle varie tecniche di fecondazione assistita, distinte in tre livelli, a seconda del loro grado di invasività. Infine, contengono le disposizioni concernenti la sperimentazione sugli embrioni umani, che è strettamente legata alla diagnosi pre-impianto. Come è noto, la cosiddetta diagnosi pre-impianto consiste in un accertamento genetico che, attraverso la tecnica del prelievo di una o più cellule dall’embrione prima del suo impianto nell’utero materno, consente di accertare se l’embrione stesso sia o meno portatore di determinate gravi malattie e quindi di conoscerne prima dell’impianto lo stato di salute.
Prima dell’entrata in vigore della legge n. 40/2004, la diagnosi preimpianto sugli embrioni prodotti in vitro e destinati al trasferimento in utero era comunemente praticata e nessuno dubitava della sua liceità. Successivamente all’approvazione della legge sulla procreazione medicalmente assistita, la questione sulla perdurante liceità dell’accertamento diagnostico in esame è divenuta controversa, non essendo il disposto normativo del tutto chiaro. Nella legge n. 40/2004 non è infatti individuabile una disposizione che faccia specifico riferimento alla diagnosi preimpianto, ed il problema è ulteriormente complicato dal fatto che, invece, con espressa disposizione, viene riconosciuto, in capo a coloro che abbiano fatto (legittimo) ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, il diritto di essere informati sul numero e, su loro esplicita richiesta, sullo stato di salute degli embrioni prodotti e destinati al trasferimento in utero.[23] Le linee guida ministeriali del 22 luglio 2004 stabiliscono infine che «ogni indagine relativa alla salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell’art. 14 comma 5, dovrà essere di tipo osservazionale». La dottrina è divisa sull’interpretazione delle disposizioni in esame, che infatti sono state lette in due sensi diametralmente opposti. Accanto ad autori che hanno individuato nell’art. 13 della legge la regola dell’illiceità penale della diagnosi preimpianto, vi sono autori che invece hanno affermato la praticabilità dell’accertamento diagnostico in questione quando richiesto ai sensi dell’art. 14 comma 5 della legge n. 40/2400. Questi problemi hanno dato vita a vari interventi giurisprudenziali, già discussi nel precedente intervento dell’avv. F. Meola, da ultimo quello del TAR del Lazio del 21/01/2008, che hanno imposto la revisione delle linee guida ministeriali della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Il testo delle nuove linee guida, emanate con il D.M. del 11/04/2008, è identico a quello delle linee guida emanate nel 2004. Dovendo fare un bilancio, possiamo dire con sicurezza che con le nuove linee guida non è stato operato un reale aggiornamento. Rimangono le lacune del testo iniziale. Anzi se ne aggiunge un’altra, la concezione di infecondità[24] che non sappiamo se equiparare o meno a sterilità o infertilità. È l’unica vera novità introdotta, che si basa però su una forzatura del testo di legge con un utilizzo improprio dei concetti di sterilità, infertilità dal punto di vista medico, sicuramente una applicazione giuridica quanto meno contestabile dal punto di vista della tecnica, e dell’equità sostanziale. IV. Tavola rotonda: Quale futuro per la bioetica?
Dopo i tre precedenti seminari su temi specifici dettati dal progresso della tecnologia medica, eccoci giunti al quarto e ultimo incontro di questo anno dal titolo Quale futuro della Bioetica? Presiede Giovanni Chieffi, intervengono nell’ordine Paolo Bonetti, Carmine Donisi, Oscar Nicolaus, Giuseppe Reale.
Il prof. Chieffi ricorda, avendo vissuto personalmente lo sviluppo della disciplina Bioetica, l’appassionante avvio delle discussioni che venivano sollevate dal tumultuoso progresso delle conoscenze scientifiche del secolo scorso. In Italia si cominciò a parlare ufficialmente di Bioetica nel 1990, quando la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nella persona di G. Andreotti, insediò il Comitato Nazionale per la Bioetica. Era la prima volta che problemi fino ad allora di pertinenza di medici e biologi venivano discussi insieme a giuristi, filosofi, teologi, psicologi, sociologi. Forse ciò avveniva nelle aule giudiziarie per ben altri scopi, certamente non quello di stabilire l’eticità o meno nella applicazione di quanto veniva man mano scoperto nel campo della Biomedicina. Infatti, la scienza è rimasta per secoli in splendido isolamento, un coinvolgimento etico della ricerca scientifica era minimo, se non inesistente. La ricerca scientifica è stata per lungo tempo auto-referenziale, anche perché la sua autonomia resta indipendente in quanto ha proprio fine.
In effetti si è cominciato a parlare di Bioetica quando la scienza ha provocato l’etica, ciò è avvenuto quando i risultati del suo tumultuoso progresso del secolo scorso prevedevano, addirittura hanno portato ad applicazioni, in alcuni casi, a dir poco, discutibili. Basti ricordare le perplessità sollevate dall’annuncio della modifica del patrimonio genetico del batterio escherichia coli, a cui seguì la moratoria delle ricerche di ingegneria genetica per un anno, con lo scopo di cautelare l’uomo e l’ambiente da eventuali usi distorti dell’ingegneria genetica. Perplessità che si moltiplicarono man mano che le biotecnologie investivano la pratica medica, dalla terapia genica ai trapianti, allo sviluppo di tecniche di riproduzione assistita.
In proposito, egli ricorda quanto scriveva nel 1972 il suo compianto maestro, Giuseppe Montalenti (Asti, 1904 – Roma 1990) fondatore della genetica in Italia, in un articolo comparso nella rivista “Scientia”.[25] Alla domanda che Montalenti si poneva: «se è lecito fare della scienza pura, senza preoccuparsi delle conseguenze pratiche che da queste conoscenze possono scaturire», così rispondeva:
L’opera scientifica, nasce da un insopprimibile stimolo alla conoscenza, per lo più indipendentemente dalle possibili applicazioni. Arrestare, o cercare di deviare secondo idee preconcette, il corso di questo processo di ricerca può riuscire sommamente pericoloso, come molti eventi storici, dal processo a Galileo all’imposizione dell’egemonia di Lysenko nella Unione Sovietica, insegnano. Il cammino della civiltà umana è stato determinato in grande parte dalla iniziativa individuale intesa alla ricerca dei valori fondamentali. Tentare di spegnere o coartare questa ansia di conoscenza e di ricerca sarebbe, io credo, esiziale. Ciò non significa che il ricercatore debba chiudersi nell’isolamento della sua torre d’avorio, ignorando gli impulsi e le esigenze che urgono al di fuori. È un’illusione, che molti hanno coltivato, e molti tuttora coltivano, ritenere che la scienza pura viva di vita propria, completamente indipendente dalla società in cui si sviluppa. Le ispirazioni, i motivi, il metodo stesso dell’indagine sono condizionati da un complesso di circostanze storiche, sociali, culturali, che giungono allo scienziato attraverso mille canali, di cui egli stesso non sempre è cosciente. E, inversamente, l’opera scientifica, anche quando non dia origine direttamente ad applicazioni pratiche, si inserisce nel quadro culturale della società, e, presto o tardi, più o meno intensamente, gli conferisce la propria impronta, e ne sollecita particolari sviluppi di pensiero, o di azione. L’esempio più spettacolare di questa influenza di dottrine scientifiche, sulla cultura e sulla società, è nato forse dalla teoria dell’evoluzione, che, pur non conducendo direttamente a pratiche applicazioni, ha prodotto una vera rivoluzione nella cultura moderna, con riflessi forti anche in campo sociale.
E ancora più avanti scrive:
Riconosciuta in tal modo, da un lato l’autonomia e l’indipendenza della scienza in quanto a motivi di indagine, criteri di giudizio e di metodo, e d’altra parte la stretta connessione dell’attività scientifica con il contesto sociale ed economico, si propone la seguente domanda: è lecito che la comunità, cioè il governo di una data struttura sociale eserciti pressioni per lo sviluppo differenziale di alcune discipline, o ponga determinati quesiti d’ordine pratico, fornendo i mezzi finanziari per l’indagine relativa?
Montalenti risponde che non c’è alcun male nella promozione differenziale di alcune discipline, per motivi di convenienza pratica o anche, talvolta, di emulazione nei riguardi di altri paesi, o di «moda», purché si tenga nel dovuto conto la necessità di «garantire a tutte le discipline, anche a quelle che sono, o sembrano lontane dalle possibilità di realizzazioni tecniche, le condizioni per un adeguato sviluppo. È necessario cioè assicurare un substrato scientifico-culturale di base, sul quale soltanto possono prosperare più rigogliosamente alcuni rami della scienza, e della tecnica».
Su questi principi, così chiaramente esposti da Montalenti in epoca non sospetta, ancora non erano stati eseguiti gli esperimenti di ingegneria genetica che portarono alla loro moratoria in campo internazionale, Chieffi si dice convinto che ci sia un generale consenso. Dopo questa premessa, che ritiene sufficiente per riflettere sul futuro della Bioetica, parole che compaiono già nel libro del celebre Van Potter Bioetica. Un ponte verso il futuro,[26] ricorda a tutti che l’inarrestabile e imprevedibile corso del progresso scientifico ci porta perciò ad essere sempre attenti ad evitare in futuro ogni puro tentativo di minacciare i diritti fondamentali e universali dell’uomo. Bisogna in altri termini navigare a vista.
Terminato il suo intervento, presenta i relatori che parleranno sui due volumi di R. Prodomo, di cui uno collettaneo in tema con l’incontro, e l’altro sulla natura umana. a) Prof . Paolo Bonetti
Il prof. Bonetti entra direttamente nel tema oggetto della tavola rotonda. Il suo intento è infatti quello di parlare di Bioetica, però partendo dalla domanda che ritiene tutti noi dobbiamo farci: se c’è una scienza o un sapere, che è un sapere di tutti, necessariamente questo sapere è la Bioetica. Però che idee hanno i politici chiamati a prendere delle decisioni di natura bioetica, biopolitica? Cioè, qual è il rapporto tra la ricerca nel campo della bioetica e quel mondo politico che poi dovrebbe tener conto di quello che si viene elaborando attraverso la ricerca bioetica?
A questa domanda, egli stesso risponde non nascondendo un certo pessimismo, che per la maggior parte degli uomini politici le discussioni di bioetica sono più che altro una seccatura, perché si tratta poi di mettere assieme pareri che spesso sono radicalmente divergenti, che creano imbarazzi, che infrangono tabù e che poi spesso si risolvono in diatrìbe, anche interne alle corporazioni dei bioeticisti. La bioetica è qualche cosa che in certo modo disturba gli equilibri politici, e la tendenza è, in questo campo come in altri della vita nazionale, quella di rimandare, di non affrontare le questioni, perché poi sarebbe difficile in sede biologica, a maggior ragione in sede politica, trovare un punto di convergenza. Basti pensare alla vicenda del testamento biologico. Intanto, i problemi, per noi cittadini, uomini comuni, del testamento biologico, così come quelli sulla legge della procreazione assistita, continuano ad esserci, e tuttavia anche in questo campo si arriva a discutere sulla nostra pelle e non si riesce ad arrivare a delle leggi. Quando ci si arriva, come nel caso della procreazione assistita, si arriva a leggi pasticciate, incoerenti. Non si possono fare leggi di questo tipo per cercare dei compromessi politici in questo campo delicatissimo, che alla fine non si raggiungono neppure.
C’è poi il problema di capire come la più vasta opinione pubblica considera questa disciplina di cui sente parlare in televisione, di cui legge sui giornali sempre più frequentemente, ma si nutre di informazioni abbastanza vaghe. Molte persone, anche colte, hanno della bioetica una idea difensivistica. Cioè esse pensano che sia una disciplina, non si capisce bene se è una filosofia o una scienza, che ha il compito di salvaguardare alcune leggi morali universali ed eterne, ed in questo compito difensivo la bioetica in qualche modo esaurisce la sua funzione. C’è poi un altro modo di concepire la bioetica da parte dell’opinione pubblica, ossia di considerare la bioetica come una ricerca che affronta incessantemente problemi storicamente nuovi, non la bioetica e la immobile natura sacralizzata, ma la bioetica e una natura che si viene incessantemente modificando attraverso le nuove acquisizioni scientifiche, e le nuove biotecnologie che ci permettono di fare sempre più e meglio della natura un processo storico, aperto. E quindi la bioetica che non garantisce nulla, che non dà certezze assolute, ma che accompagna il lavoro di ricerca di tutti gli altri uomini di scienza, che vive e cresce in collaborazione con le altre discipline scientifiche in una dimensione storico-temporale imprevedibile. Questo modo di concepire la bioetica, nella cultura generale e italiana, è ancora nettamente minoritario. Eppure, io credo, afferma Bonetti, e i due libri del prof. Prodomo lo confermano, che l’unica realistica prospettiva della ricerca bioetica, attuale e futura, è quella di costituirsi come sapere storico in progress. [27]
Nella conclusione, egli fa poi notare che molto spesso quando nella discussione su questi o altri temi non strettamente di bioetica si tira fuori Dio o la ragione o la natura, essi servono come «manganello da dare in testa» a coloro che la pensano diversamente e che additano prospettive nuove non solo in campo medico, ma anche in quello dei rapporti umani, perché non dimentichiamo che se la bioetica è legata al processo scientifico biologico, al tempo stesso essa segue e produce un incessante cambiamento del costume sociale. Il problema di Dio è un problema storico, perché non si tratta di stabilire se Dio esiste o non esiste, ma si tratta di capire che cosa è Dio oggi per noi. È il Dio per gli uomini, Dio per me, Dio per questa cultura, per questa società. Se la teologia, osserva polemicamente il relatore, deve storicizzarsi, a maggior ragione deve storicizzarsi la bioetica, che accompagna le trasformazioni dell’uomo come creatura, che emerge incessantemente dalla natura, dal suo fondo biologico e tuttavia con questo conserva un rapporto imprescindibile. b) Prof. Carmine Donisi
Il prof. Donisi articola il suo intervento in due momenti, cercando di operare una sorta di bilanciamento tra due istanze, quella di soffermarsi criticamente come biogenetista su ciascuno dei sedici contributi di elevato valore scientifico di cui si compone il volume collettaneo di R. Prodomo, e quella di tentare di rispondere, sulla base dei riscontri tratti dalle letture dei vari saggi, all’arduo quesito Quale futuro della Bioetica?.
Iniziando prima dal censimento dei temi trattati, egli dichiara che non è affatto fuori luogo affermare che la lettura del libro curato da Prodomo offre una panoramica aggiornata e rigorosamente documentata dei problemi più complessi che impegnano la ricerca bioetica contemporanea, da quelli delicatissimi inerenti l’inizio della vita umana, agli altri problemi altrettanto più roventi della fine della vita stessa, né manca la trattazione delle molteplici inquietanti ricadute giuridiche ed economiche della incalzante evoluzione delle scienze e delle tecnologie genetiche. Altrettanto interessanti e ricchi di spunti di notevoli attente riflessioni sono gli scritti orientati a delineare gli scenari di una società contrassegnata dai prodigiosi sviluppi delle scienze biomediche, né tralascia, nel contesto di una concezione meno angusta della scienza bioetica, l’analisi dei fenomeni dai molteplici riflessi soprattutto sulle giovani generazioni. Pur se collocate in Appendice, non di minore interesse risultano le riflessioni esposte da Mario Coltorti, Francesco Lucrezi e da Paolo Bonetti, in occasione dei precedenti volumi curati da Prodomo e dedicati a temi davvero nodali nel campo bioetico.[28]
In proposito, nella evidente impossibilità di dar conto a tutti gli interventi, il prof. Donisi cita un brano del maestro Mario Coltorti, dal quale emerge con estrema nitidezza l’imprescindibile canone metodologico alla base della ricerca bioetica. Scrive Coltorti a pagina 338:
In una società democratica, pluralista, fondata su norme legislative e loro applicazioni giurisprudenziali illuminate, il c.d. “politeismo morale”, invece che lo scontro tra posizioni radicalizzate, è il confronto aperto e, finché possibile, la convergenza di concezioni diverse, che può arricchire ogni ente umano e agevolare soluzioni eque di fronte ai drammi umani, mai uguali tra loro.
Osservazione questa che si salda puntualmente con la filosofia che ispira il contributo di Prodomo incluso nel volume che stiamo presentando,[29] nel cui titolo si compie l’eco della celeberrima opera di G.B. Vico Scienza Nuova (1774).[30] In questo scritto difatti è ribadito lo statuto epistemologico della Bioetica. Alla domanda come debba tradursi nella pratica l’impegno a salvaguardare il carattere della interdisciplinarietà come dato fisionomico della riflessione bioetica, Prodomo così risponde a pagina 122:
In primo luogo approfondendo la nozione stessa di dialogo tra i saperi che è veramente fecondo se esiste non solo una generica volontà di cooperazione, ma anche un’effettiva volontà di mettersi in discussione e in qualche modo contaminarsi reciprocamente. Questa seconda modalità di dialogo è quella realmente produttrice di novità e fecondità intellettuale, ed è la norma dichiarata del cosiddetto pensiero della “complessità”.
Terminata questa prima parte del suo intervento, il prof. Donisi dedica qualche considerazione all’interrogativo cardine della tavola rotonda Quale futuro della Bioetica? Alla luce dei saggi raccolti nel volume, del taglio cronologico che li caratterizza e della elevata caratura culturale scientifica e professionale dei loro autori, egli sente di affermare in tutta serenità che il futuro della bioetica è più che promettente. Pertanto le sfide, anche quelle più dirompenti e spesso angoscianti che il progresso biomedico lancia agli studiosi di bioetica, potranno essere adeguatamente fronteggiate nella costante consapevolezza che esse coinvolgono l’identità stessa della persona umana, e il destino delle generazioni future. Non mancano tuttavia altrettanto pressanti interrogativi bisognosi di essere esaminati che Donisi vuole sottoporre alla attenzione di tutti. Se, dunque, la bioetica ha un futuro, a chi va affidato istituzionalmente questo futuro? Alle leggi o alle sentenze? Cioè, in altri termini, al Parlamento o alla Magistratura? Sul punto, come è noto, vi è un movimento di pensiero incline a rispondere in questo ultimo senso, cioè nel senso che la bioetica deve essere posta nelle mani dei giudici. Ora, pur lasciando aperto l’interrogativo bioetica legale o bioetica giudiziale, il prof. Donisi intende concludere il suo intervento con un’osservazione questa volta purtroppo non tranquillizzante. Sul futuro della bioetica pur promettente, non manca di addensarsi qualche nube particolarmente minacciosa. È sempre più percepibile quella sorta di più o meno velata insofferenza verso la bioetica da parte di certi settori anche qualificati della ricerca biomedica e non solo di questa.[31] Insofferenza che di recente si è materializzata addirittura in un libro scritto da uno dei più autorevoli psicologi statunitensi J. Baron, intitolato Against Bioethics.[32] Si tratta di una durissima requisitoria di Baron contro la nostra disciplina, valgono per tutti il seguente brano tratto dal suo lavoro:
La bioetica ha creato un sistema decisionale che fornisce scelte irraggiungibili, i bioeticisti sono diventati una sorta di clero secolare a cui i governanti e altre istituzioni si rivolgono in cerca di regole di condotta, in realtà essi sono quasi sempre privi di qualsiasi autorevolezza, e si permettono di giudicare tutto sulla base di una intuizione e ragionamenti che quando diventano regole producono più danni che benefici.
Come reagire di fronte a questo attacco veramente frontale? A questa che a prima vista potrebbe apparire una sfacciata provocazione, non possiamo rispondere con il sarcasmo o con l’ironia, e né mai con l’indifferenza o addirittura con la demonizzazione, ma applicando quella impostazione metodologica che ispira l’intero volume curato da Prodromo, cioè esaminando con estrema attenzione l’opera di Baron, valutandone serenamente gli argomenti addotti, analizzando senza preconcetti le ragioni delle sue critiche, intessendo insomma con l’autore un ideale pacato dialogo in modo da darne, se possibile, utili ammaestramenti; in questo modo, forse, riusciremo a ricavare anche dal traumatico volume di Baron preziosi stimoli e suggerimenti per assicurare alla Bioetica un futuro ancora più promettente. c) Dott. Oscar Nicolaus
Il dott. Nicolaus ritiene che le ricerche in campo bioetico fanno emergere non solo la necessità, ma già la realtà di una nuova narrazione scientifica. Esse fanno entrare nel campo della riflessione e della ricerca scientifica il termine ‘narrazione’, che è stato bandito, e lo è tuttora, da quelli che sostengono che uno degli aspetti centrali su cui si fonda il metodo scientifico classico è l’espulsione dell’osservatore dalla osservazione, del ricercatore dalla ricerca in quanto soggetto, altrimenti la ricerca non è definibile come scientifica. Le ricerche bioetiche fanno emergere con forza non solo la necessità scientifica della narrazione all’interno della ricerca bioetica, ma anche alcuni concetti già introdotti all’inizio del ‘900 da alcuni scienziati, quale, ad esempio, il fisico danese N. Bohr. Egli ha sviluppato il principio di complementarità, secondo il quale nella descrizione della natura dei processi microfisici entrano in gioco aspetti complementari ma mutuamente esclusivi, come l'aspetto ondulatorio e corpuscolare della luce.
Nicolaus dice questo perché spera nel futuro della bioetica, e nel contributo sicuramente importante che la ricerca bioetica saprà dare reintroducendo la narrazione (del narratore) all’interno della ricerca scientifica. La narrazione infatti fa diventare complementare e incita ad un andirivieni continuo tra le proprie concezioni del mondo i propri dati sperimentali in una influenza reciproca, in cui la dimensione scientifico-sperimentale e quella filosofica sono implicati non in una relazione semplice di causa-effetto, ma ricorsiva e circolare. Spera inoltre che la bioetica possa svolgere anche un ruolo di trasformazione di quella che è una visione corrente e media che si ha nella scelta della tecnologia. Oggi una tale visione culturale è quella scientista, riduzionista. Questa straordinaria funzione è anche una sfida, perché tutto da costruire, in cui la storia e la singolarità, la contingenza e l’emergenza e il processo storico siano tutti insieme strumenti del ricercatore, e non strumenti di singoli dipartimenti stagno. Conclude citando R.D. Laing[33]:
Se uno dice che gli uomini sono macchine costui suscitando il plauso generale rischia anche di passare per un grande scienziato. Ma se uno dice d’essere lui stesso una macchina (ed in un impeto di encomiabile coerenza incomincia a correre avanti e indietro facendo ciuff ciuff come un treno), costui “di solito” viene preso per pazzo. Ma se consideriamo pazzi gli individui che si sentono automi, automobili, locomotive etc. etc., perché “di solito” non consideriamo pazzesca una teoria, come quella medica, che considera le persone come macchine; una teoria dove il loro corpo è visualizzato come un semplice meccanismo in grado di rispondere solo ad uno sguardo fisico o chimico. d). Prof. Giuseppe Reale
Il teologo Reale ringrazia i partecipanti alla tavola rotonda per aver scelto la sede dell’associazione culturale “Oltre il Chiostro”, da lui presieduta, per presentare non soltanto una fatica editoriale, ma piuttosto un percorso che, in maniera efficace, all’interno della II Università di Napoli, viene a rappresentare un tentativo di ricerca e di soluzione, se è possibile, di quello che Lombardi Vallauri, nella miscellanea curata da R. Prodomo, definisce come un kớan.[34] Dovremmo probabilmente trasporre questa immagine buddista in ambito di cultura cattolica o di cultura cristiana parlando di una sorta di mistero indecifrabile. E in tal senso questo autore forse tratteggia la nostra condizione psicologica percettiva dinanzi a ciò che la bioetica in quanto ricerca, in quanto scienza, rappresenta. È una sfida innanzitutto dell’intelligenza e domanda a chi è un uomo credente. E allora questa fatica editoriale vuole anzitutto siglare un percorso che in questa sede vede attorno ad un tavolo esperti di discipline diverse in una dimensione seminariale, colloquiale, accettando la sfida della differenza e della convivialità, e forse anche indicando una parola eccessivamente retorica quale quella di dialogo ma più che soltanto di un dialogo, si tratta in realtà anche di una comprensione appieno dei limiti di qualsiasi ricerca della verità. In questo caso specifico, il testo del prof. Prodomo dà anzitutto la possibilità di rendere fruibili materiali di studio che probabilmente resterebbero solo vincolati alla circolazione accademica, universitaria, seminariale, e invece diventano una proposta complessiva, e lo diventano se noi accettiamo di entrare in questo universo bioetico con la consapevolezza che i suoi limiti ci sfuggono, che questo universo resta ancora molto magmatico e che questa realtà ha poco da condividere con una dimensione ordinata del cosmo.
Proprio in relazione a questa riflessione, sarebbe stato opportuno porre nel titolo del volume un qualche punto di domanda. Siamo infatti dinanzi ad una domanda essenziale: qual è il nostro metodo epistemologico quando parliamo di bioetica? Qual è il modellino della complessità con il quale ci cimentiamo? Come ci veniva ricordato, siamo dinanzi a dei percorsi non alternativi la cui ricchezza semantica, la cui capacità di senso è proprio nel leggerli episodicamente e poi di intrecciarli ancora e magari nel ritornarvi dopo che questioni apparentemente diverse possono in qualche modo ulteriormente aprire altre domande rispetto a campi di altro genere. Questo è appunto la bioetica. Questo è il modello che Vallauri ci indicava come segno di complessità facendo riferimento alla tradizione buddista.
Questo è il senso di una realtà imbarazzante per chi, come il teologo Reale, è chiamato a rappresentare in un dibattito pubblico una posizione cattolica. Un imbarazzo, una difficoltà molto italiana che nasce anche dall’aver trasformato la bioetica non soltanto nel campo di una riflessiva profonda conviviale possibilità di ricerca, ma ancora di più in un campo di bagarre politica. Da una parte un’agenzia etica, primariamente la Chiesa Cattolica, che funge da baluardo, dall’altra parte, invece, una società che sembra essere ingabbiata all’interno di regole, di ragionamenti, di riflessioni tanto angelicamente metafisiche da rifuggire dal confronto con la nuda realtà. Come superare questa contrapposizione? Il testo di Prodomo ci indica la direzione: lasciar coesistere le nostre possibilità di risposta dinanzi a casi concreti. Questo, afferma il prof. Reale, è un punto essenziale anche della riflessione bioetica del centro di cultura “Oltre il Chiostro” aver compreso che anche da parte religiosa e cattolica sarà necessario cimentarsi non tanto con il tentativo di una soluzione una volta e per sempre, ma, dall’altra parte, con una verifica di volta in volta dei valori che sono in gioco. E l’insistenza nel richiedere un punto di domanda sul futuro della bioetica e anche sulla possibilità di inaugurare una scienza nuova per il XXI secolo nasce esattamente da questa consapevolezza.
L’aver cancellato il punto di domanda sta ad indicare forse che anche quando siamo consapevoli di dover perseguire un modello variegato di complessità, nonostante tutto non riusciamo a sfuggire alla domanda di elaborare un qualche cosa che ci indichi un percorso epistemologico dove tutto ritorni, dove tutto in qualche modo possa ritrovare la sua collocazione. Pensiero del dominio probabilmente, o forse anche confessione psicologica della nostra incapacità di dominare il tutto. E allora forse la bioetica dovrebbe innanzitutto lasciarci denunciare questa dimensione di precarietà, ma anche di bisogno di un orizzonte di senso. Ed è su questi aspetti che il dialogo tra laici e cattolici può ritrovare degli elementi pertinenti, rifuggendo dalla gazzarra politica del nostro Paese. Perché questo dialogo possa continuare in futuro è necessario che i due mondi culturali sappiano conciliare le loro differenti visioni dell’uomo. Sono infatti due le concezioni antropologiche che oggi si confrontano: quella cattolica, che è un’antropologia naturalisticamente fondata, e quella laica che è invece un’ antropologia storicamente situata.
Eppure, quando ci si trova dinanzi all’opzione tra le due antropologie sorge sempre il problema: fino a che punto rimarrà inviolabile il senso perenne della dignità dell’uomo?[35] In che modo, la realtà statale, che in ultima analisi è il palcoscenico di questi riferimenti, saprà organizzare il nostro vivere tutelando la dignità della persona?. Sono dubbi, paure che ci portano necessariamente a chiedere: qual è la riflessione storicamente situata, culturalmente motivata che ci consente di salvaguardare la perennità di ciò che definiamo persona, senza rinunciare alla possibilità di essere attenti alla esistenza di questo singolo uomo nella sua contingenza, con il suo modo di vivere, con la sua realtà di bisogni? Prodomo fa suo il tentativo di J. Habernas di superare certi aspetti contraddittori tra libertà, cultura liberale e, dall’altro il tentativo di organizzare anche in maniera unitaria e non refrattaria la realtà sociale. A pag. 144 della miscellanea leggiamo:
La natura umana come prodotto ed esito di una storia piuttosto che come dato biologico o metafisico statico, questo sembra il messaggio, anche se tale concezione sembra vacillare di fronte alla possibile appropriazione biotecnologia del dato biologico e genetico umano. In questo senso, come già abbiamo avuto modo di notare, la resistenza del filosofo tedesco Habernas nei confronti delle possibili modifiche del patrimonio ereditario da parte dell’ingegneria genetica sembrano incoerenti, incongrue rispetto al modello teorico di base.[36] Per parte nostra pur con le dovute cautele ci sembra che la natura umana intesa come processo storico-evolutivo possa essere oggetto di indagine di una scienza nuova in senso vichiano, ossia un sapere complesso che sappia integrare in una visione unitaria gli apporti provenienti dai diversi ambiti disciplinari.
È una direttrice che ci offre il prof. Prodomo, una direzione di marcia la cui efficacia, la cui spendibilità, la cui capacità attuativa rispetto alle esigenze concrete, probabilmente è ancora frutto della ricerca intellettuale, ma può risultare convincente per un tentativo di sperimentazione. I risultati della prassi potranno o meno confermare o in qualche modo farci cambiare pista di riflessione. È una spinta che il mondo cattolico ha difficoltà, almeno in alcuni pronunciamenti magisteriali, a sostenere, però dall’altra parte, lo stesso mondo laico può ritrovare in questa eccessiva insistenza della difesa, e nella difesa del valore della persona umana, comunque un primo punto ineludibile, a partire dal quale declinare le applicazioni della bioetica e delle biotecnologie in questo grande sviluppo nel quale siamo immersi più che conduttori.
Ecco, questi elementi di luce e di ombra, di paura e di attesa costituiscono l’ordito, il crocevia attraverso il quale il mondo della cultura laica e quello della cultura cattolica possano ritrovare una loro possibilità di prosecuzione. Conclusione della tavola rotonda
Il presidente, prof. Chieffi, ringrazia i relatori. Ciascuno ha posto chiaramente interrogativi per quanto riguarda il futuro della Bioetica, sul quale non si può essere profeti, ma, ribadisce, bisogna navigare a vista. Infatti, non si può prevedere quali possono essere gli sviluppi della scienza, e gli interrogativi e le prefigurazioni del futuro non sono esenti da condizionamenti dati dalla storia, dall’esperienza di ciascuno di noi. Esprime tutta la sua ammirazione per i due volumi del prof. Prodomo, perché in entrambi i suoi contributi colpisce lo sforzo di sintesi dei saperi umani, di quelli umanistici e quelli scientifici, frutto di un unico processo evolutivo, sebbene la naturalità biologica evolva più lentamente della complessità culturale. Sempre restando al titolo di questo ultimo incontro, ritiene che il capitolo del libro collettaneo più aderente ad esso è certamente quello sul tema La bioetica tra scienza e fede, in cui l’autore ci mette in guardia da «esercizi previsionali palesemente capziosi che distorcano il presente al fine di orientare il futuro ai propri interessi».[37] Quanto alla polemica tra darwinismo e creazionismo, che estende a quella più ampia tra razionalismo e teismo, cita una interessante riflessione del filosofo Orlando Franceschelli riguardo agli errori che «l’evoluzione dissemina lungo il suo cammino nonostante sofferenze e sprechi». Nel suo saggio Dio e Darwin[38] Franceschelli afferma che essi sono da interpretare come espressione dell’unità kenotica dello stesso Dio «Creator et Evolutor». Addirittura si potrebbe parlare di «dono fatto da Darwin alla teologia, ricordandole la vulnerabilità a cui si trova esposto perfino Dio. Se è vero che l’evoluzione è il processo attraverso il quale si realizza la sua promessa» e la libertà dell’uomo. Un’«autonomia evolutiva segnata perfino dalla pura casualità». Sia la casualità nel procedere dell’evoluzione che la selezione naturale potrebbero essere riconosciute come i motori dell’evoluzione anche dai credenti che come i non credenti si sforzano di pensare l’evoluzionismo in modo laico e costruttivo evitando forme di ateismo o di fondamentalismo, polemiche, talvolta sterili. Conclusione
In questi quattro incontri, che hanno visto la partecipazione attiva dei soci dell’Istituto Italiano di Bioetica-Campania, ma anche di numerosi studenti, e dei dottorandi in bioetica delle due Università di Napoli, sono state affrontate alcune complesse questioni che impegnano la ricerca bioetica contemporanea. Una, in particolare, è ritornata più volte polarizzando l’attenzione di tutti: il futuro della disciplina bioetica. Cioè in che modo noi pensiamo al futuro di questa disciplina.
Certamente c’è modo e modo di pensare al futuro. Generalmente è quello di fare delle profezie, cioè immaginare un futuro che è già scritto, e che noi in qualche modo possiamo prevedere. Questo è quello che ci capita anche nella esperienza quotidiana, quando ad esempio guardando alla televisione uno spettacolo sportivo, scommettiamo sull’esito futuro di un evento sul quale noi non possiamo influire. Ma questo non è il tipo di previsione che interessa, cioè è una previsione basata sul concetto di un futuro già prefigurato, già predeterminato, di cui noi saremmo ipoteticamente solo spettatori. Quello che invece è emerso, soprattutto nella discussione dell’ultimo incontro, era non una previsione astratta ma l’idea di una previsione che ci vede impegnati non come spettatori ma come attori. Cioè siamo artefici di un progetto comune che ha come scopo quello di realizzare negli anni il futuro della bioetica. È in questa prospettiva che possiamo comprendere il perché nel titolo del libro collettaneo di Prodomo manca il punto interrogativo, che è stato rilevato nella discussione della tavola rotonda.
Non c’è questo punto interrogativo nel libro non perché esso non pone domande, ma perché il suo autore si è sentito in dovere, da attore e non da spettatore, di indicare una strada da percorrere. Questa strada è quella della discussione, del dialogo, del confronto prima di tutto tra saperi diversi, cosa che di fatto è impossibile non solo nel nostro Paese. Quindi la bioetica può essere una sorta di laboratorio per mettere in cantiere questa sorta di scienza nuova in senso vichiano. Riguardo poi al problema se questo sia qualche cosa di realizzabile o meno, è ovvio che questo tipo di prospettiva bioetica è minoritaria in Italia, ma proprio perché non ci poniamo dal punto di vista dell’attore. È allora evidente che è nostra responsabilità far sì che questa prospettiva possa diventare se non maggioritaria almeno un po’ meno minoritaria per i prossimi anni nel nostro Paese.
Però non è un caso, ci ricordava il prof. Prodomo a conclusione dei lavori della tavola rotonda, che questo modo di prospettare un possibile futuro della bioetica è oggi nella città di Napoli una realtà culturale che in qualche modo si sta già anticipando. Infatti da circa quindici anni l’Istituto Italiano di Bioetica-Campania in collaborazione con altre istituzioni quali il CIRB, la Facoltà di Giurisprudenza della Seconda Università di Napoli, l’associazione culturale “Oltre il Chiostro” sta tentando di progettare un nuovo modo di fare bioetica. Un progetto che vede studiosi di diverse discipline impegnati nello sforzo comune di promuovere la formazione di una nuova disciplina, la disciplina della bioetica che contribuisca al futuro della specie umana.
[1] R. Prodomo (a cura), Il futuro della bioetica, una scienza nuova per il XXI secolo, Giappichelli, Torino, 2008.
[2] R. Dawkins, L’illusione di Dio, le ragioni per non credere, Milano 2007 (2006). Il volume del genetista inglese R. Dawkins rappresenta un vero manifesto culturale all’interno di un mondo scientifico che si propone esplicitamente di dimostrare la non esistenza di Dio.
[3] J. Rawls, Liberalismo politico, Milano 1994 (1993); I.d., Un riesame dell’idea di ragione pubblica, ne il diritto dei popoli, Milano, 2001 (1999).
[4] Una siffatta legge, fondata su una tavola di valori etici condivisi, ha il vantaggio di essere indipendente dai mutamenti dei rapporti politici nel tempo, e di mantenere stabile il contenuto dell’accordo raggiunto.
[5] Cf. P.W. Davies, Da dove viene la vita. Il mistero dell’origine sulla Terra e in altri mondi, Mondatori, 2000, 308.
[6] H. Dukas, B. Hoffman, Albert Einstein – The Human Side, Princeton University Press, 1979.
[7] J. Fletcher, Situation Ethics: The New Morality, Philadelphia, Westminster Press, 1966.
[8] M.A. La Torre, La business bioethics nelle sperimentazioni biotecnologiche…, 223-243.
[9] P. Giustiniani, Brevettazione della vita e libertà di ricerca scientifica, in R. Prodomo (a cura), Il futuro della bioetica…, 97-119.
[10] Si pensi ad esempio alle molte resistenze all’applicazione di OGM in agricoltura.
[11] Le pretese di cautela e le rassicurazioni preventive avanzate dal Principio di precauzione sono avvertite da molti ricercatori come una forte limitazione al loro lavoro di ricerca, perché sanno che questo non può fornire a priori alcuna certezza, ma solo ipotesi ragionevoli.
[12] Si considerino a tale proposito le campagne di boicottaggio contro alcune multinazionali per condotte giudicate “non etiche”, che hanno provocato anche il crollo in borsa dei rispettivi titoli, o le polemiche contro le Big-Pharma, ossia l’insieme delle principali multinazionali della chimica, accusate di biopirateria e sfidate nei loro brevetti esclusivi da alcuni paesi del Sud del mondo.
[13] Cf. M. A. La Torre, La business bioethics nelle sperimentazioni biotecnologiche, in R. Prodomo (a cura), Il futuro della bioetica…, 234-239.
[14] Ad esempio, quello della Farmoindustria, che richiama degli obblighi legislativi senza fare alcun accenno alle responsabilità etiche e sociali di chi opera in un settore in rapida evoluzione.
[15] Il marketing che si sviluppa a sostegno di una causa sociale da parte di un’azienda for-profit, è il primo segnale di un marketing che si affianca alle iniziative di solidarietà sociali. In questo modo, sul piano dell’impresa, ne ha anche una ricaduta sull’immagine e quindi guadagno economico, e poi si tenta un bilanciamento tra interessi economici e interessi sociali.
[16] Tutto questo si pone fin dal momento della elaborazione dei protocolli di ricerca, e non soltanto nella fase di brevettazione e applicazione dei risultati di una siffatta ricerca biotecnica.
[17] F. Ajmar, Chi? Piccolo galateo di Bioetica, Edizioni Scientifiche Italiane, 2000.
[18] R. Prodomo, La natura umana. Evoluzionismo e storicismo, Cosenza 2007.
[19] CF. F. Meola, Il caso Cagliari. Brevi note sulla definizione in positivo della vexata quaestio inerente all’ammissibilità della diagnosi pre-impianto, in R. Prodomo (a cura), Il futuro della bioetica., 21-66.
[20] Il ricorso, così come strutturato dai due coniugi, era un invito al giudice di interpretare la disposizione di legge in materia di divieto di diagnosi pre-impianto, sperando che se ne potesse trarre per loro una interpretazione favorevole.
[21] Rispetto alla pronuncia del giudice catanese, quella del giudice cagliaritano è sicuramente una giurisprudenza molto più sobria, e ciò lo si deduce proprio dall’incipit, dal modo in cui il giudice decide di affrontare la questione. Il giudice di Catania, in sostanza, aveva letto il testo della legge 40/2004 e aveva ritenuto di applicarlo, senza porsi il problema della conformità del testo alla Costituzione o comunque alla circolarità delle disposizioni in esso contenute. Il giudice di Cagliari, invece, sottolinea che il primo compito di un giudice è quello di leggere e interpretare una legge, ed il secondo è quello di scegliere tra più interpretazioni diverse quella più conforme alla Costituzione. Egli dunque ribalta totalmente la prospettiva di analisi del giudice catanese. L’altro punto significativo, che non era stato preso in considerazione dal giudice di Catania, è che la legge 40/2004, molto esplicita nel porre divieti in tutta la sua stesura, non fa un esplicito divieto di diagnosi pre-impianto. Questo divieto è però presente nelle linee guida del 2004, il cui compito, in virtù dell’art 7 della legge 40/2004, è quello di specificare le modalità e le tecniche utili per le applicazioni delle tecniche di procreazione assistita, di chiarire una parola di dubbia interpretazione contenuta nella legge, ma non di dire, come in questo caso, ciò che mai il legislatore aveva detto.
[22] L’art. 7 della legge 40 recita: 1. Il Ministro della salute, avvalendosi dell'Istituto superiore di sanità, e previo parere del Consiglio superiore di sanità, definisce, con proprio decreto, da emanare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, linee guida contenenti l'indicazione delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita. 2. Le linee guida di cui al comma 1 sono vincolanti per tutte le strutture autorizzate. 3. Le linee guida sono aggiornate periodicamente, almeno ogni tre anni, in rapporto all'evoluzione tecnico-scientifica, con le medesime procedure di cui al comma 1.
[23] Il quadro normativo di riferimento è costituito dagli artt. 13 e 14 della legge 40/2004.
[24]All’ipotesi, originariamente prevista dalla legge 40, di certificare la sterilità-infertlità, si aggiungono quelle peculiari condizioni in presenza delle quali, essendo l’uomo portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili, si traducono necessariamente in una condizione di infecondità. Ai termini infertlità e sterilità viene aggiunto il nuovo termine infecondità, che viene utilizzato al posto degli altri due, ma che di fatto non significa molto. Quindi si parifica la condizione di sterilità di fatto a quella di infecondità, che va accertata e certificata. Si tratta di un escamotage politico che, assegnando al termine infecondità un valore giuridico, consente di fatto una estensione della legge 40/2004.
[25] G. Montalenti, Prometeo, in Scientia 66/9-10 (1972), 789-791.
[26] V.R. Potter, Bioetica. Ponte verso il futuro (1971), Sicania, Messina 2000. [27] Questa è la strada da percorrere se la bioetica deve avere un’incidenza sociale, perché non deve ridursi ad alcuni solenni luoghi comuni che appartengono alla nostra tradizione umanistica, tanto religiosa quanto laica, e che tuttavia oggi devono essere ripensati alla luce di un sapere scientifico o saperi che ci costringono a ripensare il concetto tradizionale di natura.
[28] R. Prodomo, (a cura), Progressi biomedici tra pluralismo etico e regole giuridiche, Giappichelli, Torino, 2005; I.d., La nascita, i mille volti di una idea, Giappichelli, Torino, 2006.
[29] R. Prodomo, La bioetica tra scienza e fede: una “scienza nuova” per il XXI secolo?, in R. Prodromo (a cura), Il futuro della bioetica, una scienza nuova per il XXI secolo, Giappichelli, Torino, 2008, 121-145.
[30] G.B. Vico, Principj di scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni (1744), in I.d. Opere, a cura di Andrea Battistini, 2 voll., Mondadori, Milano, 1990.
[31] Infatti continua ad offrirsi negli ultimi tempi sempre più insistentemente la rappresentazione della bioetica come un ottuso gendarme della scienza, come dannosa pastoia del progresso scientifico, come improvvido ostacolo alla scienza biomedica e alle sue applicazioni. E le aspre reazioni suscitate alla serie di perplessità manifestate da una corrente di pensiero circa lo studio e l’impiego delle cellule staminali embrionali costituiscono l’esempio più eloquente di questo clima che è sempre diffuso nella nostra società.
[32] J. Baron, Against Bioethics, traduzione italiana Contro la Bioetica, Cortina, 2008.
[33] L. De Caprio – M. Fusco, La Chiesa cattolica, l’alimentazione artificiale e lo stato vegetativo permanente, in R. Prodomo (a cura), Il futuro della bioetica, una scienza nuova per il XXI secolo, Giappichelli, Torino 2008, 287.
[34] Secondo i buddisti Zen il kớan è «uno di quei rompicapi insolubili assegnati dal maestro all’allievo che secondo la scuola Rinzai dovrebbero, se affrontati con serietà assoluta, far passare dal piano della ragione, della logica ordinaria, al piano del contatto intuitivo diretto con la realtà». Cf. L. Lombardo Vallauri, Embrione e diritto, in R. Prodomo (a cura), Il futuro della bioetica…, 19.
[35] Questa è la preoccupazione di fondo anche di testi magisteriali che possono apparire in netto contrappunto rispetto alla posizione laica.
[36] R. Prodomo, Passato, presente e futuro della natura umana. A proposito di un recente volume di J. Habernas, in Filosofia e Questioni pubbliche, 2004.
[37] R. Prodomo, La bioetica tra scienza e fede: una “scienza nuova” per il XXI secolo?..., 122.
[38] O. Franceschelli, Dio e Darwin, in Natura e uomo tra evoluzione e creazione, Donzelli 2005.

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