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MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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Pre Festival di Bioetica 2024

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Video incontri e convegni dell'Istituto Italiano di Bioetica

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Le premesse bio-mediche di Auschwitz.

Biopotere ed eugenetica

Tutta la vita del nostro tempo è un’organizzazione di massacri necessari, visibili e invisibili. Chi si ribellasse in nome della vita sarebbe spiaccicato in nome della vita stessa. Giovanni Papini, La vita non è sacra, 1913

Una delle più straordinarie fratture che siano mai state registrate nella tradizione di tutto il pensiero politico occidentale è stata di certo quella realizzata dall’autore de Il Principe. L’opera di Machiavelli fa emergere un cambiamento di prospettiva letteralmente vertiginoso rispetto a quella che nei secoli precedenti aveva fatto da perno all’arte di governare gli uomini. Se, infatti, l’aristotelismo teologizzato di Tommaso, subordinando la legittimità dell’ordine politico alla sua essenziale capacità di coniugare vita buona e vita giusta, continuava sostanzialmente ad accogliere lo spirito dell’intera tradizione politica occidentale, la ratio della dottrina machiavellica si emancipa radicalmente da ogni tipo di legame tra etica e politica. Lo scopo ultimo della politica cessa di essere quello di dar luogo ad una lex humana che sia funzionale alla praticabilità del bene prescritto dalla lex naturalis, leggi entrambe concepite come l’emanazione di un medesimo ed onnicomprensivo ordine razionale di natura divina (lex divina), per diventare esclusivamente quello di mantenere il principe al suo posto. La ragione che fonda il potere politico viene collocata interamente al di qua di ogni metafisica, vede recise le radici che ancora la affondavano nel terreno della morale (di una morale peraltro a sua volta radicata nella struttura stessa del creato) e si insinua nel campo inusitato della pura strategia[1]. Di qui muoveranno concezioni politiche sempre più avulse dai gangli delle questioni etiche, tanto da poter elevare apertis verbis a principio legittimo della gestione del potere il mantenimento ed il potenziamento del potere medesimo. Alle soglie del XVI secolo Giovanni Botero nominò felicemente quel principio “ragion di Stato”[2]. E proprio sulle ragioni dello stato la filosofia politica iniziò a circoscrivere la propria teoresi. Sebbene con accentuazioni significativamente diverse, possiamo qui assumere come esponenti paradigmatici di questa traiettoria del pensiero politico Jean Bodin e Thomas Hobbes. Il primo precisa che lo «Stato è il governo giusto che si esercita con potere sovrano», aggiungendo opportunamente che la «sovranità è il vero fondamento, il cardine su cui poggia l’intera struttura dello Stato [..]; essa è il solo legame e il solo vincolo che fa di famiglie, corpi, collegi, privati, un unico corpo perfetto, ch’è appunto lo Stato»[3]. Il secondo rafforza e, per così dire, serra con più nettezza il nodo della sovranità subordinandone ogni reale possibilità di funzionare, ovvero di proteggere ciascuno dalla potenziale minaccia mortale figurata dall’altro, alla sua effettiva assolutezza, cioè escludendo il sovrano sia dalla vischiosità della relazione pattizia sia dall’indebolimento inevitabilmente prodotto da qualsivoglia eteronomia, a cominciare proprio dal diritto di natura[4]. Solo in questo modo, infatti, lo stato potrà farsi «dio mortale», cioè l’indiviso depositario delle rinunce dei diritti naturali dei sudditi e l’incondizionato garante, col suo esclusivo “diritto di spada”, e cioè di morte, del rispetto della pace e della difesa della vita. Con Hobbes, quindi, più ancora che con Bodin, il potere, per potersi esercitare, presuppone d’essere assolutamente sovrano, laddove tale sovranità, benché scaturita da coloro che ne saranno soggetti, finisce tuttavia col precederli ineluttabilmente, senza alcuna possibilità di poter essere da essi, che pure l’hanno istituita, mai più afferrata[5]. Il Leviatano si sgancia definitivamente da ogni limite, sia esso raffigurato da un più ampio ordine teologico-naturale sia esso riposto nel destino individuale del principe. In questo senso pare installarsi in un universo capace di espandersi illimitatamente. Queste argomentazioni si pongono al culmine di un percorso di pensiero che interpreta la politica, come s’è accennato, ora come sorella della morale, ora come pura strategia, ora come esercizio della sovranità la cui assolutezza diviene misura di efficacia nel garantire le prerogative dei sudditi (a cominciare dal loro diritto alla vita). Ovviamente non si tratta di passaggi segnati da cesure nette, da solchi profondissimi: le diverse prospettive di organizzazione politica, nella pratica di governo, non si escludono ma anzi spesso si intrecciano le une alle altre; ad esempio lo stato sovrano non esclude ma piuttosto include il principio per cui la legittimità del proprio potere sta nella conservazione e nell’espansione del potere medesimo. Si potrebbe anzi dire che è proprio l’esercizio della sovranità a richiedere a sua volta l’esercizio tattico della “ragion di Stato”. L’ufficio d’amministrare gli uomini si piega dalla parte della sua stessa condizione di possibilità, ovvero principia ad insistere con tensione quasi esclusiva sulla forza e sulla potenza dell’entità sovrana. Comunque a partire dal XVII secolo cominciano a prendere forma dei processi che scuoteranno dal di dentro il quadro concettuale fin qui definito dalla filosofia politica moderna. E, come è noto, è Michel Foucault il pensatore che più di tutti ha scandagliato le tracce di questo scuotimento. Inoltre, come vedremo, sarà proprio dal versante dell’analisi foucaultiana che sarà possibile far emergere la rilevanza politica via via assunta dal sapere scientifico e, in primis, dalla biologia e dalla medicina.
Kamen scrive che «all’inizio dell’età moderna la società europea era dominata dalla presenza della morte»[6]. Non che ad essa sia stato successivamente dato il benservito ma, quanto meno, si può dire che col tempo il suo cessò d’essere un dominio. Il circolo virtuoso innescatosi tra aumento della popolazione, aumento dei prezzi, aumento della produzione agricola (dapprima di tipo estensivo e poi anche di tipo intensivo) e, inoltre, aumento degli scambi commerciali, creò condizioni di vita progressivamente migliori, tanto da esporre sempre meno le donne, gli uomini e, soprattutto, i bambini alla minaccia della morte. Pur non trattandosi, ovviamente, di uno sviluppo lineare, si può tuttavia ritenere che una serie di rivoluzioni dal segno positivo: “rivoluzione agricola”, “rivoluzione demografica” e “rivoluzione industriale”, cambiò massicciamente la geografia degli assetti sociali e mutò ancora più a fondo la consistenza del paesaggio umano. E’ da questi processi che Foucault prende le mosse per far emergere le nuove tecniche del potere. «Si potrebbe forse dire che è come se il potere che aveva come modalità, come schema di organizzazione, la sovranità, si fosse trovato incapace di reggere il corpo economico e politico di una società entrata in una fase di esplosione demografica e di industrializzazione al contempo, dato che alla vecchia meccanica del potere sovrano sfuggivano troppe cose, sia dal basso che dall’alto, sia al livello del dettaglio che al livello della massa»[7]. La meccanica del potere sovrano viene dunque affiancata, pressata, rimpiazzata, anche se tuttavia mai esautorata del tutto, dalla meccanica di un nuovo tipo di potere, quello biopolitico; al potere sovrano che si fonda sul “diritto di spada”, ovvero sul «diritto di far morire», si intreccia con presa sempre più incalzante il bio-potere, che invece si fonda sul «diritto di far vivere»[8]. Ciò significa che la vita, la vita biologica, diventa il nucleo centrale dell’esercizio del potere, tanto che si realizza una vera e propria «statalizzazione del biologico»[9]. Dopo il superamento dell’orizzonte metafisico la razionalità politica giunge ad una nuova soglia di rottura, si ripiega dalle dimensioni eminentemente formali della legge per concentrarsi sulla materialità di oggetti quali il territorio e le sue risorse, la popolazione e i suoi tassi di natalità, di mortalità e di malattia: il potere politico sposta il suo baricentro dal “regno del diritto” al regno del vivente[10]. Questo dislocamento del potere dal piano della rappresentazione della vita a quello della vita stessa ha come necessaria conseguenza la subordinazione del consolidato potenziamento dell’entità sovrana dello stato al recente e tuttavia prioritario potenziamento della massa vivente che lo concreta. L’uomo si trasfigura da “soggetto” a “risorsa”[11].
La biopolitica tende a ri-assimilare ciò che alla «meccanica del potere sovrano» era via via sfuggito e, nel farlo, si estende su due diversi ambiti, quello del corpo e quello della specie. Il primo, «il livello del dettaglio», viene recuperato al potere da un insieme di tecniche centrate sul corpo individuale, e ciò essenzialmente al fine di farne un corpo “utile” e “docile”; si tratta di tutte quelle procedure disciplinari, fiorite tra XVII e XVIII secolo, attraverso le quali si tende a routinizzare la singolarità somatica, a distribuirla nello spazio e a scandirne i ritmi di vita. Si pensi ai regolamenti sempre più minuziosi e sempre più standardizzati di contesti istituzionali in larga parte inediti quali l’esercito, la scuola, gli ospedali, le caserme, le prigioni e le fabbriche. In tutti questi luoghi l’esigenza primaria è innanzitutto la «crescita parallela dell’utilità e della docilità»[12] dei corpi, ovvero la loro integrazione ai generali processi di funzionamento dei contesti entro cui sono di volta in volta collocati[13]. Foucault definisce questo investimento del potere sull’uomo-corpo, sull’uomo in quanto singola corporeità, “anatomopolitica”[14]. «Il livello della massa» viene invece afferrato per mezzo di tecniche di regolazione dirette non più alla singolarità del corpo ma alla pluralità dei processi biologici che lo attraversano: salute, malattia, longevità, fecondità. Nel corso del XIX secolo si dà così un transito dalle pratiche disciplinari iscritte sui corpi alle pratiche di regolazione iscritte sulle popolazioni e sui loro effetti di massa. Ribadendone la non antiteticità Foucault può quindi affermare che «abbiamo dunque due serie: la serie corpo – organismo – disciplina – istituzioni; e la serie popolazione – processi biologici – meccanismi regolatori – stato»[15]. Quest’ultima è esattamente ciò che definisce la “biopolitica”, la cui cifra sta, pertanto, non nell’investire su un corpo individuale, sull’“l’uomo-corpo”, ma nel focalizzare le sue tecniche di incitamento e di potenziamento sull’“uomo-specie”, cioè nel prendere in gestione la vita dell’uomo come essere naturale: la vita umana nel suo insieme al fine di ottimizzarne i processi[16]. Il fatto che il potere, specialmente a cominciare dalla seconda metà del XIX secolo, cominci a prendere in consegna la vita nella sua più nuda effettualità biologica ci aiuta notevolmente nella comprensione del ruolo privilegiato che la biologia e la medicina hanno assunto nelle pratiche di governo invalse fino alla metà del secolo scorso. Pratiche che conobbero la loro più ardita implementazione proprio laddove il potere politico assunse proporzioni totalitarie. Come a dire che quanto maggiore fu la dilatazione della sfera politica tanto più ampia fu la quantità di bíos (si badi: non semplicemente di cittadini, di soggetti, ma di esseri viventi, di esemplari della specie) ad esserne implicata. In quei regimi, sebbene (come più avanti vedremo) con connotazioni concettualmente e storicamente differenti, l’assunzione della vita dei cittadini=esseri viventi come posta in gioco del potere politico rappresentò, per un paradosso solo apparente, anche il necessario viatico per la messa a morte di milioni di donne e di uomini.
A partire dalla lezione arendtiana, forse con eccessiva verve semplificatoria, si suole raccogliere nazismo e comunismo nella onnicomprensiva categoria del Totalitarismo e considerare quest’ultimo figlio legittimo e perverso della Modernità. Il giudizio sul genocidio degli ebrei sembrerebbe così assumere dei contorni ben definiti. L’olocausto non è eccezione patologica ma tragedia che ha le sue cause prime nella razionalità stessa del processo di modernizzazione. Gigantesca azione d’ingegneria sociale e d’igiene pubblica, l’olocausto è connesso alla logica interna delle società industriali. Fu il prodotto aberrante della razionalizzazione del sistema sociale, del restringimento dello spazio privato, dell’ottundimento delle coscienze, della normalizzazione delle idee. Si nasconde sottile un rischio nell’interpretazione. Se «le vittime di Stalin e di Hitler [...] furono eliminate affinché fosse possibile fondare un mondo umano obiettivamente migliore: più efficiente, più morale, più bello. Un mondo comunista. O un mondo ariano, puro dal punto di vista razziale. In entrambi i casi, un mondo armonioso, libero da conflitti»[17], l’olocausto vale quanto gli stermini condotti per l’erigenda società d’uguali e non ci sembrerà poi tanto eccezionale. I massacri per la Nazione o la Rivoluzione rientrano nell’ordine naturale delle cose. Appartengono ad una categoria moderna che comprendiamo e che, a seconda dei casi, giustifichiamo.
Le analogie tra comunismo e nazismo, in effetti, non sono casuali. Il secondo nacque come reazione al primo ed in entrambi scorre il sangue peggiore d’una sola Modernità[18]. Tuttavia, proprio l’asse biologico seguito dalla razionalità politica moderna, dal bio-potere, ci fa sollevare il fatto che i genocidi di Hitler sono di un’altra categoria. Già, ma quale? Se interrogheremo i morti dei gulag e dei campi di sterminio ci accorgeremo che sono tutti senza eccezione d’una sola muta categoria cadaverica. E se nemmeno le quantità degli ammazzati riescono a discriminare l’olocausto dagli altri orrori, ciò significa che la differenza va cercata nei vivi che meritarono la morte semplicemente perché portatori di morte, “zombies” della razza dei morti. Si trattò d’una malattia sconosciuta ai più, ma non ignota alla medicina che di queste cose appunto se ne intende. Patologia incomprensibile se non si tiene conto che a dispetto dell’evoluzione, come applicando i criteri della vecchia biologia fissista[19], l’umanità era stata ordinata secondo gerarchia razziale. Come se l’intero genere homo fosse formato da tante specie animali stabili nel tempo. Razze tra loro così differenti e così ben isolate nella biologia, che dal malaugurato incrocio di individui di diversa genia c’era da attendersi una discendenza malata, sterile, degenerata. Quel che accadde, accadde per veterinario automatismo. Si separò la razza sana da quelle malate e la si protesse dal contagio letale semplicemente applicando l’igiene più efficace. Effettivamente é «impossibile giungere all’idea di sterminare un intero popolo senza ricorrere all’immagine della razza, [...] senza la visione di un difetto innato, assolutamente incurabile, in grado di autopropagarsi se non viene fermato. E’ altrettanto [...] impossibile, giungere ad un idea del genere senza chiamare in causa la medicina, con il suo modello di salute e di normalità, la sua strategia di separazione e le sue tecniche chirurgiche»[20]. Se la medicina ebbe un ruolo nell’inventare una specie umana dalla biologia tanto pregiata che sembrò naturale difenderla dal contagio di animali non più sani e mai più umani, allora, pare assolutamente lecito domandarsi se la prima anticipazione del genocidio non sia stata la legge per la prevenzione delle malattie ereditarie del 14 luglio 1933. Provvedimento voluto per la difesa della salute collettiva. Legge che prevedeva la sterilizzazione forzata dei degenerati con debolezza mentale, schizofrenia, psicosi maniaco-depressiva, epilessia ereditaria, alcolismo, e di ancora più eterogenee classificazioni di vite indegne di essere perpetuate[21]. Legge moralmente giustificata da evidenze scientifiche credute “vere” e che riscosse il consenso delle società scientifiche ed il plauso dei movimenti eugenetici di tutto l’occidente[22].
Considerata la pietra angolare della legislazione eugenetica e razziale del regime nazista, questa legge stabilisce un rapporto di causa ed effetto tra l’olocausto ed una disciplina che suscitò, dalla seconda metà del XIX fino alla seconda guerra mondiale, grande interesse nella comunità scientifica e ancora più grandi speranze tra la gente. Ci si riferisce, ovviamente, all’eugenetica, ovvero alla «la scienza del miglioramento della specie umana, garantendo alle razze o alle stirpi più adatte una migliore opportunità di prevalere rapidamente su quelle meno adatte»[23]. Quella legge è infatti, senza alcun dubbio, l’esito più conseguente della dottrina eugenetica che esattamente 50 anni prima veniva scientificamente teorizzata da Francis Galton, un illustrissimo cugino di Charles Darwin. L’esigenza, per il regime incondizionatamente prioritaria [24], di tutelare la stirpe germanica dalla proliferazione di esistenze difettose denuncia l’assoluta centralità che per esso assunsero le ragioni della biologia, della vita e dei suoi effetti di massa, la cui potenza occorreva ad ogni costo difendere da ogni pericolo di contagio e, di qui, di infiacchimento degenerativo. E quale difesa bisogna attrezzare quando chi ha bisogno di protezione altro non è se non la mera fitness organica, la piena salute del vivente umano? La risposta vien da sé, la difesa va pianificata innanzitutto sul piano medico. Ed è proprio su questo versante che lo statuto biopolitico del regime nazista acquista la sua propria specificità. Anche rispetto al totalitarismo sovietico.
Il biopotere, come s’è accennato, si distingue dal potere sovrano per il fatto di intervenire sulla vita per potenziarla, proteggerla, moltiplicarla. Esso non si fonda sul diritto di far morire ma su quello di far vivere. Ma se è così come spiegare la potenza mortifera, finanche genocidiaria, scatenata dal regime che più di tutti gli altri ne ha inverato la logica? Foucault scioglie questo paradosso apparentemente insanabile ricorrendo alla categoria di razzismo. Il razzismo, infatti, consente di separare tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire: «All’interno del continuum biologico della specie umana, l’apparizione delle razze, la distinzione delle razze, la gerarchia delle razze, la qualificazione di alcune razze come buone e di altre, al contrario, come inferiori, costituirà un modo per frammentare il campo del biologico che il potere ha preso in carico, diventerà una maniera per introdurre uno squilibrio tra i gruppi, gli uni rispetto agli altri, all’interno di una popolazione»[25]. Inoltre esso consentirà di stabilire una letale relazione biunivoca tra la vita dell’uno e la morte dell’altro, nel senso che attraverso la semantica razzista la morte dell’altro potrà essere assimilata alla mia stessa possibilità di vita, e viceversa: «La morte dell’altro, la morte della cattiva razza, della razza inferiore (o del degenerato, o dell’anormale), è ciò che renderà la vita in generale più sana; più sana e più pura»[26]. Con la «statalizzazione del biologico» la funzione omicida dello stato non può che fare appello alla biologia, e cioè a nozioni per l'appunto biologiche (o presuntivamente tali) come quelle di razza, di ghenos, di stirpe. Secondo Foucault anche il socialismo sovietico si è organizzato intorno alla gestione della vita, e di conseguenza anch’esso non ha potuto che fare appello al razzismo per esercitare il diritto di uccidere; si tratterà di un razzismo non propriamente etnico, ma di un razzismo di tipo evoluzionista, biologico, come quello fatto valere, ad esempio, nei riguardi dei malati mentali e dei criminali. In particolare, il ricorso al razzismo si è reso necessario ogniqualvolta il socialismo ha insistito non sulla trasformazione delle condizioni economiche ma sulla necessità dell’affrontamento, dello scontro e dell’eliminazione fisica dell’avversario[27]. Qui, tuttavia, il discorso di Foucault si indebolisce. Infatti, estendendo sic et simpliciter la semantica biopolitica anche al comunismo, egli rischia di dilatarne in modo eccessivo l’effettivo quadro epistemologico, attivando il pericolo di lasciare in secondo piano la rilevanza storicamente inedita, eccezionalmente essenziale e, diremmo, totalizzante, che la sfera bio-medica gioca all’interno di quella che molto opportunamente Robert Lifton ha definito la «biocrazia nazista»[28]. Del resto Rudolph Hess non lasciò alcun margine di interpretazione quando affermò che «il nazismo non è altro che biologia applicata»[29]. Ci sembra allora fondamentale sottolineare come «Mentre il trascendentale del comunismo è la storia, il soggetto è la classe e il lessico è l’economia, il trascendentale del nazismo è la vita, il soggetto è la razza e il lessico è la biologia»[30]. Se la specificità esclusiva del regime hitleriano si è definita intorno ai saperi medico-biologici, allora vale di certo la pena, in tempi di tumultuoso rinnovo delle conoscenze, di ambigui progressi delle biotecnologie e di rinnovate promesse di salvezza da parte della genetica, di domandarsi come esse abbiano potuto trasfigurarsi da scienze di vita in “scienze di morte”[31].
Dei progressi, delle vittorie e dei trionfi della medicina scientifica sono piene le storie, le scatole e le nostre tasche. Si celebrano le scoperte di Pasteur, Koch e Vircow, ma poco o nulla si sa dell’eugenetica. Disciplina che una certa letteratura non senza buoni motivi ha relegato in blocco tra le mostruosità, ma che la storia della medicina ha allontanato da sé come se non le appartenesse[32]. Atteggiamento ipocrita, giustificato dal fatto che il coinvolgimento della medicina ai crimini razziali suscita disagio tra scienziati che si proclamano protettori di qualunque vita. Disagio che si muta in vergogna quando si considera che nel periodo nazista «molte delle più brutali iniziative sanitarie vennero dai medici [...], che i medici non sono mai stati costretti a collaborare con il regime, che i dottori non sono stati pedine ma pionieri quando si giunse alle politiche naziste di sterminio razziale»[33]. Vergogna che sfocia nella più totale confusione quando si apprende che per la difesa della salute pubblica i medici e scienziati nazisti erano impegnati in attività sanitarie socialmente responsabili, meritorie, ineccepibili. Cosa dobbiamo pensare di medici e di scienziati che con pari sistematico ardore si preoccupavano di proteggere e distruggere vite umane? Che cosa dobbiamo pensare degli interventi sanitari a favore della maternità e dell’infanzia, di quelli a protezione della salute dei lavoratori e «della campagna nazista contro il tabacco o delle iniziative di sanità pubblica promosse per controllare il cancro? Come dobbiamo interpretare gli sforzi per diminuire l’esposizione all’asbesto o ai raggi X e al radio, o la campagna per garantire la qualità degli alimenti e la correttezza dell’informazione pubblicitaria? I nazisti fecero un buon lavoro? E questo buon lavoro era in parte motivato dagli ideali nazisti?»[34]. Il fatto che il Terzo Reich, grazie ai propri apparati totalitari, si rivelasse pioniere in quelle misure salutistiche e ecologiche che sono oggi al centro delle politiche sanitarie nei paesi occidentali dovrebbe far cambiare il nostro giudizio sul totalitarismo o, addirittura, quello sulla prevenzione sanitaria?
Il fatto poi che eugenetica sia nata e fiorita in Inghilterra nella seconda metà del XIX secolo, ben prima dell’avvento del nazismo in Germania, e che i medici di Hitler abbiano portato alle estreme conseguenze e messo in esecuzione ciò che le società eugenetiche d’Inghilterra, USA, Francia, Italia, Svezia, Finlandia, Norvegia, Danimarca, Russia, Belgio, Olanda, Ungheria, Portogallo, Cecoslovacchia.... auspicavano da più di mezzo secolo[35], attenua la colpa? Modifica la condanna? La condanna non può cambiare ma la conclusione di queste poco allegre osservazioni, è, per la medicina, di quelle da nascondere a tutti i costi. A conti fatti, ci si può chiedere se milioni di esseri umani non devono la soppressione delle loro vite anche ad un “errore” della buona scienza. Ecco il punto. Forse non si trattò semplicemente di un errore, ma del naturale esito di certe premesse. Premesse in virtù delle quali tra attitudine terapeutica e impulso mortifero svanirà ogni contraddizione. Premesse che consentiranno a Bíos e Thanatos di stringersi le mani.
La rivoluzione darwiniana, come si sa, determinò una ricollocazione dell’uomo dal culmine della natura al suo interno. L’origine casuale e per di più animalesca della specie umana sfrattò progressivamente, sebbene a volte con molta fatica, la nozione di trascendenza dalle speculazioni sull’uomo[36]. Di qui si inaugurarono nuove prospettive e nuove metodologie di studio del vivente uomo, tese ad introiettare nella suo piano d’immanenza naturale anche l’analisi della sua sfera sociale e comportamentale. Galton fu indubbiamente colui che, tra tutti, sembrò trarre le conclusioni più conseguenti dalla teoria del cugino[37]. Tra l’altro la teoria darwiniana fu anche la trasposizione per creativa analogia delle pratiche dell’allevatore alla natura[38]. Nelle specie animali allo stato brado ed in cattività Darwin osservò che caratteristiche comuni, specie specifiche, presentavano negli individui ampie variazioni di grado. Indotta l’esistenza nelle specie di una spontanea variabilità individuale, notò che l’eliminazione selettiva degli individui “peggiori”, congiunta con la riproduzione dei “migliori”, come finalisticamente orientata dall’allevatore, sortiva l’ effetto di tramandare la caratteristica desiderata nel grado più vantaggioso per l’uomo. Qualcosa di analogo accadeva in natura. Il successo riproduttivo di certi esemplari e non di altri trasmetteva alla discendenza le caratteristiche della specie nel grado che garantiva il miglior adattamento degli individui all’ambiente, dunque la sopravvivenza della vita della specie. «Nella natura addomesticata Darwin vede immediatamente e prima di tutto il risultato della selezione e siccome la natura addomesticata non ha per questo cessato di essere naturale, ecco che la selezione appare immediatamente una capacità della natura. Come la variazione prova la variabilità, così la selezione è prova della selezionabilità [...], la variazione vantaggiosa allo stato domestico induce l’ipotesi di una variabilità vantaggiosa allo stato naturale»[39]. Le analogie, creative nella mente di Darwin, si piegarono a più superficiali interpretazioni. I soggetti: “allevatore” e “natura”, oggetti senza nulla in comune, vennero considerati equivalenti. Se da un lato si concessero all’allevatore le buone intenzioni della natura, dall’altro si attribuirono alla natura i semplici metodi dell’allevatore. Così stabilite le equivalenze sembrò del tutto naturale allevare gli uomini come animali. Sintesi mirabile della conseguenzialità di questi passaggi, come si trattasse di mera biologia deduttiva, Galton, preoccupato del vigore della nostra specie, retoricamente domanda: «Perché, allora, non estirpare le caratteristiche indesiderabili e promuovere quelle desiderabili?»[40].
Occorre tener presente che la prospettiva di far passare l’elevazione dell’uomo per il setaccio della sua costituzione fisiologica, risolvendo per questa via l’educazione nell’allevamento, fu avanzata da Galton dopo che questi ebbe compiutamente sistematizzato ed adattato alla nuova teoria darwiniana il vecchio dogma che la Ragione ereditò dalla medicina dell’età dei lumi: la continuità dei «rapporti tra il fisico e il morale dell’uomo»[41]. Con la pubblicazione, nel 1869, di Hereditary Genius lo scienziato vittoriano crede e, cosa ancora più notevole, induce a credere quote estremamente significative dell’intellighenzia dell’epoca, che l’ereditarietà delle facoltà mentali e morali dell’uomo sia un dato scientificamente acquisito[42]. Ciò permise di assumere la questione della “buona riproduzione” come una immediata questione socio-politica. Se l’eugenetica garantisce la trasmissione dei caratteri desiderabili, e se questi caratteri non sono solo quelli fisici ma anche quelli morali e mentali, allora l’eugenetica diventa a tutta ragione un privilegiato strumento di azione politica. Seguendo lo stesso filo logico si può anche dire che tra uno strumento sanitario, quale quello che si oppone alla proliferazione dei “peggiori” e si attiva per la prolificazione dei “migliori”, e lo strumento politico, quale quello di gestire il potere per garantire una buona organizzazione sociale, non si produce più alcuno scarto. Così paiono utili le parole di Shaw quando, riflettendo su quella che si potrebbe definire una pervasiva mentalità, afferma che «L’evoluzionista considera pacifica l’ereditarietà. Come tutto la mente umana è stata intrisa d’ereditarietà fino da quando possiamo inseguirne il pensiero. [...] I darwinisti avevano su questo argomento una credulità addirittura insensata; non solo credevano nella trasmissione delle qualità e delle abitudini da generazione in generazione, ma sostenevano che il figlio cominciasse mentalmente al punto in cui s’era interrotto il padre. Questa fede nell’ereditarietà condusse naturalmente alla pratica della selezione intenzionale. Buon sangue e buona razza furono ansiosamente ricercati»[43].
L’avverbio “ansiosamente” non è qui usato da G.B. Shaw a fini retorici. Uno spettro s’aggirava per l’Europa lo spettro terrificante della degenerazione. L’origine di questa edizione aggiornata e corretta della mitologia della caduta è oscura quanto quella degli antichi miti degenerazionisti, ma si direbbe che la dottrina dell’ evoluzione naturale vi abbia messo del suo. Significative in tal senso sono le posizioni di Darwin su razza ed eugenetica. Uomo privo di pregiudizi di razza e di classe, Darwin è il conservatore che condanna le violenze del colonialismo inglese e considera la schiavitù un crimine insopportabile, ma è soprattutto lo scienziato che dà le prove dell’infondatezza del concetto di razza nell’ambito della biologia evoluzionista. Il primo motivo per cui le “cosiddette “ razze umane non possono esistere è nel fatto le specie non hanno caratteri fissi nel tempo, ma evolvono l’una nell’altra. Tutte le cosiddette razze umane discendono da un singolo ceppo primitivo, dimostra perentorio Darwin, e l’intera umanità forma una sola specie[44].
Darwin tuttavia non respinse l’ipotesi della degenerazione e si dichiarò favorevole ad un morbida politica eugenetica: «Nei selvaggi le debolezze del corpo e della mente sono subito eliminate. [...] Noi uomini civilizzati facciamo di tutto per arrestare il processo di eliminazione. L’aiuto che ci sentiamo costretti a dare» ai poveri, ai pazzi, agli storpi, ai malati è però nostro dovere. E’ obbligo al quale ci costringe il nostro senso morale. «Se dovessimo intenzionalmente trascurare i deboli e gli incapaci ciò non sarebbe senza un opprimente senso di colpa, senza un deterioramento della parte più nobile della nostra natura. [...] Dobbiamo quindi sopportare l’effetto, indubbiamente cattivo, del fatto che i deboli sopravvivano e propaghino il loro genere, ma si dovrebbe almeno arrestarne l’azione costante, impedendo ai membri più deboli ed inferiori di sposarsi liberamente come i sani»[45].
L’ipotesi terrificante di un homo sapiens che nel batter d’occhio di una o due generazioni rinculasse per tutto il tempo e lo spazio che aveva faticosamente percorso per evolversi dal pitecantropo originario era veri-ficata dal carattere insensato, afinalistico, dell’evoluzionismo darwiniano. L’uomo che era il fiore, il senso ed fine della divina creazione, si ritrovava adesso sminuito a prodotto casuale dei giochi della selezione. Se per caso e necessità il genere homo era stato generato da un qualche progenitore scimmiesco, per gli stessi motivi poteva degenerare nel progenitore. C’è da domandarsi a questo punto come sia potuto accadere che la positiva e solida Ragione abbia fatto sua siffatta credenza. Il mito della degenerazione sorse nei decenni che sono stati abusivamente battezzati della Belle Epoque, quando un intero mondo «che per certi aspetti conosce allora il suo apogeo, si disfa, si decompone, lasciando ricomparire l’angoscia e la morte. [...] Intorno al 1900 le borghesie occidentali hanno sentito il fiato della morte, e il male di vivere degli individui si associa all’immagine delle decadenza, della morte collettiva fantasticata in termini di Apocalisse»[46]. Furono gli anni del decollo delle teorie degenerazioniste, interpretabili a più livelli: «come un discorso tecnico-antropologico, biologico, medico-psichiatrico, come teoria filosofica e culturale al punto d’incrocio di svariate discipline o ancora quale prodotto ideologico, che produce strategie e campi di potere, come interpretazione scientifica e razionalizzante di difficoltà e disagi sociali. Questa sindrome europea [...] raggiunge nel secolo dell’evoluzione e del progresso la massima consistenza e diffusione, crea un nuovo linguaggio legato alle scienze naturali, alla psichiatria, e attraverso le teorie biologiche del declino influisce fortemente sul dibattito sociale e politico dell’epoca. [...] Nella favola e nel mito delle magnifiche sorti e progressive si apre la breccia oscura e terrificante della sterilità, dell’estinzione, della regressione, del degrado della civiltà»[47].
Nell’epoca delle esposizioni universali, della spartizione imperialistica del mondo, e del capitalismo trionfante, questa “sindrome europea” rivela il male esistenziale degli individui alle prese con l’ingombrante cadavere del vecchio Dio da seppellire e con il dissolvimento dell’universo dei valori che potremmo definire vittoriani[48]. La degenerazione espresse le contraddizioni del progresso, le paure delle èlites borghesi che si sentirono minacciate nella loro identità politica, economica e culturale, da un lato dal ritorno della vecchia aristocrazia e dall’altro dallo spettro che Marx disse aggirarsi per l’Europa. Minaccia dunque globale all’ordine della borghesia, come instaurato dalla borghesia. «Davvero», avrebbe detto Epicuro, «sarebbe stato meglio per gli uomini credere ai miti sugli dei che essere schiavi dell’ereditarietà dei medici: il mito offre la speranza di placare gli dei con onori, l’ereditarietà dei medici ha invece una necessità implacabile, di gran lunga più crudele del fato dei fisici».
Il darwinismo conquista l’ambiente medico che rilegge lo striminzito dossier sull’ereditarietà in chiave sociobiologica, in senso degenerazionista. «Gli scienziati si dedicano allo studio delle cause da cui si origina il processo morboso; presto risulta loro evidente la responsabilità popolare. La miseria, l’insalubrità delle condizioni di vita, la mancanza d’igiene, l’immoralità, l’intossicazione, scatenano, portano alla luce o accelerano il processo ereditario. Dalla strada, dall’officina, dal sesto piano incalza, secondo quei medici, il pericolo che attenta al patrimonio genetico delle elitès. La paura di essere contaminati dall’ammassarsi del popolo si è tramutato in timore di una degenerazione che, tenuto conto del primato della neurologia, si modella secondo le forme della patologia nervosa»[49]. La nozione di famiglia patologica e la sua opposizione alla famiglia fisiologica «segna a tal punto l’epoca da meritare che ci si soffermi sull’argomento. Da questo punto si dipartono i fili che collegano lo scienziato, l’ideologo e l’artista. [...] Nella seconda metà dell’ottocento la mitologia dell’ereditarietà risolve la paura dei grandi flagelli sociali: tubercolosi, alcolismo, sifilide»[50]. La medicina esorcizza nella veste della prevenibile malattia ereditaria mali come la povertà, la disoccupazione, l’emarginazione, la criminalità, l’alcolismo, il suicidio, la prostituzione. Morbi pericolosissimi che determinano le isterie rivoluzionarie che a loro volta determinano la rivoluzione che minaccia il patrimonio economico della famiglia fisiologica esattamente come le tare ereditarie ed il sangue avariato determinano la degenerazione del capitale spermatico. «Il vecchio mito teratologico, derivato dalla Genesi, proponeva l’immagine di un tipo perfetto d’umanità esposta a causa del peccato originale, al rischio di progressiva degradazione». Nel 1857, il dottor Morel «resuscita tale teoria». L’uomo si allontana dalla propria natura originaria e degenera. Una deriva che lo allontana dalla legge morale e lo asservisce al dominio dei desideri fisici, abbassandolo al rango della scimmia[51]. La dottrina terrorizza i migliori, conquista gli eletti che temono di perdere la propria identità in un meticciato destinato ad annientare la classe e la razza a cui appartengono. I grandi progressi della microbiologia non convinsero chi non volle farsi convincere ed il concetto delle eziologie microbiche si scontrò vivacemente ma inutilmente con l’ereditarietà sociobiologica. Sconoscendo Mendel, i medici ignoravano la distinzione che noi facciamo tra malattie ereditarie su base genetica e quelle che si acquisiscono durante la vita fetale come l’eredolue od il cretinismo congenito, e consigliarono incroci volti a mantenere buona la razza e buono il sangue. Prescrizioni gradite alla borghesia che nella migliore procreazione vide il mezzo scientifico per tramandare sano il capitale. «La degenerazione implicò al contempo uno scenario di declino razziale, e una spiegazione dell’ Altro, in tal modo proteggendo l’identità dello scienziato, dell’uomo bianco e della borghesia. […] Nell’opera di scienziati, medici, antropologi, l’oggetto di investigazione da un lato evoca una potenziale contaminazione della purezza, e dall’altro viene circoscritto alle sole classi, razze e sessi pericolose. Il lettore viene minacciato da un mondo di entropia o da una futura dissoluzione dell’ordine costituito, a nel contempo tale ordine continua ad essergli garantito: il degenerato infatti ha una fisionomia ben precisa»[52]. L’ereditarietà mostruosa sfocia nella costruzione di una fisiognomica ideale da applicarsi in tutti i casi di dichiarata teratologia sociale e razziale. Costruito il modello, su questo s’edifica un museo dell’orrore destinato a chiudere in recinti sempre più capaci sempre più personae Persone tutte diverse e tutte uguali nella fisionomia fisica e morale: individui, etnie, razze uniformemente orribili nella facies, deformi nel corpo, sbilenchi nell’anima, deboli nella mente, corrotti nel sangue, morti nel seme. Tutti questi degenerati altro non erano se non uno “scarto dell’evoluzione” e per questo, se davvero si voleva evolvere, impelleva limitarne la propagazione[53]. Le terapie a tal proposito consigliate furono dappertutto le stesse: internare, sterilizzare, eliminare. Sequenza logica tragicamente nota. E il progressivo declino del tasso di natalità, come ad esempio si registrò nell’Inghilterra Imperiale agli inizi del secolo, associato oltretutto al tasso differenziale che lo contrassegnava, cioè al fatto che, nel generale declino, erano proprio le classi più povere ed emarginate, il “residuum”, a fare eccezione, diede vita ad ulteriori elementi di ansia e, a volte, di vera e propria isteria[54]. Si consideri solo che il Lancet nel 1906, a proposito della diminuzione del tasso di natalità, avvertiva che essa si presentava come «una calamità nazionale che minaccia seriamente il futuro benessere della nostra razza»[55]. Dunque occorreva prendere iniziative.
Bauman ha osservato che sono due i caratteri che hanno segnato più di altri lo spirito moderno: «l’impulso a trascendere e andare oltre i limiti – cioè, l’impulso a trasformare le realtà oggettive – e l’impegno costante a perfezionare le capacità/possibilità di azione – cioè le capacità/possibilità di modificare le situazioni»[56]. Ciò significa che nel cuore della modernità è iscritta la vocazione a manipolare e trasformare l’oggettività del mondo al fine di superare, in uno sforzo di liberazione permanente, gli ostacoli che esso ci pone. L’unico limite alle capacità trasformative potrà essere solo quello di fatto, cioè quello dettato dalla attuale disponibilità di mezzi per metterle in atto. Sintomatiche di questo spirito sono le parole di Burgh quando, alle soglie dell’800, affermava «Non è forse evidente che con l’amministrazione e il governo la specie umana può essere foggiata in qualsiasi forma concepibile?»[57]. Il suaccennato intrecciarsi tra le pratiche di potere e l’elemento propriamente biologico, intreccio che sull’onda del socialdarwinismo divenne a dir poco gordiano, svestono queste parole di ogni retorica, di ogni carica metaforizzante, per conferire loro un senso di lucida profezia. La cornice tratteggiata dalla rivoluzione concettuale sorta con la scoperta di essere nient’altro che esseri viventi, nient’altro che «pezzi di fisiologia relativamente passivi»[58], ha rappresentato lo snodo cruciale a partire da cui si pensò non solo lecito ma addirittura ragionevole, auspicabile, volgere le capacità trasformative e manipolative sulla realtà umana in quanto tale; e ciò, sia chiaro, sempre per il nobilissimo scopo di perfezionarla. L’uomo animalizzato che, tuttavia, proprio nell’animalizzazione pare aver scoperto tutto se stesso[59], non può, infatti, che trovare ragionevole fare della società umana niente di più, ma anche niente di meno, di un’allevata. Il Nobel per la Medicina Alexis Carrel sintetizza ottimamente una siffatta prospettiva nella sua opera del 1935: «L’eugenica è indispensabile alla perpetrazione di una classe scelta. E’ chiaro che una razza deve riprodurre i suoi elementi migliori. [...] Per quanto non si possa regolare la riproduzione umana come quella animale, [...] forse diventerà possibile impedire la propagazione dei pazzi e dei deboli mentali. Forse sarà anche necessario imporre ai candidati al matrimonio un esame medico, come si fa per i giovani soldati. [...] La brutalità materiale della nostra civiltà non solo si oppone allo sviluppo dell’intelligenza, ma abbatte coloro che amano la bellezza, [...] coloro la cui raffinatezza spirituale mal sopporta la volgarità dell’esistenza moderna. [...] Agli individui di questo genere bisognerà dare l’ambiente adatto[...]. Rimane poi il problema insoluto dell’immensa folla dei deficienti e dei criminali, che pesano interamente sulla popolazione sana: le spese per le prigioni e per i manicomi, per la protezione del pubblico dai banditi e dai pazzi sono diventate gigantesche. Le nazioni civili stanno compiendo sforzi per la conservazione di esseri inutili e nocivi, e così gli anormali impediscono il progresso dei normali. [...] Potremo far scomparire la pazzia e la delinquenza solo con una migliore conoscenza dell’uomo, coll’eugenia.»[60].
E’ difficilmente sottovalutabile il ruolo giocato dalla biologia e dalla medicina allorché nel generale processo di civilizzazione inaugurato dalla modernità il saper fare è giunto a precedere il perché fare, cioè quando il processo di liberazione dai limiti si è visto sganciato da ogni scopo tranne quello di continuare a potenziare gli stessi mezzi di liberazione e, d’altro canto, quando questi stessi mezzi hanno cominciato ad essere esercitati su quel mero “piano d’immanenza naturale” nominato specie. Sotto questo angolo visuale tutto ciò che nella specie umana è inquadrabile come un limite al suo perfezionamento va necessariamente rimosso. E la ragione profonda di ciò sta nel fatto che ogni limite alle capacità trasformative e autotrasformative dell’uomo vengono sempre più percepite come delle intollerabili forme di limitazione della libertà. Qui entra in gioco quella nozione di libertà partorita dalla concezione idealistica e che, come ha osservato Levinas, vedrà il suo apogeo proprio ad Auschwitz[61]. Secondo questa nozione la libertà, per realizzarsi come tale, non ha che da separarsi da ogni peso, innanzitutto da quello della responsabilità, per potersi vedere progressivamente incrementate le proprie prerogative. L’uomo allora è libero nella misura in cui può esercitare tutte le prerogative consentitegli dal quantum di forza che lo sostiene. Questa libertà rimanda, dunque, ad una concezione dell’essere come permanente teatro di guerra, ad una «ontologia della guerra», dove vige l’unica legge dell’affrontamento tra tutti i quanta di forza dispiegati; questa è una concezione dell’essere «intimamente legata a una metafisica che fa dell’uomo un soggetto e dell’essere un oggetto, un oggetto del pensiero, suscettibile di trasformarsi, senza problemi, in qualcosa di creato dal pensiero, di modo che il mondo può assumere la configurazione di materiale del lavoro e l’uomo l’identità di homo faber, o di animal laborans»[62]. La realtà diventa puro oggetto da trasformare incessantemente; di più: condizione stessa di possibilità del reale è il suo farsi oggetto del dispiegarsi delle volontà. In tal senso si può asserire che la realtà risulta essere pienamente “volontarizzata”. Ed è appunto «la volontarizzazione della realtà la premessa teorica su cui poggia l’esperimento totalitario. E’questa volontarizzazione che delimita l’essere come un campo nel quale tutte le volontà o le forze si scontrano»[63].
Ora, quando il darwinismo, al di là dello stesso Darwin, permise di leggere nell’umano nient’altro che una realtà naturale, essa, cioè la realtà “uomo-specie”, divenne oggetto primario della volontarizzazione, ovvero dell’incessante ingegnerizzazione di tutto ciò che è dato (si legga: l’insieme dei dati biologici di una popolazione) al fine di trascenderne i limiti. E per un pensiero interamente biologizzato[64] e altrettanto interamente ordinato all’imperativo di assicurare ed incrementare la propria potenza, quali limiti potranno mai essere più abominevoli se non quelli rappresentati dai deboli, dai malati, dai poveri e da ogni altra risma di degenerati? Ed effettivamente furono proprio costoro, i testimoni dell’umana fragilità, a configurarsi all’occhio dei numerosissimi medici entusiasmati dalle teorie eugenetiche come dei meri ostacoli per la realizzazione di una società senza macchia, in prospettiva perfetta. Si badi, essi non erano più soggetti agenti ma oggetti da sottoporre a fini più elevati. Se l’esplosione tanatologica di tali premesse si ebbe solo in Germania, va ribadito che i suoi vessilli si estesero per tutto l’occidente. Ad esempio a proposito dell’eugenetica americana André Pichot giustamente sostiene che la sua «essenza» stette nella volontà di «istituire un ordine sociale libero da tutti gli ostacoli»[65]. Noi aggiungiamo che questo scopo essa lo ebbe in solido con tutti gli altri coevi progetti di ingegneria socio-biologica. E di autentica ingegneria si trattò. Infatti i progetti di colonizzazione, sterilizzazione e di eliminazione delle esistenze disgeniche non erano affatto concepiti come delle imprese distruttive, demolitorie, ma anzi erano concepiti come degli sforzi costruttivi all’ennesimo grado. «Unwertes Leben, vite senza valore per una società che lotta per l’autoperfezionamento e l’autorealizzazione. La loro eliminazione diventava una esperienza di riscatto e liberazione: non era un gesto distruttivo ma costruttivo, un servizio reso alla santa causa della salute e del benessere della nazione»[66]
La sterilizzazione e la soppressione del “degenerato” è, così, una mera misura terapeutica a tutela del “sano”. La morte dell’altro diventa il necessario viatico della mia rigenerazione.
Forse questo può aiutare a comprendere meglio l’infernale logica della produzione seriale di cadaveri della macchina nazista. La Germania che esce disastrata della grande guerra è un corpo amputato nei territori, un organismo affamato dal trattato di pace e dalla crisi del 1929, un vivente minacciato di estinzione da una rivoluzione comunista che si immaginava incombente. In questo contesto eccezionale il mercante di Venezia, il vecchio Shylock, rappresentò tutti i mali che minacciavano d’estinzione il corpo della nazione. E’ inguaribile ed è ereditaria la malattia di sangue che il già cattivo e brutto ebreo errante trasmette per via sessuale ai sani, belli e buoni individui di razza ariana. La malattia si chiama degenerazione ed i microbi che la trasmettono sono definiti: ebrei. I sintomi con cui si manifesta sono quelli ben noti dalla degenerazione e sono già presenti e riscontrabili nel sangue, negli individui, nel popolo, nell’economia, nella società e nella cultura tedesca. Dopo un’atroce agonia la morte sopravviene con l’estinzione del corpo nazionale. La malattia è costantemente a prognosi infausta se lasciata a se stessa. La guarigione è possibile. La terapia ha un solo nome: soluzione finale[67]. Rappresentato come degenerato, Shylock poté rappresentare il deviante degenerato. Figurato dai medici come una cellula cancerosa da eliminare poté figurare il criminale, il dissidente, il rivoluzionario da eliminare. Nel teatro del mondo Shylock sali sul palcoscenico nella parte antica del pharmacòs che deve morire per l’illusione di vita di chi lo manda a morire; perché morissero nella sua figura biologica, simbolicamente, tutte le personae che gli toccò di personi-ficare. Morì Shylock perché venisse uccisa in persona la Morte in figura.

[1] A tal riguardo Giacomo Marramao molto efficacemente osserva che in Machiavelli «la politica è strategia, non gerarchia di fini». G. MARRAMAO, Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo, Roma, 1983, p. 13.
[2] G. BOTERO, Della Ragion di Stato, 1589.
[3] J. BODIN, I Sei Libri della Repubblica, Libro I, 8, in Antologia di scritti politici, a cura di V. I. Comparato, Bologna, 1981, p. 142.
[4] Ed è proprio il completo distacco da qualsiasi richiamo al diritto di natura a costituire la maggiore radicalità, se così la si può qualificare, della sovranità hobbesiana rispetto a quella teorizzata da Bodin. Per quest’ultimo, infatti, la sovranità incontra come sue uniche, ma comunque insuperabili, limitazioni le finalità iussive del diritto naturale, tant’è che sul rispetto o meno di quelle egli distingue tra “monarchia regia” e “monarchia dispotica”: «Monarca regio è colui che si comporta nei confronti della legge di natura con la stessa obbedienza che esige dai sudditi nei propri riguardi, lasciando a ciascuno la libertà personale datagli da natura e la proprietà di ciò che gli appartiene. Queste ultime parole devono dare la misura della differenza che passa tra un monarca regio e un monarca dispotico». J. BODIN, op. cit., p. 161. Hobbes, invece, ritiene che intanto i sudditi possano rivendicare dei diritti di libertà e di proprietà solo in quanto questi diritti siano garantiti dal potere sovrano, che, proprio al fine di poterli garantire, non può che esercitare su di essi la sua piena sovranità. Cfr. T. HOBBES, Leviatano, a cura di G. Micheli, Firenze, 1976, pp. 315-320.
[5] Cfr. G. DUSO, La logica del potere, Roma-Bari, 1999, pp. 55-85.
[6] H. KAMEN, L’Europa dal 1500 al 1700, Roma-Bari, 1987, p. 21.
[7] M. FOUCAULT, Bio-potere e totalitarismo, in S. FORTI, La filosofia di fronte all’estremo, Torino, 2004, p. 89.
[8] «Credo che una delle più massicce trasformazioni del diritto politico nel XIX secolo sia consistita, se non esattamente nel sostituire, almeno nel completare il vecchio diritto di sovranità – far morire o lasciar vivere – con un altro diritto. Questo nuovo diritto non cancellerà il primo, ma lo penetrerà, lo attraverserà, lo modificherà. Tale diritto, o piuttosto tale potere, sarà esattamente il contrario di quello precedente: sarà il potere di “far” vivere e di “lasciar” morire. Insomma: se il vecchio diritto di sovranità consisteva nel diritto di far morire o di lasciar vivere, il nuovo diritto che viene instaurandosi sarà quello di far vivere e di lasciar morire». Ibid., p. 79. Su questo si veda anche M. FOUCAULT, La volontà di sapere (1976), tr. it. di P. Pasquino e G. Procacci, Milano, 2003, pp. 119 -122.
[9] Ibid., p. 77.
[10] Secondo Foucault nell’indagare le procedure del potere degli ultimi tre secoli occorre liberarsi del «privilegio teorico del diritto», cioè bisogna uscire dalla gabbia costituita dalla rappresentazione giuridica del potere per riuscire ad afferrarne «il gioco concreto e storico dei suoi modi di funzionamento». Il discorso giuridico è «assolutamente eterogeneo ai nuovi procedimenti di potere che funzionano sulla base della tecnica e non del diritto, della normalizzazione e non della legge, del controllo e non della punizione e che si esercitano a livelli ed in forme che vanno al di là dello stato e dei suoi apparati». Cfr. M. FOUCAULT, La volontà di sapere, cit., pp. 79-80. E’ bene ribadire che il criterio giuridico della sovranità e dei diritti non viene esautorato dal criterio biopolitico della vita e dei processi biologici; essi sono in larga misura coestensivi. Cfr. P. PRIMI, Il nodo letale. Note su bio-potere e sovranità, in P. AMATO (a cura di), La biopolitica. Il potere sulla vita e la costituzione della soggettività, Milano, 2004, pp. 44-48.
[11] Cfr. H. L. DREYFUS e P. RABINOW, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente (1982), tr. it. di D. Benati, M. Bertani e I. Levrini, Firenze, 1989, pp. 164-165.
[12] M. FOUCAULT, La volontà di sapere, cit., p. 123.
[13] La tematica del potere disciplinare viene affrontata da Foucault in diverse opere; tuttavia per una sua analisi dettagliata si veda M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), a cura di A. Tarchetti, Torino, 1976.
[14] Cfr. M. FOUCAULT, La volontà di sapere, cit., p. 123.
[15] ID., Bio-potere e totalitarismo, cit., p. 90.
[16] Cfr. Ibid. pp. 81-90; ID., La volontà di sapere, pp. 123-124.
[17] Z. BAUMAN, Modernità e olocausto (1989), tr. it. di M. Baldini, Bologna, 1992, p. 136.
[18] Cfr. E. NOLTE, Nazional-socialismo e Bolscevismo, Milano, 1999.
[19] Cfr. P. DURIS e G. GOHAU, Storia della biologia, Torino, 1999.
[20] Z. BAUMAN, op. cit., p. 109.
[21] Per una completa disamina del testo di questa legge, come pure delle altre “vergognose” leggi di matrice nazista e fascista, si veda V. DI PORTO, Le leggi della vergogna, Firenze, 2000.
[22] Cfr. S. KUHL, The Nazi Connection. Eugenics, American, Racism and German National Socialism, New York – Oxford, 1994, pp. 44-48; A. PICHOT, La Société pure. De Darwin à Hitler, Paris, 2000, pp. 240-242.
[23] F. GALTON, Inquiries into Human Faculty and its Development (1883), McMillan & Co., London, 1892, p. 17.
[24] Cfr. H. FRIEDLANDER, Le origini del genocidio nazista (1995), tr. it. di M. Marraffa, Roma, 1997.
[25] M. FOUCAULT, Bio-potere e totalitarismo, cit. p. 97.
[26] Ibid.
[27] Cfr. Ibid., pp. 104-105.
[28] R. J. LIFTON, I medici nazisti. La psicologia del genocidio (1986), tr. it. di L. Sosio, Milano, 2002, p. 33
[29] Cfr. Ibid., p. 51.
[30] R. ESPOSITO, Bios. Biopolitica e filosofia, Torino, 2004, p. 117.
[31] Cfr. B. MULLER-HILL, Scienza di morte. L’eliminazione degli Ebrei, degli Zigani e dei malati di mente 1933-1945 (1984), a cura di I. Barrai, Pisa, 1989.
[32] Sulla rimozione dell’eugenetica dall’ambito della storiografia medica e, in generale, scientifica cfr. J. BECKWITT, A Historical view of social responsibility in genetics, in «Bioscience», vol. 43 n. 5, 1993, pp. 327-333; S. KUHL, op. cit., pp. 105-107; A. PICHOT, op. cit., pp. 282-304.
[33] R. N. PROCTOR, La Guerra di Hitler al Cancro (1999), tr. it. di M. Botto, Milano, 2000, pp. 11-12.
[34] Ibid.
[35] Cfr. M. B., ADAMS, The Wellborn science. Eugenics in Germany, France, Brazil, and Russia, New York-Oxford, 1990.
[36] Cfr. S. J. GOULD, Il pollice del panda. Riflessioni sulla storia naturale (1980), tr. it. di S. Cabib, Roma, 1992, p. 128.
[37] Sui rapporti, tutt’altro che convergenti, tra Darwin e Galton, così come tra il darwinismo e l’eugenetica cfr. P. TORT, Darwin e il darwinismo (1997), a cura di G. Chiesura, Roma, 1998, pp. 71-84; Per una contestualizzazione del rapporto tra le due prospettive nel più specifico ambito della formulazione galtoniana della teoria eugenetica cfr. C. FUSCHETTO, Fabbricare l’uomo. L’eugenetica tra biologia e ideologia, Roma, 2004, pp. 29-52.
[38] Cfr. C. DARWIN, L’Origine delle specie (1859), tr. it, Milano, 2000, pp. 45-85.
[39] P. TORT, op. cit., pp. 43-44.
[40] F. GALTON, Address on eugenics, in «Westminster Gazzette», 26 Giugno 1908.
[41] Cfr. A. CABANIS, Rapporti tra il fisico e il morale dell’Uomo, tr. it. , Roma-Bari, 1972.
[42] A proposito dello scopo della sua ricerca egli afferma chiaramente: «Io mi propongo di mostrare in questo libro che le facoltà naturali dell’uomo sono derivate dall’eredità esattamente secondo le stesse limitazioni dell’intero mondo organico». F. GALTON, Hereditary Genius: An inquiry into Its Laws and Consequences (1869), McMillan & Co., London, 1892, p. 1. Sull’importanza che Hereditary Genius così come anche di molte altre sue opere dedicate al tema della naturalità e dell’innatezza delle facoltà mentali e morali esercitarono sul mondo scientifico e sull’opinione pubblica dell’epoca cfr. N.W. GILLHAM, A Life of Sir Francis Galton. From African Exploration to the Birth of Eugenics, Oxford University Press, New York – Oxford, 2001, pp. 171-172; M. RIDDLEY, Nature Via Nurture, Genes, Experience and What Makes Human, London, 2004, pp. 69-77.
[43] G. B. SHAW, Torniamo a Matusalemme, Milano, 1960.
[44] C. DARWIN, L’Origine dell’Uomo, cit., pp. 179-208.
[45] Cfr. Ibid., p. 148.
[46] M. VOVELLE, La Morte e l’Occidente, Bari, 1993, p. 581.
[47] E. FRIGESSI, Cesare Lombroso, Torino, 2004, p. 295.
[48] Cfr. D. PICK, I volti della degenerazione. Una sindrome europea 1848-1918 (1989), tr. it. di S. Minacci, Scandicci, 1999.
[49] A. CORBIN, Sussuri e Grida, in P. ARIES e G. DIBY ( a cura di), La Vita Privata: L’Ottocento, Milano, 1994, pp. 448-486.
[50] Ibid.
[51] Ibid.
[52] D. PICK, op. cit., p. 316. A tal proposito Esposito scrive che «l’idea di degenerazione ad un certo punto si richiude intorno al proprio oggetto vittimario, separandolo drasticamente dal tipo sano e spingendolo verso un destino di espulsione e di annientamento». Egli, inoltre, suggerisce di seguire la traiettoria delle “pratiche artistiche” per afferrare questa progressiva individuazione di una chiara tipologia nelle pur ambivalenti semantiche della degenerazione. Cfr. R. ESPOSITO, op. cit., pp. 132-135.
[53] Forse uno dei testi che meglio fotografano i caratteri della sindrome degenerazionista è quello di G. SERGI, Le degenerazioni umane, Milano, 1889.
[54] Cfr. R. A. SOLOWAY, Demography and degeneration. Eugenics and the Declining Birthrate in Twentieth-Century Britain, Chapel Hill – London, 1995, pp. 3-60.
[55] Cfr. Ibid., p. 5.
[56] Z. BAUMAN, La società dell’incertezza, tr. it. di R. Marchisio, Bologna, p. 127.
[57] J. BURGH, cit. in Ibid., p. 129.
[58] L. TIGER, The Manufacture of Evil: Ethics, Evolution and the Industrial System, New York, 1987, p. 10.
[59] Qui il discrimine fondamentale tra chi sposò una lettura radicalmente sociobiologica della realtà umana e chi, a partire da Darwin medesimo, non la condivise. Su questo punto cfr. P. TORT, op. cit., e anche G. BONIOLO, Il Limite e il Ribelle. Rtica, naturalismo, darwinismo, Milano, 2003, pp. 135-159.
[60] A. CARREL, L’Uomo, questo sconosciuto (1935), tr. it. di V. Porta, Milano, 1943, pp. 334-335.
[61] Cfr. G. LISSA, Dalla libertà alla responsabilità, in ID. Etica della responsabilità e ontologia della guerra. Percorsi Levinasiani, Napoli, 2003, p. 218.
[62] Ibid., p. 275.
[63] Ibid.
[64] A proposito della generale biologizzazione del pensiero sociale e politico Hanna Arendt afferma scrive che «Verso la fine del secolo [XIX] venne in uso parlare di argomenti politici con termini presi dalla biologia e dalla zoologia, tanto che nessuno più si meravigliava se uno zoologo scriveva un articolo su una Visione biologica della nostra politica estera, con la pretesa di aver scoperto una guida infallibile per gli statisti». H. ARENDT, Le origini del totalitarismo (1951), tr. it. di A. Guadagnin, 1997, p. 251. Mentre, sempre a questo proposito, Foucault osserva che «l’evoluzionismo inteso in senso lato [...] è diventato in modo del tutto naturale, nel corso di qualche anno, non solo un modo per trascrivere il discorso politico in termini biologici, e non solo per occultare sotto una copertura scientifica un discorso politico, ma un modo effettivo e corrente per pensare i rapporti di colonizzazione, la necessità delle guerre, la criminalità, i fenomeni della malattia e della malattia mentale, la storia delle società con le loro differenti classi, e così via». M. FOUCAULT, Bio-potere e totalitarismo, cit., p. 98. Per un’ampia e attenta disamina sul tema si veda inoltre E. TRAVERSO, La violenza nazista. Una genealogia, Bologna, 2002, pp. 123-148.
[65] A. PICHOT, op. cit., p. 214. (Corsivo nostro.
[66] Z. BAUMAN, La società dell’incertezza, cit., p. 137.
[67] Cfr. R. J. LIFTON, op. cit., p. 205. Lifton a proposito dei «rituali selettivi» dei campi di concentramento chiarisce che «nei termini di richieste professionali reali, non c’era assolutamente bisogno che le selezioni venissero effettuate da medici: chiunque avrebbe potuto eseguire la scelta di prigionieri deboli e moribondi. Me se si considera Auschwitz, come fecero gli ideologi tedeschi, come un’impresa sanitaria pubblica, solo i medici potevano assumersi quel compito. Così facendo, il medico si tuffò in quello che si può chiamare il paradosso dell’uccisione come terapia». (Corsivo dell’Autore).

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