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Alfredo Mordechai Rabello[1]

Lo status giuridico del nascituro e il problema dell'aborto in Diritto ebraico

(in La condition des enfants à naître dans les systèmes juridiques de la Méditerranée

sous la direction de P. Catalano, Publisud, Paris 2002, pp. 11 ss.)

1. Introduzione
2. Terminologia
3. Il primo dovere: quello della procreazione
4. Il problema della paternità dell’embrione
5. Contratti e proprietà
6. Donazioni ed eredità al nascituro
7. Il procurato aborto: introduzione.
8. Esodo, 21: 22-23
9. L'uomo nell'uomo
10. Se una donna ha un parto difficile...
11. Una donna incinta condannata a morte...
12. Seguendo Rashì e Maimonide

<rabbí meir="" soleva="" dire:="" da="" dove="" apprendiamo="" che="" perfino="" gli="" embrioni="" ed="" i="" feti="" nei="" ventri="" materni="" hanno="" partecipato="" alla="" cantica="" del="" mare?="" come="" è="" detto[2]:="" "nelle="" folle="" benedite="" il="" sign-re="" idd-o,="" voi="" siete="" dalla="" fonte="" di="" israele[3]"="">.

1. Introduzione[4]
Trattando del problema del nascituro secondo il diritto ebraico[5] è forse opportuno fare una premessa metodologica.
Siamo oggi abituati a parlare di diritti, diritti dell'uomo, diritti del nascituro ecc. ed è naturale che anche gli studiosi del diritto ebraico si siano prestati ad usare questa terminologia per essere meglio compresi o per raggiungere determinati fini, come quello della difesa della persona. Dobbiamo tuttavia osservare che non è quella dei diritti la prospettiva normalmente presa in considerazione dal Diritto ebraico nell’affrontare i problemi; tale diritto ci ha abituato a fissare l’attenzione sui doveri dell'uomo verso D-o, che si traducono anche in doveri verso il nostro prossimo. Per esempio la Bibbia non parla del diritto del genitore ad essere onorato dal figlio o del diritto del nostro prossimo all'amore, ma essa parlerà del nostro dovere, vero e proprio precetto affermativo, di onorare nostro padre e nostra madre (come apprendiamo dal quinto dei Dieci Comandamenti) e del dovere di amare il nostro prossimo come noi stessi[6]; cosè riguardo al nascituro non troveremo normalmente in tali testi un riferimento ai diritti dell'embrione, ma piuttosto troveremo un preciso riferimento a ciò che è permesso, o a ciò che è proibito fare verso l'embrione o il feto (in ebraico ubàr).
Si deve inoltre notare che molto spesso nel diritto ebraico i problemi sono esaminati attraverso una prospettiva completamente diversa ed inaspettata per un giurista di formazione occidentale. Tanto per accennare fin dall'inizio a quale tipo di problematica desideriamo riferirci, troviamo nella Bibbia, ed è notevolmente ampliato nel Talmud, il divieto assoluto di svolgere qualsiasi lavoro nel giorno di Sabato[7]. Tuttavia la stessa Bibbia stabilisce che D-o benedetto ha dato i precetti all'uomo affinché "viva in essi"[8], onde i Maestri hanno stabilito che un ebreo ha il dovere di trasgredire ogni precetto della Torà per salvare la vita di una persona umana, fatta eccezione però per tre precetti, e cioè il divieto di idolatria, di omicidio, e di adulterio ed incesto: nel caso che una persona si trovi di fronte al pericolo di morte o alla trasgressione di uno di questi tre precetti egli ha il dovere di lasciarsi uccidere, di offrire cioè la sua vita pur di non trasgredire il divieto divino[9].
Si pone quindi il problema di come agire nel caso di pericolo per una madre incinta o anche solo per l'embrione; ci si chiede, per esempio, se sia permesso trasgredire il sabato, trasgressione che normalmente può arrivare fino a provocare la pena di morte per il trasgressore, per salvare la madre o l’embrione. La Halachà risponde in modo da non lasciare la soluzione alla coscienza dell’individuo singolo, e imponendo l’obbligo dell’azione: infatti secondo tutti i decisori l'ebreo ha il dovere di trasgredire il sabato per salvare la vita della madre e secondo la grande maggioranza di decisori tale obbligo (di trasgredire il sabato) sussiste anche per salvare l' ubar (l'embrione o il feto), il quale avrà poi il merito, una volta nato e giunto all'età in cui bisogna osservare i precetti, di osservare lui stesso molti sabati[10].
Il Talmud stesso riporta l’opinione di Rav Nachman, a nome di Shemuel, secondo cui nel caso di “una donna partoriente che muore di Shabbat, si porta il coltello[11], si taglia il ventre[12] e si fa uscire il bimbo”[13] spiegando poi che con questo si permette di trasgredire il Sabato: appare evidente da questo testo che si permette di profanare il Sabato per salvare la vita del feto. Per l'ebreo osservante persona semplice, che non si interessa di problemi filosofici e che chiede semplicemente di sapere come deve comportarsi, questa regola pratica: "tu hai il dovere di trasgredire il sabato per salvare l'embrione", ha un enorme valore ed influenza sulla sua formazione e l'aiuta a farsi una idea precisa dell'importanza che la Torà attribuisce all'embrione.
Lo stesso dicasi per esempio del giorno del digiuno di Kippùr, il più santo giorno del lunario ebraico[14]; qualora vi sia un pericolo, od anche soltanto dubbio di pericolo, per la vita dell' ubàr, in qualunque momento della sua esistenza, è fatto dovere alla madre (si noti, non solo è permesso ma è per lei doveroso) trasgredire il giorno del digiuno di Kippùr, bevendo e mangiando quanto è necessario per mettere il concepito fuori pericolo[15]. Solo comprendendo l'importanza straordinaria che hanno il Sabato ed il Kippùr per l'ebreo fedele alla Torà, si può comprendere l'importanza che ha l'ubàr per la tradizione ebraica.
Desiderando offrire una visione il più possibile esatta di questa problematica, cercheremo naturalmente di attenerci aderenti alle fonti. Tenendo però presente che ci troviamo di fronte a testi esaminati da due o tremila anni, con differenti interpretazioni, è anche evidente che, specialmente per il periodo in cui inizia una proliferazione di fonti, saremo costretti a fornire solo quelle che ci sembrino le più significative.
Desideriamo ricordare un’altra osservazione, che abbiamo già fatto all’inizio dell’esame delle Fonti del Diritto ebraico: trattandosi di un sistema giuridico, ha evidentemente molto valore l'opinione del decisore, mentre non avrà valore l'opinione dello scrittore, del filosofo, dello storico ecc. Per esempio potrà essere senz'altro interessante per lo storico del diritto sapere come un certo versetto sia stato interpretato dalla traduzione biblica greca dei LXX, o da Filone Alessandrino o da Giuseppe Flavio. Bisogna però sapere che questi testi non hanno alcuna rilevanza per un’autorità rabbinica che dovrà dare un responso. L'unico elemento esteriore alle fonti tradizionali che avrà una importanza grandissima, sarà l'opinione dei medici: sarà normalmente un esperto in medicina che deciderà se una determinata situazione sia da considerarsi pericolosa per la vita, ed in base a questa opinione verrà quindi presa la decisione secondo la Halachà[16].
Vi è da aggiungere un’ulteriore osservazione, che può sembrare paradossale: proprio nei periodi in cui le donne ebree non hanno praticato l'aborto, si possono trovare Responsa più condiscendenti, più disposti cioè a permettere l'aborto, cercando di persuadere la donna che era suo primo dovere salvare la propria vita. Nel corso degli ultimi decenni la situazione sembra essere mutata; alcuni decisori, messi di fronte alla realtà di un eccessivo permissivismo della ultime generazioni, della minore considerazione che viene data alla santità della vita, hanno iniziato ad usare un linguaggio assai duro verso l’aborto, sottolineando soltanto una parte delle fonti ebraiche, ed in particolare quelle che parlano di "uccisione" o di "omicidio" del feto, o vedendo nel feticidio una chiara connessione con l’omicidio. Naturalmente in questa sede il nostro scopo è quello di studiare come il diritto ebraico nel suo insieme veda il problema. Un altro problema sorto nella nostra generazione è quello di una certa mancanza di fiducia venutasi a creare nel posek verso i medici; non vi è cioè la sicurezza che quando un medico sostiene che una determinata situazione sia pericolosa, in realtà egli lo faccia per permettere di far eseguire un aborto; vi sono per questo autorità rabbiniche che hanno richiesto l’opinione di un medico di fiducia, oppure di due medici differenti, che non abbiano avuto contatto l’uno con l’altro.
Prima di passare allo studio delle fonti giuridiche, desidero ricordare qualche passo biblico e rabbinico, a base non giuridica, che fa riferimento al nascituro. Si tratta quasi sempre di testi sull’elezione divina che avviene prima ancora della nascita, come nel caso del Profeta Geremia[17]: <>. Nel Midrash ai Salmi[18] tale verso viene usato in riferimento a Giacobbe; nel ventre di Rebecca[19] i due figli Esaù e Giacobbe si muovevamo continuamente; il Midrash dà la spiegazione che mentre Rebecca passava dinnanzi a templi idolatrici Esaù desiderava uscire dal ventre di sua madre, mentre quando Rebecca passava dinanzi alla scuola di Sem, in cui si studiava Torà, era Giacobbe a desiderare di uscire, come è detto: <>.
La cosa ricorda l’atteggiamento divino verso Israele, servo del Sign-re: <>[20].
Un interesse del tutto particolare mostra la figura del re David, da cui discenderà il Messia; il Talmud sottolinea come il re David lodò il Sign-re in ogni fase della sua vita, e già prima di nascere: “Ha detto Rabbì Jochanan a nome di Rabbì Shimon Bar Jochai: il versetto seguente <>[21] è stato pronunciato da Salomone, come se dovesse essere riferito a suo padre David, che ha cantato a D-o nei cinque mondi in cui ha risieduto. Già nel ventre di sua madre, ha cantato una cantica, come è detto: <<benedici, o="" anima="" mia,="" il="" sign-re,="" e="" voi="" tutte="" le="" mie="" viscere,="" suo="" santo="" nome[22]="">>. Venendo al mondo, vide...”[23].
Il Talmud riporta anche che ogni feto apprende, nel ventre di sua madre, tutta la Torà; al momento della nascita un angelo lo invita ad essere giusto e non malvagio e lo colpisce sulla bocca e gli fa dimenticare tutto quello che ha studiato, fino a che non tornerà a studiare in questo mondo[24].
Nonostante tutta l’importanza che possiamo attribuire a questi ed a altri numerosi passi che troviamo nella tradizione rabbinica, dobbiamo riconfermare che essi hanno un grande valore educativo, ma non un valore giuridico: al momento che ci si trova a dover stabilire la regola giuridica per un determinato quesito pratico essa verrà stabilita secondo la Halachà. 2. Terminologia
Anche dalla terminologia usata nelle fonti possiamo apprendere qualche notizia sulla situazione giuridica dell'ubàr[25]. Tale parola ha il significato sia di embrione, sia di feto e sta ad indicare chi si trova nel ventre materno, fino a che non spunti la testa[26].
Vi è chi sostiene che il nascituro concepito sia già compreso nel termine adam (uomo), e vi è chi sostiene il contrario; tutti però sono concordi nell’affermare che il nascituro sia compreso nel termine adàm baadàm, cioè "uomo nell'uomo" che troviamo all'inizio del libro della Genesi[27].
Vi è chi dice che il termine "figlio" (ben) comprenda anche il nascituro concepito, sulla base di Gen. 25:22, riferito ai gemmelli nel ventre di Rebecca: "I figli si urtavano nel ventre...Il periodo della gravidanza si compì ed essa aveva nel ventre due gemelli".
Per quanto riguarda il termine nefesh ( persona) tutte le varie possibilità sono state sostenute: abbiamo l'opinione negativa e cioè l'ubàr non è considerato nefesh [28], e tale sembra essere l’opinione comunemente accolta; abbiamo una seconda opinione per cui l'ubàr è considerato safek nefesh (persona in dubbio); secondo una terza opinione esso è considerato nefesh solo per quanto riguarda il divieto di aborto (letteralmente "togliere l'anima"- netilat neshamà); vi è infine chi sostiene, come alcuni esponenti della scuola del Maimonide, che l'ubàr sia compreso nel termine nefesh.
Queste divergenze di opinione potranno permettere di comprendere anche le divergenze che troviamo oggi, specialmente fra i seguaci dell'opinione di Rashì, da un lato, e quelli dell'opinione del Maimonide, dall’altro . E’ anzi da notare che alcuni decisori sostenitori della posizione di Raschì, riconoscendo la grande importanza del Maimonide, hanno sostenuto che il Maimonide stesso non era dell'opinione che gli viene attribuita da chi si dichiara suo seguace[29]. 3. Il primo dovere: quello della procreazione
Già esaminando il matrimonio abbiamo avuto modo di vedere che il primo precetto che incontriamo nel primo libro della Bibbia è quello della procreazione. Esso viene espresso all'inizio della Genesi con le parole: <> .[30]
Nel Midrash Bereshit Rabbà abbiamo una lunga discussione che riguarda in particolare il problema di sapere a chi fosse rivolto il comando come normativo, e non come semplice benedizione: “R. Eleazar disse a nome di R. José ben Zimrà: <> - sta scritto -. L'uomo è obbligato alla riproduzione, ma non la donna. R. Johanan ben Beroqa disse: Sia l'uomo, sia la donna, perchè per ambedue è detto: <>”[31].
Idd-o benedetto si rivolge quindi direttamente all'uomo non solo concedendogli il potere di riproduzione, ma anche dandogli la coscienza di questo potere. Abbiamo già avuto modo di esaminare alcune delle caratteristiche del matrimonio; ci limiteremo in questa sede a riportare un passo del Shemot (Exodus) Rabbà in cui il Midrash prende spunto da due versetti biblici dell'Esodo, all'inizio quindi della formazione del popolo ebraico come popolo. <>
Il Midrash vede una relazione diretta fra i due versetti, che sono uno il seguito dell'altro (essendo rispettivamente l'ultimo versetto del primo capitolo ed il primo versetto del secondo capitolo). Il Midrash immagina che Amràm, il futuro padre di Mosè, avesse divorziato da sua moglie (dopo che dalla loro unione erano già nati Aharon e Miriam- futuri fratelli di Mosè). Il motivo del divorzio era da trovarsi nel decreto del Faraone; Amram voleva evitare di avere altri figli, per evitare che venissero buttati nel Nilo. A questo punto intervenne la figlia Miriam con parole assai dure, facendo presente a suo padre Amram che il suo modo d'agire era peggiore di quello del Faraone; Miriam avrebbe detto al padre che mentre il faraone aveva decretato la morte solo per i figli maschi, egli (Amram) con il suo modo d’agire (e cioè con il divorzio dalla moglie effettuato per non dover mettere al mondo altri figli) avrebbe praticamente decretato la mancata nascita (che si potrebbe equiparare ad una condanna a morte) sia per i futuri maschi sia per le femmine. Amram, convinto dal ragionamento della figlia, avrebbe quindi risposato la sua ex-moglie e da questa rinnovata unione nacque appunto Mosè.
Si può senz'altro obbiettare che è molto difficile poter trarre delle conseguenze giuridiche da un testo che non pretende di avere un carattere giuridico; nessun tribunale umano avrebbe mai agito in base a un simile ragionamento; ciò è senz'altro vero, ma non si può non avvertire la forte influenza del Midrash sull'animo di chi lo studia, quando il Midrash viene a mettere in rilievo, attraverso le parole di Miriam, la relazione esistente fra la volontaria astensione dal dovere di procreare e quella dell'infanticidio. È da notare che troviamo fra i poseqim (decisori) questa relazione fra il dovere della procreazione e la proibizione dell'aborto, come ragionamento a fortiori: se tu hai il dovere di procreare, a maggior ragione hai il dovere di astenerti dal far cessare la vita dell'embrione o del feto (ubàr).
Nello stesso ordine di idee, il libro mistico dello Zhohar (splendore) spiega quanto fu grande il merito dei figli di Israele in Egitto quando, nonostante l'ordine del Faraone di far gettare nel Nilo tutti i maschi, non vollero fare abortire le loro mogli: per questo essi meritarono la redenzione. Risulta quindi evidente che si tratta di versi e di interpretazioni che eserciteranno la loro influenza morale anche sulle generazioni ebraiche successive. Nelle fonti rabbiniche è più volte riportato che, nella creazione dell'uomo, vi sono tre compartecipi: Idd-o benedetto, il padre e la madre. Fra l'altro Idd-o fornisce lo spirito e l'anima[34]. A questo proposito nel Talmud[35] e nel Midrash[36] è riportata una interessante discussione fra Rabbí Jehudà il patriarca, il redattore della Mishnà, e l'imperatore Antonino (probabilmente Marco Aurelio[37]):
“Antoninus ha chiesto a Rabbi: da quando viene introdotta l'anima nell'uomo, dall'ora del concepimento[38] o dall'ora della formazione (dell’embrione)[39]. Gli rispose: dall'ora della formazione. Gli disse (Antoninus a Rabbi): è mai possibile che un pezzo di carne stia tre giorni senza sale, senza andare a male?[40] Certo deve essere dall'ora del concepimento (lett.la visitazione). Ha detto Rabbi: questo mi ha insegnato Antoninus e vi è un passo biblico che lo conferma, come è detto[41] "Mi hai donato vita e mi hai usato misericordia, e la tua visitazione[42] conservò il mio spirito"”.
È interessante l'esplicito riferimento ad un Saggio non ebreo; sappiamo del resto che la scuola pitagorica e la scuola platonica hanno avuto notevole influenza sulle concezioni mediche in Palestina. È infine da tener presente che già nel Talmud troviamo riportate divergenze di opinioni; in quanto poi a quello che non trova esplicita soluzione nel Talmud, è evidente che possiamo trovare divergenze di opinioni fra le autorità rabbiniche successive. Ogni decisore risolverà quindi il caso a seconda della linea da lui normalmente stabilita; nonostante che uno possa rimanere a prima vista smarrito dall'abbondanza di opinioni, al lato pratico poche sono le differenze. Nel diritto ebraico anche l'uso ha grande importanza e quindi un decisore che abbia una opinione differente dal comune potrà sostenere all'inizio la sua opinione, proseguendo poi col dire: "tuttavia si è ormai consolidato l'uso ecc.".
Esaminiamo ora la problematica della personalità giuridica del nascituro in base ad alcuni problemi che sono stati trattati dai decisori. 4. Il problema della paternità dell’embrione
Esiste anche nel diritto ebraico una presunzione secondo la quale il marito della madre è il padre del bambino.. I problemi si pongono però al momento dello scioglimento del matrimonio, o per morte del marito o per divorzio: secondo la Halachà una vedova od una donna divorziata dovrà attendere tre mesi dopo la morte del marito o dopo il divorzio per potersi risposare[43]. Il motivo di tale attesa è quello di essere certi sull’identità del padre dell’embrione, potendo altrimenti sorgere il dubbio se si tratta di un figlio di nove mesi del primo marito oppure di un figlio di sette mesi del secondo[44].
È da tener presente a tal proposito il divieto,che troviamo nel Talmud, fatto ad un uomo di sposare la donna incinta di un altro uomo: il motivo del divieto è il timore che il secondo marito possa danneggiare durante un rapporto sessuale il feto del primo, dato che l’uomo ha riguardo normalmente per il suo futuro figlio, ma non necessariamente per il futuro figlio di un altro. Osserva il Rav Ovadià Josèf che anche questo divieto è una prova, a fortiori, del divieto dell’aborto per il Talmud[45]. 5. Contratti e proprietà
Secondo l’opinione comunemente accolta non è ammesso il trasferimento di diritti ad un embrione; tuttavia è ammessa la possibilità di un contratto a favore del nascituro, ed anzi
può essere nominato un curatore per proteggerne i diritti[46].
Vi è chi sostiene che l’ ubàr abbia la personalità giuridica nei confronti della proprietà [47] e chi sostiene il contrario[48]. In ogni caso è considerato proibito derubare il feto dei suoi diritti; il Rav Shlomo Zalman Auerbach ha fatto osservare che sarebbe ben strano proteggere la proprietà del feto, senza proteggerne la vita[49]. 6. Donazioni ed eredità al nascituro
I Maestri del Talmud hanno discusso la questione se il feto abbia la capacità di acquistare delle donazioni, e si sono divisi nelle loro risposte. Iniziamo dal passo della Mishnà[50], da cui apprendiamo: <>.
Il testo della Mishnà viene a stabilire una importante eccezione alla regola comunemente accolta (ma anche qui abbiamo opinioni divergenti) per cui il feto non ha la capacità di acquisire. Tale eccezione viene fatta per il padre in procinto di morire: tale è l'opinione del Maimonide nel suo commento alla Mishnà e nel Mishné Torà; secondo però alcuni commentatori più recenti (e tale sembra essere oggi l'opinione comunemente accolta) la Mishnà si riferisce al padre, senza limitazioni, cioè non solo in procinto di morire, e ciò in base alla presunzione che il cuore paterno è vicino a suo figlio e lo ama anche prima della nascita (ma non prima della concezione) e si può quindi presumere che il padre avesse senz'altro voluto fare una donazione valida al futuro figlio già mentre si trova nel ventre materno[51]. In quanto poi all'uso che fa la Mishnà di una quota doppia per la figlia, rispetto a quello che riceverà il figlio, esso viene spiegato col fatto che si vuole assolutamente evitare che essa debba in alcun modo essere costretta a chiedere l'elemosina, la qual cosa avrebbe potuto offendere la sua modestia.
Nel passo talmudico[52] troviamo riportato un caso simile a quello trattato nella Mishnà; un uomo dice a sua moglie incinta, che tutto il suo patrimonio appartiene al bambino di cui lei è incinta. Rav Huna sostiene che tale disposizione è invalida in quanto, hamezhaké laubar lo kanà, "chi dà a favore[53] di un embrione[54], questi non ne è divenuto proprietario"[55]; d'altro lato Rav Nachman, discutendo questa regola, dichiara di non sapere chi ne sarebbe l'autore[56]. Nel Talmud è riportata anche l'opinione di R. Jossi secondo cui l'embrione acquisisce, anche se il Talmud discute se R. Jossi si riferisca ad una donazione o non piuttosto ad una donazione mortis causa. Rav Nachman torna nella discussione cercando di salvare la validità della donazione: qualora il donatore avesse subordinato l'efficacia della donazione alla nascita del bambino, tale donazione sarebbe stata valida una volta nato il bambino. Viene riportata infine l'opinione di Rav Sheshet secondo cui la donazione è sempre valida.
L'opinione legale accolta come Halachà è quella della invalidità in generale di una donazione a un postumus alienus e della validità di tale donazione qualora essa sia effettuata dal padre (cioè, per usare una terminologia romanistica, al postumus suus)[57]. In linea generale possiamo quindi dire che l’embrione non ha diritti, e che questi diritti vengono acquisiti con la nascita, onde se un embrione muore nel ventre della madre, egli non avrà acquistato quei diritti di eredità che avrebbe acquistato se fosse nato, onde i diritti di eredità verranno trasmessi agli eredi del defunto, come se l’embrione non fosse mai esistito[58]. D’altro lato un bambino che nasce dopo la morte del padre, erediterà dal padre considerando il bambino come già nato al momento della morte del padre[59] 7. Il procurato aborto: introduzione
Nel caso dell’aborto volontario non si vuole dar vita a un essere che è già stato concepito: diciamo subito che per il diritto ebraico in linea di principio, l'aborto è considerato proibito. Da un punto di vista biologico non vi è alcuna differenza fra un embrione di un mese, il cui cuore già incomincia a battere ed un feto di sette mesi: i due sono già esseri viventi. Vi sono tuttavia differenze esteriori: l'organismo (formazione di membra) appare formato dopo sei settimane circa. Ecco quindi alcune difficoltà: l'essere è già vivo al momento della inseminazione dell'ovulo, ma solo a quaranta giorni circa[60] appare esternamente in forma umana.
Da un punto di vista etico-filosofico il fatto che il feto dipenda esclusivamente dalla madre, non giustifica la sua soppressione, più di quanto possa essere (in)giustificato l'omicidio di un bimbo di un giorno, la cui vita pure dipende dagli altri. Tuttavia dal punto di vista del diritto ebraico vi sono delle divergenze fra i Poskim (decisori)[61].
In linea generale possiamo dire che sono sostenibili le seguenti posizioni:
a) l’embrione è riconosciuto come una vita umana in tutto e per tutto, a pieno diritto;
b) l’embrione è riconosciuto parzialmente come una persona con diritti limitati;
c) l’embrione è protetto come una vita umana in potenza, potendo cioè arrivare ad essere una persona, se non morirà prima della nascita;
d) l’embrione non ha nessun valore, nessun diritto e può essere eliminato a piacimento (in particolare si può aggiungere la posizione di chi sostiene che la donna ha diritto a fare quello che vuole con il proprio corpo)[62].
Come potremo osservare dall’esame che effettueremo qui di seguito sono da escludere, per il diritto ebraico, le posizioni a) e d).
Un altro problema è se il feto sia considerato parte della madre (foetus pars ventris), oppure un essere a sè stante[63]. 8. Esodo, 21: 22-23
Nella Bibbia è stabilita una pena pecuniaria per colui che ha causato l'aborto di un feto nel corso di una rissa in cui una persona, desiderosa di colpirne un’altra, ha colpito invece una donna incinta; la Bibbia non fa distinzione, a differenza dei Diritti dell’Oriente antico[64], a seconda dello stato sociale della donna; ci troviamo quindi, per quanto riguarda il feto, nel campo della responsabilità civile, e non penale: <La traduzione greca dei Settanta (Septuaginta) interpreta la parola asòn (disgrazia) riferendola al feto[74], facendo distinzione a seconda che il feto non abbia ancora raggiunto una forma umana, oppure l'abbia già raggiunta, caso questo in cui, anche secondo Filone di Alessandria[75] che segue i Settanta, l'uomo che ha provocato l’aborto sarebbe passibile di pena di morte. Abbiamo cioè qui una terza opinione, intermedia rispetto alle due precedenti, che distinguevano soltanto a secondo che il feto fosse da considerarsi parte del corpo materno o a sè stante.
La tradizione talmudica, invece, ritiene che il termine asòn (che comunemente si traduce con “disgrazia, morte” [76]) si riferisca alla donna[77], pensando cioè al caso che vi sia un aborto, acccompagnato, o meno, dalla morte della donna colpita. Infatti solo l’uccisione di un uomo viene punita con la pena di morte[78], ma non quella di un feto[79], che verrà punita, invece, con una pena pecuniaria[80]. La posizione di Giuseppe Flavio[81] è simile a quella rabbinica[82].
Sarà utile ricordare che per il diritto ebraico tradizionale solo l'opinione talmudica ha importanza, anche se non si può negare l’importanza che orientamenti etici diffusi nella opinione pubblica, possano avere una influenza indiretta anche sui decisori. 9. L'uomo nell'uomo
Tutti i decisori, autori cioè di Responsa,[83] sono concordi nel sostenere che chi abbia ucciso un bimbo nato vivo e vitale[84] è passibile di pena di morte.
Nel Talmud è riportata l’opinione di Rabbì Ishmaèl secondo cui un gentile che provochi la morte di un feto, sia a sua volta passibile della pena di morte[85]; fonte prima del divieto di provocare la morte del feto è il verso della Genesi[86] interpretato come segue:
<>.
In base alla regola talmudica secondo cui non vi è norma divina valida per il gentile che non vincoli anche l'ebreo[87], è evidente la severa proibizione dell'aborto (si noti: la norma è valida anche per l'Ebreo, ma non la stessa pena prevista per il trasgressore); è discusso anche qui da quale giorno dopo l’inizio della concezione si intenda esservi il divieto[88]..
Il libro mistico dello Zhohar[89] (splendore) esprime tutta la sua contrarietà all’aborto volontario spiegando che "un uomo che uccide il feto nel grembo di sua moglie, dissacra quello che è stato costruito dal Santo e Benedetto a Sua immagine", e spiega, come abbiamo già ricordato, quanto fu grande il merito dei figli di Israele in Egitto i quali, nonostante l'ordine del Faraone di far gettare nel Nilo tutti i maschi, non vollero fare abortire le loro mogli: per questo essi meritarono la redenzione[90]. 10. Se una donna ha un parto difficile...
Il divieto dell'aborto non è tuttavia assoluto: esso viene infatti meno in caso di pericolo per la vita della donna: nel trattato della Mishnà di Ohalot[91] abbiamo la regola: "Se una donna ha un parto difficile [e si teme per la vita della madre] si interviene sul feto nelle viscere per trarlo membra a membra [per salvarla], perché la vita di lei precede quella del feto; se ne è già uscita la maggior parte, non si può toccarlo [cioè ucciderlo] perché non si può sacrificare un essere per un altro essere".
Qual è il motivo di questa distinzione? Il commentatore medioevale francese Rashí di Troyes così spiega: “fino a che non è uscito all’aria del mondo, egli non è nefesh (persona) e si può ucciderlo e salvare la madre”.. Due sono quindi i principi su cui si basa Rashì: a) prima della nascita il feto non è considerato essere completamente una persona (nefesh) e quindi b) si può salvare la vita della madre anche a costo della vita del feto, il che non si verifica immediatamente dopo la nascita, poiché allora il bimbo è dotato di piena personalità[92]. È da notare l’importanza del secondo elemento, da cui si può dedurre che secondo Rashì l’aborto è permesso per salvare la vita della madre, e non per un motivo qualunque.
Una via completamente differente per la spiegazione della Mishnà viene seguita dal grande decisore Maimonide[93]: secondo lui il motivo della differenza fra le due parti della Mishnà è da trovarsi nel fatto che si applica anche al feto la regola contro il rodèf (persecutore): chi mette in pericolo la vita di una persona può essere ucciso, se questa è l’unica via per salvare quella persona. Secondo alcuni studiosi per Maimonide non ha importanza se questa persona abbia, o meno, la capacità di comprendere: il motivo dell’autorizzata uccisione del rodef non è una punizione, ma il salvare la vita del perseguitato. Secondo altri, invece, è richiesta anche per il Maimonide la capacità di intendere, e l’ammissibilità dell’aborto in questo caso è spiegata in questi termini:”that a fetus is deemed a pursuer precisely because he is not a total ‘being’”[94].. Una volta spuntato il capo del bimbo, non si sa più chi perseguiti chi, se cioè il bimbo la madre o viceversa. È anche interessante notare che Maimonide ha deciso di accogliere nel suo codice l’opinione di Rabbi Ishmaèl che ritiene passibile di pena di morte il gentile che provochi un aborto e che il Maimonide stesso tratta del problema come parte delle regole sull’omicidio.
Come vedremo, i decisori moderni sono divisi fra queste due opinioni. Inoltre sulla base del permesso concesso dalla Mishnà di ammettere l’aborto solo nel caso di pericolo per la vita della madre o nel caso di sue grandi sofferenze (come nel caso che verrà esaminato nel paragrafo successivo) si è dedotto che negli altri casi l’aborto non è mai consentito[95]. Troviamo già qui l’idea che dobbiamo avere considerazione per la vita dell’embrione, idea che costituirà il fondamento del permesso di trasgredire il sabato per salvare l’embrione. 11. Una donna incinta condannata a morte...
Un altro testo di particolare importanza è la Mishnà di Arachìm[96] che stabilisce: “Se una donna incinta è condannata a morte non si attende il parto per la esecuzione, ma se si trova all’inizio del parto si attende che partorisca”. I Commentatori riportano due spiegazioni sul differente trattamento a seconda dei due momenti; secondo Rashì il feto non è considerato un essere a se stante tranne che al momento del parto: prima del parto la madre e il feto sono considerati un solo corpo. Rabbenu Nissim Gherondi (Ran) fornisce invece una spiegazione psicologica: per la donna condannata a morte il tormento del pensiero della morte che la attende è più grave che la morte del feto, la cui nascita e vita non sono sicure: vi è quindi il divieto di inui din[97], che viene causato quando si rinvia l’esecuzione, facendo soffrire al condannato pene inutili; è da tener presente che i Rabbini hanno stabilito espressamente che anche il condannato a morte è compreso nel dovere di amare il nostro prossimo; una volta che è iniziato il parto, invece, il pensiero primo della madre è rivolto al futuro bambino, e quindi si attende che partorisca. Il Talmud basa la sua spiegazione sull’interpretazione che dà al versetto: <>[98] e cioè “i due” di cui si tratta sono la donna con il proprio embrione; non manca anche l’opinione, isolata, di chi sostiene che si deve attendere in ogni caso il parto prima dell’esecuzione, dato che il feto appartiene anche al padre[99]. Questa Mishnà fornisce un ulteriore elemento per permettere l’aborto: se con la prima Mishnà avevamo trovato il fondamento per un permesso di aborto per il caso di pericolo di vita per la madre, in questa Mishnà viene trovato il fondamento di un permesso per casi che riguardano le sofferenze della madre. 11. Seguendo Rashì e Maimonide
Come abbiamo già avuto modo di osservare, la divergenza di opinioni fra Rashì e Maimonide, approfondita con l'esame di una serie di altre fonti, ha ripercussioni ancor oggi fra i decisori. E' infatti evidente che i decisori che seguono l'opinione di Rashí saranno disposti, per esempio, ad ammettere l'aborto anche in particolari casi riguardanti le condizioni dell'embrione o del feto e non direttamente la madre; i seguaci del Maimonide saranno invece molto più rigorosi ed ammetteranno l'aborto in una serie molto più limitata di casi. In ogni caso abbiamo in questa divergenza di opinioni fra due grandi autorità, la base per ulteriori divergenze fra i decisori dei nostri giorni. Diverse autorità rabbiniche permettono l'aborto solo in caso di pericolo per la vita della madre[100]. Alcune ritengono che l'aborto sia permesso solo se il feto è la causa diretta del pericolo[101] mentre altre autorità ritengono l'aborto lecito qualora si possa aiutare la madre a sopravvivere, senza che vi sia una diretta connessione con il feto[102], o "anche per alleviare le gravi sofferenze causate dal feto alla madre"[103].. Una posizione simile è quella del Rav Meir H.Uzhiel, gran Rabbino sefardita di Erez Israel, secondo cui l'aborto è proibito se voluto dalla madre senza un valido motivo, ma potrà essere concesso dall'autorità rabbinica per seri motivi, anche se per ragioni meno gravi del pericolo di vita[104]. In pratica egli ha considerato permesso l’aborto per esempio nel caso di pericolo di sordità per la madre[105]
Una tragica applicazione dei principi suesposti si ebbe nel 1942 nel ghetto di Kowno, al tempo dell'occupazione tedesca; le autorità tedesche decretarono che ogni donna ebrea incinta sarebbe stata messa a morte, assieme al suo feto: Rabbì Efraim Oshri stabilì che l'aborto era permesso, onde salvare almeno la vita della madre[106], che altrimenti sarebbe morta assieme al feto.
I decisori hanno discusso anche il problema dell'ammissibilità dell'aborto nel caso di un embrione che sarà considerato mamzhèr (figlio adulterino) o nel caso di una gravidanza extramatrimoniale: vi sono autorità che hanno ritenuto l'aborto permesso nel primo caso[107] e proibito nel secondo[108]; il Rav S.Z.Auerbach ha considerato permesso ad una donna sposata che è stata violentata sospendere tale gravidanza immediatamente dopo il rapporto sessuale[109].
Vi è chi ha permesso l’aborto di una donna che è rimasta incinta durante il periodo dell’allattamento di un altro bambino, per timore che la cosa fosse pericolosa per il primo bambino, ma vi è anche chi si è opposto a tale permesso[110].
Il problema del procurato aborto si è posto, naturalmente, con tutta la sua gravità nel nostro tempo. Come abbiamo già accennato, è da notare che il lassismo dei costumi, il vivere in una società in cui tutto sembra permesso, ha posto anche i rabbini di fronte a difficili dilemmi; abbiamo così autorità rabbiniche, come il Rav Feinstein, residente in America ed il gran Rabbino Ashkenazita di Israele Unterman, che hanno sostenuto una posizione assai rigida, propria della scuola maimonidea, sottolineando come bisogna cercare di reagire al lassismo della nostra società per riaffermare la sacralità della vita dataci da D-o. Tali autorità rabbiniche così rigorose vietano assolutamente ogni aborto, fatta eccezione per il caso in cui vi sarebbe un pericolo per la vita della donna o per il suo stato di salute e sostengono che, per quanto riguarda le conseguenze, l'unica differenza fra un omicidio (= uccisione di un uomo) e un aborto (= uccisione di un feto), sia che l'omicidio è punito da un tribunale umano, mentre l' aborto è punito direttamente dal Cielo (non si sottovaluti questa pena per una persona timorosa del Cielo)[111].
Vi sono invece altre autorità che sostengono che non si può essere più rigidi di quanto stabilito direttamente dalla Halachà facendo subire le conseguenze negative proprio a chi si dichiara fedele alla Halachà stessa[112]. Tali decisori sostengono che il divieto dell'aborto è di origine rabbinica, e che i Saggi non hanno stabilito che ci si debba comportare rigorosamente in ogni caso, ma hanno ammesso alcune eccezioni, quando il feto sia gravemente malato[113], come ad esempio nel caso di malattia genetica tay-sachs (gm2 genegliosidosis), malattia ereditaria causata dalla mancanza di un particolare enzima[114]. La nascita di un simile bimbo normalmente provoca molto dolore in famiglia e suscita gravi problemi. Si deve poi ricordare che la vita di un simile essere è in genere molto breve. Quest'ultimo argomento non è presente nel caso di bambini affetti da sindrome di Down, che possono vivere generalmente di più, tuttavia anche in questo caso sono stati trovati motivi per permettere, specie nelle prime settimane, l'aborto. Tra gli elementi che i decisori hanno tenuto presente vi è stato anche quello dell'effetto che può avere la nascita di un simile bambino nel nucleo familiare: se si tratta di una famiglia molto salda dal punto di vista morale, disposta ad accogliere con affetto il nuovo bambino, se ogni membro della famiglia sarà ben disposto a cooperare, sarà difficile permettere l'aborto; se invece non sarà bene accetto, se potrà causare la dissoluzione del nucleo familiare, la perdita di quello che pure è considerato un gran valore, la pace familiare (shelom bait), sarà allora meglio permettere l'aborto.
Questa divergenza di orientamenti ritorna anche quando si affronta il problema della liceità degli esami prenatali: evidentemente chi non ammette l'aborto se non per una situazione di pericolo per la madre, non ammette neppure esami prenatali per esaminare la situazione del bambino, dato che essi non possono apportare alcun giovamento[115]; per usare l’espressione del Rabbino Unterman: è ben strano che, una volta constatata la malattia del feto, si decida di sopprimerlo. È stato permesso tuttavia l’aborto, quando si è riscontrato un caso di anencefalia[116]
Vi è infine chi ha permesso l'aborto in caso di gravi disturbi mentali e psicologici della donna[117]; a questo proposito vi è da notare che anche autorità rabbiniche che non sono disposte a permettere l’aborto per motivi di salute che riguardino il feto, sono propensi a concederlo qualora tali condizioni provochino seri disturbi mentali o psichici alla madre[118]. Vi sono pure discussioni sui vari metodi per eseguire l'aborto e sui diversi periodi della gestazione: sarà più facile permetterlo se la gravidanza sarà al suo inizio, entro le prime sei settimane[119]...
Tutti sono concordi che l'aborto è permesso in caso di pericolo per la vita della madre e che è proibito subito dopo la nascita, da quando cioè è uscito il capo.
Normalmente si è concordi nel ritenere che anche il marito-padre debba acconsentire all'aborto[120]; tuttavia se la moglie ha abortito senza il consenso del marito, tale atteggiamento non è considerato motivo sufficiente a giustificare un divorzio da parte del marito. In una sentenza della Corte Suprema israeliana, in una decisione di minoranza, il giudice Menachem Elon, l'unico giudice di formazione religiosa che sedesse allora nella Corte suprema israeliana, ebbe a sostenere che il diritto del padre ad essere ascoltato dalla commissione che decideva dell’aborto, era un diritto che trovava il suo fondamento nel diritto naturale del padre.
Il principio della santità della vita è un principio basilare dell'ebraismo, espresso nella Bibbia con il comando: <>[121].. Nessuno ha il diritto di togliere ad altri la vita ed il comandamento biblico <> assume un carattere assoluto. In realtà tale comandamento è stato promulgato ancora prima della Rivelazione sul Sinai, e cioè fin dall'inizio della storia della umanità, e fa parte, come abbiamo accennato, di uno dei precetti che, secondo la tradizione ebraica, obbligano ogni uomo (uno, cioè dei sette precetti dei figli di Noè[122]): <<così pure="" chiederò="" conto="" del="" vostro="" sangue,="" della="" vostra="" vita;="" a="" qualsiasi="" animale="" ne="" conto.="" chi="" versa="" il="" sangue="" dell'uomo="" nell'uomo,="" avrà="" proprio="" versato="" dall'uomo,="" poichè="" d-o="" fece="" l'uomo="" ad="" immagine="" propria="">>[123]. Si noti che l’espressione chi versa il sangue dell'uomo nell'uomo è il verso principale su cui si basa la tradizione ebraica per proibire l’aborto volontario, cioè l’uccisione dell'uomo nell'uomo.
Ai nostri giorni si pone anche il problema di come comportarsi nel caso di pluralità di embrioni nell’utero; infatti senza l’eliminazione di alcuni si rischierebbe la morte di tutti, tuttavia la sopravvivenza di tutti potrebbe anche rappresentare un pericolo per la vita della madre e degli altri embrioni. Normalmente i decisori sono dell'opinione che sia permesso, se non necessario, eliminare alcuni embrioni per permettere a quell'embrione, o a quegli embrioni, che dal punto di vista medico hanno più probabilità di sopravvivere, di arrivare fino alla nascita, senza causare pericolo per la vita della madre[124].
È da notare come recentemente si sia formata in Israele la Associazione Efrat che ha come compito quello di spiegare, specialmente alle madri, le conseguenze dell'aborto, cercando di rendere le madri consapevoli della situazione del feto e facendone vedere la vitalità.. Tale associazione svolge la sua attività con l'aiuto di medici e giuristi, proponendosi di creare una consapevolezza della negatività dell'aborto. E’ infatti evidente che la grande discussione non è quella esistente fra questo e quel decisore su un determinato aborto, permesso per gli uni e proibito per gli altri. Il vero problema sussiste nella enorme divergenza da un lato fra la posizione di tutti i decisori ed i fedeli alla tradizione ebraica secondo cui, salve le eccezioni stabilite per salvare la vita della madre e pochissime altre, è da ritenere l'aborto assolutamente proibito, proibizione che rientrerebbe addirittura nel divieto generale del "non uccidere" e dall’altro lato la posizione assunta da quella parte della popolazione, che non considera la posizione della Torà ed agisce normalmente per ottenere i suoi scopi, talvolta usando l'aborto come un metodo di limitazione delle nascite.
In campo rabbinico abbiamo numerosi strascichi di questa discussione; per esempio fra i vari problemi che si presentano si pone quello della posizione dell'anestesista che prende parte ad un intervento di aborto volontario. Recentemente due decisori gerosolimitani sono arrivati, per diverse vie, alla conclusione che, a meno che non si tratti di uno dei casi di aborto permessi dalla Halachà, anche l'attività dell'anestesista è da considerarsi severamente proibita, come quella di un compartecipe ad una uccisione, appunto il feticidio[125].
Desidero ricordare due Responsa recenti: è noto il dovere biblico per i cohanim o sacerdoti, di benedire ogni giorno il popolo, secondo la formula stabilita nella stessa Bibbia[126]; da tale dovere sono esenti quei sacerdoti che abbiano causato la morte di una persona. Si è posto il quesito se fosse lecito ad un medico cohen che fece abortire una madre (non in uno dei rari casi permessi dalla Torà), benedire il popolo; la risposta del decisore è stata negativa: la Torà è fonte di vita e di benedizione; il medico ha fatto uso del permesso di curare che gli è stato concesso dalla Bibbia per causare la morte anziché per salvare la vita: egli ha quindi perduto il suo diritto-dovere di benedire il popolo[127].
Un secondo responso, del Rabbino Feinstein, riguarda il quesito rivoltogli da un ginecologo ebreo, che chiedeva se poteva procurare l'aborto ripetutamente richiestogli dalla sua paziente non-ebrea. La risposta del decisore (che apparteneva, come ricorderemo, alla scuola maimonidea) è assolutamente negativa; è proibito fare abortire anche una non-ebrea e la cosa rientra nel divieto generale dell'uccisione. Il medico ebreo domanda allora se il suo rifiuto a praticare l’aborto sulla paziente non possa a sua volta provocare antisemitismo? Anche qui il Rav Feinstein respinge decisamente ogni allusione: starà al medico che teme il Sign-re spiegare il motivo del proprio rifiuto e, anche fra i non-ebrei, non vi è chi non capisca che è proibito uccidere: anche in questo caso, comunque, l’aborto sarà acconsentito per salvare la vita della donna che sia in pericolo di vita[128].
L’aborto non è ammesso per risolvere problemi economici o semplici problemi di “comodo” della donna: il Rav Lichtenstein si è espresso a tal proposito parafrasando le parole di Byron: agiamo in questo modo non per mancanza di amore verso la madre, ma per maggior amore verso il nascituro.
Per concludere potrà essere interessante riportare uno dei motivi del dovere della procreazione riportato nel Talmud a nome di Ben Azhai, Saggio del II secolo ed applicato dagli interpreti anche alla proibizione dell’aborto: il venir meno al dovere della procreazione è considerato simile allo spargimento di sangue e diminuisce, per così dire l’immagine di
D-o, essendo l’uomo fatto a Sua immagine[129]. Dal punto di vista prettamente giuridico possiamo sostenere che il feto, anche se non arriva al grado di persona vera e propria, gode però di uno status superiore a quello di qualsiasi altra cosa: è stato infatti osservato che mentre la distruzione di sperma, considerata assolutamente proibita dalla tradizione ebraica, impedisce il nascere di una vita, l’aborto ne distrugge una.
A questo proposito si deve osservare che il passaggio di un feto (concepito normalmente), dalla madre biologica alla madre surrogata non è paragonabile, per la madre biologica, all’aborto dato che il feto prosegue a sussistere nel ventre della madre surrogata[130]. Il Rav Jakobovits conclude sinteticamente l’esame sull’aborto con queste parole: “L’opinione prevalente è quella che limita l’autorizzazione ai casi che comportano un pericolo per la vita della madre, sia fisico che psicologico (per esempio, violenza e suicidio). Mentre alcuni rabbini condannano la distruzione del feto, in ogni circostanza, come una sottospecie dell’omicidio, recentemente altri hanno esteso tale permesso a: (1) madri la cui salute sia gravemente in pericolo, (2) fondati timori che il bambino possa nascere con gravi menomazioni, e (3) casi di violenza carnale o incesto. Tali gravidanze dovrebbero essere interrotte entro i primi quaranta giorni o, quanto meno, entro i primi tre mesi”[131].
Una maggiore consapevolezza dell'importanza della vita permetterà anche a noi di avvertire gli embrioni nel ventre materno partecipare, come al tempo dell'uscita degli Ebrei dall'Egitto, alle lodi al Signore, e partecipare nuovamente al processo di redenzione, come si esprime il Profeta Geremia[132]:<>.

[1] Professor emeritus, The Hebrew University of Jerusalem; Professor of Law, Zefat Academic College.
[2] Salmi 68:27.
[3] T.B. Berachot 50a.
[4] Alla base di questo capitolo vi è il mio articolo pubblicato in Hebraica, Miscellanea di Studi in onore di Sergio J. Sierra per il suo 75 compleanno (a cura di F.ISRAEL, A.M.RABELLO, A.M.SOMEKH), Torino, 1998, pp. 443 ss. ed il capitolo omonimo pubblicato nel mio Introduzione al Diritto Ebraico: Fonti, Matrimonio e Divorzio, Bioetica, Torino, 2002, pp. 203 ss.
[5] Si veda E.G. ELINSON, L’embrione nella Halachà, in Sinai, 66, 1970, pp. 19 ss. (in ebraico); A. Steinberg, Fetus (‘ubar), in Encyclopedia of Jewish Medical Ethics, vol. 5, Jerusalem, 1996, pp.91 ss. (in ebraico).
[6] Lev. 19:18. Sull’interpretazione di questo verso biblico si veda A.M.RABELLO, L’interpretazione del Talmud babilonese e del Talmud di Eres Yisrael: il Midrash halakah, in La lettura ebraica delle Scritture, a cura di S.J. Sierra, Bologna, 1995, pp. 111 ss.
[7] Si veda il quarto comandamento, Es. 20: 8-11.
[8] Lev. 18: 5.
[9] Per lo stesso principio una persona ha il dovere di "santificare il Nome divino" anche a prezzo della propria vita quando si tratta di un periodo di persecuzioni a causa religiosa: in tal caso anche il benché minimo precetto biblico richiede di non essere trasgredito, anche a costo della vita. Si veda To. Shabbat 15:17 (ed. S.Lieberman, p. 75); T.B. Jomà, 85a-b; Sanhedrin 74a; si veda A.M.Rabello, Sui rapporti fra Diocleziano e gli Ebrei, in Atti dell’ Accademia Romanistica Costantiniana, Perugia, 1976, pp. 157 ss.
[10] Si veda per esempio l’opinione del Bahal Halachot Ghedolot e, di recente, quella del Rav Ch. Ozer Grodzensky, Responsa Achiezer, Even Haezer, 23 e di Rav Ovadia Josef, Abortion according to Halachà, in Assia, Original Articles Abstracts and Reports on Matters of Halachà and Medicine (ed. M. Halperin), in ebraico, vol. 1, pp.78 ss., 80 ss.
[11] Azione questa proibita normalmente nel giorno di sabato e permessa qui soltanto per salvare l’embrione.
[12] Della madre onde poter estrarre l’embrione e farlo nascere.
[13] T.B.Arachim 7a-b e cfr. Elinson, op. cit. p. 35; si tenga tuttavia presente che secondo alcuni ci troviamo in questo caso come davanti a un bimbo “che si trova in una scatola” (Tosafot a Niddà, 44a), oppure “ad una persona viva davanti alla quale si è chiusa la porta” (Ramban, Torat haadam).
[14] Num. 29: 7-11.
[15] Si confronti il testo della M. Jomà 8: 5: “Se una donna incinta sente odore (di cibo, e le viene da ciò il desiderio di mangiare), le si può dar da mangiare (nel giorno del digiuno di Kippur) finché ha soddisfatto il suo desiderio”. Rashì spiega che se la madre non mangiasse, sia lei, sia il feto sarebbero in pericolo. Si veda la discussione su questa problematica in Z.C.Rudman, Fetal Rights and Maternal Obligations, in The Journal of Halacha and Contemporary Society”, XII,1987, pp. 113 ss., in particolare 118 ss.
[16] Talvolta proprio i progressi della medicina impongono di essere più rigorosi; per esempio il Rav Sh. Zh. Auerbach ha stabilito che oggi, in cui è possibile curare la depressione post partum, non sarà più possibile permettere l’aborto nel caso in cui si teme la depressione della madre dopo il parto; Assia, 59-60, 1997, p. 12.
[17] Geremia 1: 4-5.
[18] Midrash Tehilim 58: 2.
[19] Gen. 25:22.
[20] Isaia, 4: 2 e 5.
[21] Proverbi 21: 26.
[22] Salmi 103:1.
[23] T.B.Berachot 10a. Tale passo talmudico è riportato come spiegazione del versetto, da Rashì nel suo commento al Salmo. Confronta anche il Salmo 139:13: <>; vv. 15 e 16:< (trad. M.E.Artom). Commenta Rashì, in loco, che il Santo e Benedetto ha visto tutti gli embrioni al momento della nascita del primo uomo, Adamo...
[24] T. B. Niddà 30b. Si veda la spiegazione del Rav J. Soloveitchik, Redemption, Prayer, Talmud Torà, in Tradition, 17,2,1978, p.69, secondo cui lo studio da parte del feto ha lo scopo di fornire la capacità di studiare una volta nato, trattandosi di qualcosa che una persona ha già studiato e si è dimenticata. Appare evidente l’influenza della scuola di Platone e la sua concezione sulla amnesis. Cfr. E.E.Urbach, The Sages. Their concepts and Beliefs, Jerusalem, 1979, pp. 242 ss.e 794 ss.con ampio esame delle fonti e di testi paralleli.
[25] I. Leibowitc, Embriologia, in Enc. Hebraica, vol.I (in ebr.); B.Brody, Abortion and the Sanctity of Human Life: A Philosophical View, 1975 e la recensione di S.Carmy in Tradition, 16, 1977, pp. 126 ss.; D.M.Feldman, Marital relations, Birth Control and Abortion in Jewish Law, New York, terza ed., 1978.
[26] T.B.Sanhedrin 72b; Sh.A., Ch. M. 425: 2.
[27] Gen. 9:6. Cfr. T.B. Sanhedrin, 57b.Cfr. A. Steinberg, Embryo/Fetus (‘ubar), in Id. Encyclopedia of Jewish Medical Ethics, vol. 5, Jerusalem, 1996, pp. 115 ss. Si tenga comunque presente che i versi della Genesi sono interpretati anche in un altro modo e cioè: “Chi versa il sangue dell’uomo, avrà il proprio sangue versato dall’uomo ...”.
[28] Così Rashì in T.B. Sanhedrin 72b.
[29] Per quanto riguarda il Diritto romano cfr. E. Volterra, Istituzioni di Diritto Privato Romano, Roma, 1961, p. 47 s.: “Alle applicazioni pratiche da parte dei giuristi sembra richiamarsi l’affermazione (forse aggiunta o per lo meno frutto di rimaneggiamenti dei compilatori giustinianei) che si legge in un passo attribuito a Giuliano, Digesto 1,5,26: Qui in utero sunt, in toto paene iure civili intelleguntur in rerum natura esse, passo che non si accorda con altri di Papiniano e di Ulpiano (D. 35,2,9,1; 25,4,1,1) secondo i quali il feto nondum editus homo non recte fuisse dicitur e deve considerarsi mulieris portio vel viscerum. Dai passi della compilazione e soprattutto dalla C. 5,27,11 di Giustiniano i giuristi medioevali hanno foggiato il celebre principio: conceptus pro iam nato habetur, che cioè il concepito si considera per finzione giuridica già nato, principio che non corrisponde certo al concetto romano”. Cfr. anche M. Talamanca, Istituzioni di Diritto Romano, Milano, 1990, p. 74 s.: “Ai fini dell’esistenza di una persona fisica... rileva esclusivamente il fatto della nascita: sebbene fisiologicamente necessario, il periodo della gravidanza non ha, sotto questo aspetto, importanza per il diritto”. Facendo riferimento a D. 1,5,26 osserva Talamanca che Giuliano fa applicazione della massima “soltanto al caso discusso, quello delle aspettative ereditarie. Dal punto di vista giuridico, non altro vuol significare la massima conceptus pro iam nato habetur, elaborata sulla base di questo passo e di altri simili dai giuristi medievali, i quali erano ovviamente sensibili anche al modo in cui il problema era sentito sulla base dell’ideologia cristiana”. Sul problema si veda anche B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano, Palermo, 1979, pp. 11 ss. ; P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino, 1990, pp. 169 ss.; Idem, “Vigenza dei principi del diritto romano riguardo ai <>, in A. Tarantino (a cura di), Per una dichiarazione dei diritti del nascituro, Milano, 1996, pp. 131 ss.
[30] Gen. 1: 27-28.
[31] Commento alla Genesi Beresit Rabba, trad. A. Ravenna, UTET, Torino, 1978, VIII, 13, p. 77.
[32] Es. 1: 22.
[33] Es. 2: 1.
[34] T.B., Niddà 31 a; T.J., Kilaim, 8: 4. Può forse essere interessante notare che proprio riferendosi a questi passi, un parlamentare israeliano ortodosso faceva presente che la moderna legislazione israeliana che esclude anche il padre dalla decisione sull'aborto, viene praticamente ad escludere due dei tre compartecipi alla creazione dell’uomo, lasciando praticamente la decisione soltanto la donna.
[35] T.B.,Sanhedrin 91a.
[36] Bereshit (Genesi) Rabbà; cfr. I.Jacobovits, Jewish Medical Ethics, New York, 1959, pp. 182 ss.
[37] La cosa viene discussa dagli studiosi, ma non ha importanza diretta per il problema che stiamo esaminando: sembra certo, comunque, che debba trattarsi di un imperatore che si interessava di problemi filosofici.
[38] Pekidà, letteralmente la visitazione cioè quando il seme dell'uomo viene ricevuto dalla donna. Si confronti, in Diritto romano, V. Arangio Ruiz, Istituzioni di Diritto Romano, 14 ed., Napoli, 1960, p. 47: “Il diritto classico ha riguardo al concepimento quando si tratti di stabilire lo status di un figlio nato da giuste nozze o la posizione ereditaria del figlio in confronto al padre...”; nel testo l’Arangio Ruiz concilia “la regola che richiede la nascita dell’uomo perché si abbia un soggetto di diritto” con l’affermazione che “qui in utero sunt, in toto paene iure civili intelleguntur in rerum natura esse”(D.1,5,26), affermazione che la tradizione scientifica ha tradotto nella massima “conceptus pro iam nato habetur” osservando che “le due espressioni sono approssimative: al feto non ancora nato non appartengono mai diritti ed obblighi, ne’ altri può pretendere di acquistare diritti per il tramite di un essere che visse soltanto una vita intrauterina. Vero è soltanto... che al concepito vengono riservati, specialmente in tema di successione, diritti che si fisseranno in lui quando nasca...”.
[39] Iezirà quando cioè incomincia a riconoscersi una certa forma umana, circa 40 giorni dopo l'inizio della gravidanza (oppure dall'ora della nascita, secondo la versione del Midrash).
[40] Letteralmente: avere cattivo odore, cioè non è possibile che l'embrione stia 40 giorni senza anima, così come vediamo alla fine della vita umana, quando uscita l'anima, il corpo è maleodorante!
[41] Libro di Giobbe, 10: 12.
[42] Pekudatchà, cioè lo spirito esiste in me dal momento in cui Tu mi hai visitato, essendo quindi il concepimento opera divina. Osserva G. Levi: “Rabbi ha ceduto al parere di Antoninus, ma inserendo il pensiero di Antoninus all’interno del pensiero della Torà,che lui ammette di non aver capito”, in Il Talmud, in Torà e filosofia. Percorsi del pensiero ebraico (a cura di D. Di Cesare e M.Morselli), Firenze, 1993, p.34. È da notare che questa è la posizione sostenuta dalla scuola pitagorica e che è stata sostenuta anche da Tertulliano e da Gregorio di Nissa, nel IV secolo.
[43] Sh.A. E.Ha. 13:1; cfr. B.Z. Schereschewsky, Embrio in M.Elon (ed.), The Principles of Jewish Law, Jerusalem, 1975, col, 432 s.
[44] T.B. Jevamòt, 41a-42a.
[45] T.B. Jevamòt,42a; cfr. O. Josef, Abortion, op.cit. p.91.
[46] Sh. A. Ch. M. 290:1 e v. B.Z. Schereschewsky, Embrio, op. cit. col. 433; J. Bazak, Lo status giuridico dell’embrione nella Halacha ebraica e nel diritto israeliano, in Sinai, 1996, pp. 217 ss.(in ebraico). Anche il diritto romano conosce il curator ventris; cfr. V. Arangio Ruiz, Istituzioni, op. cit. p.47; E.Albertario, Conceptus pro iam nato habetur, in Studi di Diritto romano,I, Milano, 1933, pp. 1 ss.
[47] Così per es. il Raavad.
[48] Così per es. il Rif e il Ramban.
[49] Riportato da A. Steinberg, Encyclopedia of Jewish medical Ethics, vol. II, Jerusalem, 1991 s.v. abortion, p.78 nt.159 e cfr. Tosafot a Sotà 26a.
[50] M. Bavà Batrà 9: 2.
[51] Si veda M.Morgenstern, The Halachic Status of the Unborn Child, in Idem, Halachic perspetive: Bio-medical Ethics Ohr Tsippora, New York, 1981, pp. 50 ss.
[52] T.B. Bavà Batrà 141b.
[53] Lett. provoca l'acquisto , cioe` in questo caso chi fa una donazioe a favore di un nascituro. Cfr. art. 784 C.C. italiano.
[54] Il nascituro, appunto.
[55] Il nascituro non ha acquistato la donazione non avendo ancora la capacità giuridica.
[56] Volendo dire con questo che la regola gli sembra discutibile.
[57] T.B. Bavà Batrà 141b - 142b; M.T. Regole sulla vendita, 22:10; Acquisto di donazione, 8:5; Sh.A. Ch. M. 210:1. Cfr. Gaius 1:147; Ulp. 22:19; Inst. I. 3:9. Si veda in particolare S.Rubin, Der nasciturus als Rechtssubjekt in Talmudischen and roemischen Rechte, in Zeitschrift fuer vergleichende Rechtswissenschaft, XX, 1907, pp. 119 ff. ; R.Yaron, Gifts in contemplation of Death in Jewish and Roman Law, Oxford, 1960, pp. 160 ss.
[58] T.B., Bavà Batrà 142a; Niddà 44a.
[59] Cosi vari autori, come Rif, Ritba a Jevamòt 67a; Beit Josef etc.
[60] Prima del quarantesimo giorno vi è chi considera l’embrione come semplice “liquido” (T.B. Jevamòt 69b; Niddà 30b); cfr. T.Dagi, L’inizio della vita: osservazioni basate su fonti Talmudiche e halachiche, in Segulat Israel, 1, 1993, pp. 51 ss.; J.Herzel-Henkin, L’aborto prima del quarantesimo giorno, in Assia, 59-60, 1997, pp. 133 ss. (in ebr.). Si confronti il De Animalibus 7:3 di Aristotele; a quaranta giorni il feto è riconosciuto come un parziale essere umano, secondo le parole del decisore Maharam Shick, Joré Deà No. 155: “This partial uman being, although considered by the Talmud (Arachin 7a) as being part of the body of the mother, personality apart from its mother”, come osserva M. Morgenstern, The Halachic Status of the Unborn Child,op. cit. p. 52. Tale posizione permette al decisore (ibidem) di considerare proibito il feticidio, anche se non punito con la pena di morte come l’omicidio; M. Morgenstern, ibidem, p. 55; J. Bleich, Contemporary Halakhic Problems (New York, 1977), pp. 325 ss.; D.B.Sinclair, The legal basis for the prohibition of abortion in Jewish Law, in Israel Law Review, 15, 1980, pp. 109 ss.; A. Steinberg, (Abortion), Hapalà, in Encyclopedia of Jewish Medical Ethics, vol. 2, Jerusalem, 1991, pp.47 ss. (in ebraico). Il termine di 40 giorni si trova anche nel Digesto di Giustiniano.
[61] Per il motivo della proibizione si veda Rav A. Lictenstein, A Halakhic Opinion, in Briut hazibur 27, 1974, pp. 495 ss.(in ebraico).
[62] Si veda G.B.Halibard, Abortion in Jewish Law: a recent Judgment, in Jewish Law Annual, III, 1980, pp. 139 ss.; si noti in particolare che non è assolutamente sostenibile in Diritto Ebraico che la donna sia padrona del proprio corpo, dato che anche il corpo umano appartiene a D-o Benedetto e non abbiamo diritto di usufruirne altro che nei limiti stabiliti dalla Legge divina; alla base di tale concezione è, ad esempio, la proibizione del suicidio, considerato come omicidio. È anzi da osservare che uno dei motivi della proibizione dell’aborto che troviamo nelle fonti ebraiche è proprio quello della proibizione della mutilazione del proprio corpo (come viene definito l’aborto stesso) in quanto appartenente a D-o: T.B. Bavà Kamà 90b e M.T. Hilchot Chovel umazhik 5: 1.
[63] Si veda per la prima opinione T.B.Ghittin 23b e per la seconda T.B. CChulin 58a,74b e si veda A.Aptowitzer, La posizione del feto nel diritto penale ebraico, in Sinai, 11, 1942, pp. 9 ss. (in ebraico).Una discussione parallela abbiamo fra i filosofi greci; Platone sostiene l’autonomia del feto, mentre la scuola della Stoa sostiene che il feto è parte del corpo materno.
[64] Per un esame del diritto di Hammurabi, degli Hittiti e degli Assiri cfr. M. Weinfeld, The Genuine Jewish Attutude towards Abortion, in Zion, 42, 1977, pp. 129 ss. (in ebraico); R. Yaron, Il feto nella Bibbia e nelle leggi dell’Oriente Antico in The Essence and Value of Life. A Symposium of the Departement of Bible, The Hebrew University of Jerusalem, (ed. by L. Mazor), Jerusalem, 1991, pp. 77 ss. (in ebraico).
[65] Rashì, che riporta l’opinione tradizionale, commenta: L’uno con l’altro e l’uno voleva colpire l’altro e invece colpì la donna.(trad. S.J.SIERRA e così anche nelle citazioni successive).
[66] Rashì: Qui “colpire” ha il senso di dare una spinta e percuotere, come <<affinché il="" tuo="" piede="" non="" urti="" su="" alcuna="" pietra="">> e <> e <>.
[67] Rashì: Alla donna.
[68] Rashì: A pagare al marito il risarcimento per l’aborto procurato in modo corrispondente ai futuri nati. Si stima il valore della donna come se fosse stata venduta come schiava, accrescendone il valore stesso per il fatto che ella era incinta.Sia condannato – Esigeranno da lui del denaro.
[69] Rashì:Quando il marito richiederà in tribunale il pagamento del risarcimento.
[70] Rashì: Colui che ha colpito pagherà il valore del bambino perduto come decideranno i giudici.
[71] Rashì::Nei confronti della donna [ cioè se morirà la donna].
[72]Rashì: I nostri Maestri sono discordi nell’interpretare al riguardo; c’è chi sostiene che si deve intendere proprio la persona, ossia la vita della persona, ed altri invece sostengono che si deve pagare un risarcimento in denaro e la norma non va intesa letteralmente.Infatti quello intendeva uccidere una persona e, involontariamente, ne ha colpito un’altra ed è quindi esente dalla pena di morte; pertanto paga agli eredi il risarcimento, stimando il valore da liquidare, come se la persona dovesse essere venduta al mercato degli schiavi [T.B. Sanhedrin 79a].
[73] Es. 21:22-23; si veda M. Elon, Abortion, in Encyclopaedia Judaica, 2,1971, 98 ss. È interessante notare che l’opinione talmudica, a cui facciamo riferimento nel testo, viene accolta come interpretazione genuina del passo biblico da numerosi studiosi moderni che si sono occupati del problema; si veda: S.E. Loewenstamm, Exodus 21: 22-25, in Vetus Testamentum 27, 1977, pp. 352 ss.; M. Weinfeld, The Genuine Jewish Attitude towards Abortion, op. cit.; Sh. M. Paul, Studies in the Book of the Covenant in the Light of Cuneiform and Biblical Law, 1970; si veda invece, in senso differente, B.S.Jackson, The Problem of Exod. 21: 22-25 (Ius Talionis), in Vetus Testamentum, 27, 1977, pp. 352 ss.; R. Westbrook, Lex talionis and Exodus 21: 22-25, in Revue Biblique, 93, 1986, pp. 52 ss.
[74] Septuaginta, Es. 21: 22-25 (nella traduzione italiana di E. Nardi): "Se due uomini combattino e urtino una donna incinta, e la sua creatura venga fuori non formata, si pagherà una penale: come abbia imposto il marito della donna, darà secondo stima; se invece era formata, darà anima per anima...". Cfr. M. Weinfeld, The Genuine Jewish Attitude, cit. La versione dei Settanta, del terzo secolo a.E.V., si rifà forse ad una tradizione ebraica alessandrina, e distingue a seconda del grado di formazione del feto, traducendo ason con forma (sarà la distinzione ripresa dal padre della Chiesa Agostino, fra embryo informatus e embryo formatus: Quaestiones in Exodum, 80; anche Tertulliano accetta la versione dei Settanta, mentre Gerolamo accetta la versione corrente in Palestina, traducendo come la tradizione talmudica. Cfr. V. Aptowitzer, The Status of the Embryo in Jewish Criminal Law, in Jewish Quarterly Review, 15,1924, p. 85 (riprodotto in Studies in Jewish Jurisprudence, 2, New York, 1974); a proposito della traduzione dei Settanta osserva Aptowitzer: “Thus the rabbinic conception of the passage proves to be the only correct one and in agreement with the primitive tradition which reaches as far as the Pentateuch and beyond it to Abraham - in fact to the origin of Israel and to primitive Semitic tradition, while the view expressed in the Septuagint must be designated as a later tendency, which in addition is not genuinely Jewish but must have originated in Alexandria under Egyptian-Greek influence”. Si veda anche la posizione della Didachè, che fa una differenza fra la proibizione di distruggere il feto e quella di uccidere il neonato: "non ucciderai la prole con aborto né farai perire il nato"(trad. Nardi). Secondo G. Alon la Didaché assume una posizione polemica contro la Grecia e Roma: Studies in Jewish History in the times of the Second
Temple, the Mishna and the Talmud, vol.I, Tel Aviv, 1967, p. 279 s.(in ebraico).
[75] De Spec. leg. 2:19; 3:108-109, 117. Sulla posizione di Filone si veda S.Belkin, Philo and the Oral Law, Cambridge, Mass.,1940; E.E.Urbach, The Sages. Their concepts and Beliefs, Jerusalem, 1979, pp. 242 ss.e 794 ss..
[76] Sulla problematica riferentesi a tale parola si veda R. Yaron, Il feto nella Bibbia e nelle leggi dell’Oriente Antico in The Essence and Value of Life. A Symposium of the Departement of Bible, The Hebrew University of Jerusalem, (ed. by L. Mazor), Jerusalem, 1991, pp. 77 ss. (in ebraico); v. anche E. Otto, Krperveletzungen in den Keilschriften und im Alten Testament. Studien zum Rechtstransfer im Alten Orient, 1991.
[77] Il Midrash Mechilta deRabbi Ishmael, Mishpatim, 8 all’Es., 21:23 interpreta, come abbiamo visto nel commento di Rashì; “non vi è asòn altro che con la morte” .
[78] Es. 21:12. È comunque da notare, come ha sottolineato già Rashì, che anche sull’interpretazione di “vita per vita” i Saggi sono divisi; trattandosi del caso che una persona uccida involontariamente la donna (avendo invece voluto uccidere un altro) vi è chi sostiene che l’uccisore sia in ogni caso passibile della pena di morte, e chi invece sostiene che in tal caso sia passibile di una pena pecuniaria. Secondo R. Yaron, op. cit. p. 92, nel periodo biblico si tratta di pena di morte.
[79] Mechiltà deRabbi Shimon Bar Yochai, ed. Hofmann, p. 129.
[80] Secondo la Mechiltà deRabbi Ishmael, Mishpatim, 8, ed. Horowitz.
[81] Si veda Antiquitates J. 4:278; Contra Apionem, 2:24; tuttavia egli è stato senz’altro influenzato anche dai Settanta; cfr. S. Belkin, The Alexandrian Halakha in Apologetic Literature of the Firtst Century C.E., Philadelphia, 1936 (repr. 1971); G.Vermes, A Summary of the Law by Flavius Josephus, in Novum Testamentum, 24,1982, pp. 289 ss.; J. Flavius, Antiquitates Judaicae, con traduzione, introduzione e note di A. Schalit,(in ebraico), vol. II, Gerusalemme, 1967, p.88 nt. 173; J. Flavius, Against Apion. A New Hebrew Translation with Introduction and Commentary by A.Kasher, Jerusalem, 1996, vol.II, pp. 491 ss. Vi è chi ha voluto vedere nella posizione di Giuseppe Flavio, che parla di “uccisione dei feti” una indiretta polemica con il mondo ellenistico e romano: si veda per es. Hecataeus di Abdera (in Diodoro Siculo, Biblioteca Historica, 40:3:8) ed il commento di M. Stern, Greek and Latin Authors on Jews and Judaism, vol.I, Jerusalem, 1974, p.33 s.; Tacitus, Historiae, 5:3 ed il commento di M.Stern, ivi, vol.II, Jerusalem, 1980, p.41; solo nel secondo secolo l’aborto viene espressamente condannato dalla legge, Digesta 48.19.38.5. Si confronti la posizione di Tertulliano, Apologeticus, 9.6 ss. Sul problema dell’esposizione degli infanti nel Diritto Romano si veda: A.M.Rabello, Effetti personali della patria potestas. Dalle origini al periodo degli Antonini, Milano, 1979 (nell’indice, s.v. expositio); sul problema dell’aborto si veda E. Nardi, Procurato aborto nel mondo greco-romano, Milano, 1971. Per il risarcimento in denaro nel caso di procurato aborto v. Digesto 9.2.27.2 di Ulpiano che riporta l'opinione di Bruto, giurista del II secolo a.E.V. (su cui Nardi, op.cit. p. 190).
[82] Si vedano le conclusioni a cui giunto M.Weinfeld, nel suo The Genuine Jewish attitude, op. cit. p. XV s. del Sommario in inglese: “The difference between the Jewish and Hellenistic views of abortion seems to lie in their different attitude towards the life of an individual as a value. Abortion in the pagan world is mainly a sin against state and society (loss of manpower and the strength of the community) whereas the Jewish legislator cares about the religious-moral meaning of murder:the term murder applies to a living creature and not to a foetus which is a part of its mother’s body. The view of the pagans concerning infanticide may be learned from their attitude towards exposure of children. Contrary to the rigid approach towards abortion, we encounter complete lawlesness in respect to exposure and especially the exposure of crippled children. This shows that the motive force concerning abortion and infanticide was mainly social-political and not religious-moral at it was amongst the Jews and later amongs the Christians”.
[83] Si veda la Mishnà di Niddà, 5:3: “un bimbo di un giorno, ...chi lo uccide è passibile di pena”.
Sul valore dei Responsa sul problema dell’aborto, si veda R.Erusi, Abortion- Theory and Practice in the Halacha, in Dine Israel, 8, 1977, pp. 119 ss. (in ebraico); si veda in generale D.B.Sinclair, The Legal Basis for the Prohibition on Abortion in Jewish Law (with some comparative reference to Canon, Common and Israeli Law),in Annual of Jewish Law, 5, 1978, pp. 177 ss.(in ebraico); M. Halperin, La medicina moderna allo specchio della Halachà”, s.d.
[84] Ben keyamà.Tale decisione è basata su fonti midrashiche e talmudiche, come ad es.. Mechilta, Mishpatim, parashà 4; Sifré Emor,20:1. Cfr. Filone, De Spec. leg. 3:20. V. glossario.
[85] T.B. Sanedrin 57b.
[86] Gen. 9: 6.
[87] T.B., Sanhedrin 59a; Chulin 33a; sulla proibizione di uccidere il feto si veda Tossafot in loco. Sul valore dei precetti Noachidi, “da Adamo a Noè, anche dopo la rivelazione mosaica, si veda J. Halevi, Hacuzari, 1, 83 alla fine.
[88] Cfr. per es. Rav A. Lictenstein, A Halakhic Opinion, in Briut hazibur, 27, 1974, pp. 496-7 (in ebraico) che sostiene che la proibizione, punita con la morte, si applica dal sesto mese in poi.
[89] Su Es. 1: 22.
[90] Ad Ex., ed. Warsaw, 3b.
[91] Ohalot o delle tende, con le regole sulla purificazione e sulla non-purificazione, 7:5. Si veda la stessa posizione sostenuta nella prima parte della Mishnà presso il padre della Chiesa Tertulliano, De anima, cap. 25.
[92] Rashì a Sanhedrin, 72b; si veda anche il commento di A. Enker, Tre sistemi per spiegare il razionale della legittima difesa nel Diritto Ebraico, in Plilim, 2, 1991 (in ebraico); brani di tale articolo sono riportati anche da E. Shochetman (a cura di), Diritti del cittadino, 7, Gli aborti provocati, s.d.pp. 13 ss.(in ebraico); v. anche D. Frimer, The right of sel-defence and abortion in Maimonides as Codifier of Jewish Law (ed. N.RAKOVER), Jerusalem, 1987, pp. 195 ss., in particolare pp. 210 ss. Frimer traduce nefesh con being. Secondo alcune autorità anche se la maggior parte del feto è venuta alla luce, la stessa madre (ma non un terzo) può salvare la propria vita provocando la morte del feto/neonato (così il grande commentatore Meiri, il cui commento talmudico si trova in manoscritto alla biblioteca Palatina a Parma ).
[93] Maimonide, M.T. Hilchot Rozeach (regole sull’omicida) 1:9; l’opinione del Maimonide sarà seguita da R. Joseph Caro nel Schulchan Aruch , Ch.M. 425:2; riportiamo il testo del Maimonide in traduzione inglese: “This too is a Divine command in a negative form: that one must not have compassion on the soul of the rodef. Therefore the Rabbis taught that if a pregnant woman is in difficult childbirth it is permitted to cut up the embryo in her womb, wether by potion or by instrument in the hand, because it is as if it were a rodef after her to kill her. But once his head has been delivered, one may not harm it, since we do not set aside one soul for the sake of another as this is nothing more than the natural way of the world.” La posizione del Maimonide ha destato lunghissime discussioni: fra l’altro si è cercato di arrivare a spiegare una certa incoerenza interna fra la prima e l’ultima parte del passo. Si veda anche il commento di A. Enker, “Tre sistemi per spiegare il razionale” op. cit. Può essere interessante notare come il problema della legittima difesa sia stato trattato anche dal Papa Pio XI nell’Enciclica Casti Connubii, paragrafo 64; il Papa respinge la possibilità di usufruire di questo argomento, in base alla concezione che l’embrione sia da considerare in tutto come una persona umana. v. anche D. Frimer, “The right of sel-defence and abortion” op. cit. p. 215.
[94] Resp. Torat Hesed, 2, Even ha-Ezher, 42, no.16-17 (di Rav Shneur Zhalman di Lublino); Sidre Taharot, Ohalot, 123a-123b; Rav C. Soloveitchik, Chidushé Rabenu Chaim Halevi to Mishne Tora, Rozeach ushmirat hanefesh 1:9; D.Frimer, Self-Defense and Abortion, op. cit. pp. 211 ss.: “In Jewish Law a fetus, while considered human life, is not a total human being. The mother, however, is very much a human being. This status of ‘being’ clearly augments the legal standing of the mother’s life itself. As such, between the mother and the fetus, there is no doubt which life is the higher interest”(p.212).
[95] Responsa Chavat Yair, 31.
[96] 1:4. Si veda anche la Tosefta Arachim, 1:4; T.B. Arachim, 7a. Si tenga presente che, non essendo praticata la pena di morte da tribunali rabbinici fin dal primo secolo prima dell’E.V., la discussione si presenta come teorica. Cfr. anche V. Aptowitzer, La posizione del feto nel diritto penale ebraico, op. cit.; E.E.Urbach, The Sages. Their concepts and Beliefs, Jerusalem, 1979, pp. 242 ss.e 794 ss. Per una posizione diversa in diritto romano si veda Digesto 1.5.18, D. 11.8.2 e Pauli Sententiae 1.12.4(5): "Le gravide non possono essere torturate né condannate (a morte) se non a parto avvenuto" e D. 48.19.3. Secondo il Nardi il motivo è da trovarsi nella protezione della spes patris, Procurato aborto, op. cit. p.428 s. ,443.
[97] V. glossario.
[98] Deut., 22:22 e T.B. alla Mishnà surriportata.
[99] Posizione, questa, simile al diritto romano, come abbiamo notato in nota 95.
[100] Si vedano in particolare Maimonide, M.T.Hilchot Rozeach, 1:9; Schulchan Aruch, Ch.M. 425:2, citati sopra.
[101] Così il ferrarese I. Lampronti nella sua Enciclopedia di Halachà Pachad Izchak s.v. Nefalim.
[102] Responsa Maharit, pt.I n.97 e 99, su cui si veda G.B.Halibard, Abortion op.cit. p.153 nt.58.
[103] Responsa Sceelàt Yavez, 1:43 di R. Jaakov Emden.
[104] Mishpeté Uzhiel, 3:46 e 47.
[105] Mishpete Uzhièl, 3.46.
[106] Mima’amakim (=Responsa De profundis) No.20.
[108] In questa posizione si veda R.J.Emdin (1698-1776), importante saggio ashkenazita del XVIII secolo, nel suo libro di Responsa Sheelàt Yavez, 1:43. Tale risposta è stata studiata ed accolta dal Rav Eliezher Jehudà Waldenberg, Responsa Ziz Eliezher 9:51 sostenendo che in tal caso l’elemento per permettere l’aborto si trova nella necessità di agire per il bene della madre, per salvarla dalla vergogna dell’adulterio: non vi è maggior dolore per una donna che si è pentita del suo malfatto di avere sempre davanti a sè il frutto del suo adulterio, in condizione di mamzher. Per tale motivo il decisore è disposto a permettere l’aborto anche quando la donna è stata violentata. V. anche N. RAKOVER, Human Dignity in Jewish Law, Jerusalem, 1998, p. 136 (in ebraico).
[109] Riportato da A. Steinberg, Encyclopedia, op.cit.,vol.II, p.87, n.212.
[110] Si veda A. Steinberg, Encyclopedia, op.cit.,vol.II, p.87 nota 213, con il permesso del Bet Jehuda, e nota 214 con l’opposizione del Rav O. Josef, Jabia Omer, parte 4.
[111] Il Rav Unterman ritiene che come si è arrivati a permettere la trasgressione del sabato, per salvare la vita dell’embrione, che un giorno sarà una persona e potrà osservare il Sabato, e come si è applicato a loro la Mishnà che stabilisce che “chi salva una persona è come se salvasse un mondo” cosi bisogna tener presente il futuro anche quando si viene a trattare dell’aborto, e bisogna essere assai rigorosi: I. Unterman, Noam, 6,pp. 7 ss.; si veda anche Sheelàt Yavez,citato nella nota 107, che parla dell’embrione come di “una persona viva in potenza”; cfr. E.G.Elinson, L’embrione op. cit.p. 32.
[112] Per es. Rav Waldenberg, autore dei Responsa Ziz Eliezher, decisore dell'ospedale a tendenza religiosa Shaare Zedek a Gerusalemme che segue l'opinione di Rashì che abbiamo sopra esaminato.
[113] Per esempio in caso che la donna incinta abbia contratto la rosolia l’aborto è stato considerato permesso solo se la malattia mette in pericolo la vita della madre: cosè B.Beck, la cui opinione viene riportata in Assia, 14.4, 1995, p. 114; il Rav Waldenberg invece lo permette anche in caso di pericolo per il futuro bambino, entro i primi tre mesi.
[114] Cosè il Rav Waldenberg; in posizione contraria v. invece il Rav Sh. Zalman Auerbach, in Assia, 59-60, 1997, p. 12.
[115] Riguado alla amniocentesis è stato sostenuto da B. Beck che essa rende l’aborto ammissibile nei primi tre mesi di vita, mentre dopo tale periodo l’aborto è proibito.Tale opinione viene riportata in Assia, 14.4, 1995, p. 114.
[116] Cosè il Rav Sh. Zh. Auerbach, Assia, 59-60, 1997, p. 13.
[117] Cfr. Rav I.Zilberstein; il Rav SH. ZH. Auerbach fa notare che bisogna contrallare se oggi non si siano trovati mezzi di cure adatte, per curare la depressione post partum; in caso di risposta affermativa l’aborto non sarà più permesso, ibidem, p. 12.
[118] Cosi il Rav I. Unterman, Noam 6, 1963, pp. 1 ss. e il Rav I. Zweig, Noam, 7, 1964,pp. 36 ss.; cfr. M.Elon, Abortion, in Id. The Principles of Jewish Law, Jerusalem, 1975, col. 484 s.
[119] Cosi il Rav Zweig, citato nella nota precedente, mentre il Rav Unterman respinge questa distinzione. È evidente che chi ha riguardo al risultato finale, come il Rav Unterman, sarà assai intransigente nel permettere l’aborto, mentre chi ha riguardo alla situazione attuale del feto sara disposto a fare una differenza a seconda che ci si trovi nei primi quaranta giorni, in cui il feto è considerato soltanto liquido (essendo quindi più facile concedere l’aborto) o dopo.
[120] Responsa Ziz Eliezher, parte 9:51, porta 3, art.15.
[121] Deut. 30:19.
[122] Si veda A.M.Rabello, L’interpretazione del Talmud babilonese op. cit. pp. 121 ss.
[123] Gen. 9:6.
[124] D. Bleich, Test-Tube Babies, in F.Rosner & D. Bleich (editors), Jewish Bioethics, New York, 1979, pp. 80 ss.; si vedano le opinioni del Rav D. Halevi e del Rav M. Elihau riportate in Assia, 14.4, 1995, p. 115 e del Rav AUERBACH, ibidem, 15.3-4, p. 12; M. ELIHAU, La distruzione dell’ovulo fecondato e diradamento di embrioni, in Techumin, 11, 1990, pp. 274 ss..
[125] Cfr. Rav Nebenzal, Rav Neubert, in Assia n.8,
[126] Num. 6: 22.
[127] Si noti però che il Ridbaz, di fronte ad un quesito simile, abbia dato una risposta differente.
[128] Rav M. Feinstein, Medical Halachic Problems, in Techumin, Research Articles concerning Torà, Society and State, vol. 5, 5744 (1984) pp. 223 s.; D.M.Maier, Abortion and Halakha: New Issues, in Dinè Israel, VII, 1976, pp. 137 ss.
[129] T.B. Jevamòt 63b ed i commenti in loco.
[130] Cfr. A. Rosenfeld, Generation, gestation and Judaism, in Tradition, 12,1, 1971, pp. 78 ss.
[131] In Bioetica e grandi religioni op. cit., p. 47.
[132] Geremia 31:7.

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