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MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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Pre Festival di Bioetica 2024

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Video incontri e convegni dell'Istituto Italiano di Bioetica

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Monsignor Mario Canciani

Nell’arca di Noè

PRESENTAZIONE

Uomini come Monsignor Canciani appaiono raramente e compongono quella piccola pattuglia di Teologi che,come Paolo De benedetti, padre Luigi Lorenzetti e Padre Nazareno Fabretti sno uomo di straordinaria compassione e di amore verso gli Animali,così totale da imbarazzare molti che lo preferivano nell’ombra. Le sue argomentazioni storiche, archeologiche e teologiche sono così efficaci da non poter essere criticate, forse è per questo che è stato più facile, per alcuni, utilizzare l’arma dell’oblio, del dimenticatoio
Ringrazio la Biblioteca Bhaktipedia Italia, che ci ha concesso di pubblicare sulle pagine dell'Istituto Italiano di Bioetica, questo prezioso libretto, con la preghiera a chi ama la Teologia degli Animali, di leggerlo e diffonderlo,perche' di fronte ad una possibile catastrofe cosmica, ci salveremo tutti, uomini ed animali, se saliremo insieme, in una vera solidarietà, su questa nuova “Arca di Noè”, che è il pianeta Terra.

GianfrancoNicora

IL FUOCO E IL CALICE

Lo storico tedesco Franz Susman, studioso dei rapporti Chiesa-Animali, è venuto da me con l’amico Bruno Mertens, creatore di un singolare Centro di riflessione buddista. Mi ha raccontato un sogno che sua moglie Gabrielle, particolarmente dotata di capacità sensitive, avrebbe avuto recentemente.
Come in una visione ha veduto un enorme fuoco, che poi ha interpretato come la gran sofferenza degli animali. Il mezzo offerto dall’alto per estinguerlo: un calice misterioso che rappresentava la Chiesa.
“Ciò che lei sta facendo, come abbiamo letto nei giornali tedeschi – mi ha detto il mio amico professore – è l’inizio di questa grande opera di liberazione da parte della Chiesa”.
Le mie iniziative a favore degli animali sono troppo modeste per meritare questa lode. Rimane vero invece che la Chiesa ai nostri giorni è chiamata anche a questo grande compito.
Che cosa può fare la Chiesa? I biblisti debbono chiarire il senso profondo dei primi capitoli del Libro della Genesi, contro alcune affrettate interpretazioni della Bibbia.
I teologi devono accogliere l’invito di Giovanni Paolo II nella “Sollecitudo rei socialis” a studiare un nuovo rapporto uomo-animale.
Devono ristudiare riguardo a questo problema, i documenti del Magistero e dei Concilii, le testimonianze dei Padri della Chiesa ed il comportamento dei Santi, in particolare di San Francesco, la teologia medievale, la filosofia cristiana, ma anche il contributo del pensiero laico.
I parroci e gli altri sacerdoti, nella predicazione e nella catechesi specialmente ai fanciulli, non possono più dimenticare di inculcare il rispetto, la protezione, la cura degli animali, di questi “nostri fratelli più piccoli”, come li chiamava il “poverello di Assisi”.
Gli animalisti di ogni credenza sono riconoscenti per i ripetuti interventi che Giovanni Paolo II va facendo, da un po’ di tempo, a favore del valore degli animali.
A Valencia, in Spagna, dove sono stato chiamato per commentare le parole del Papa sul “soffio divino” presente anche negli animali e non soltanto nell’uomo, mi è stato domandato bruscamente se questo non sia una specie di marketing da parte della Chiesa. In Italia, più rozzamente, è stato scritto che “il Papa si è tinto di verde”.
C’è da osservare che la Chiesa deve parlare all’uomo di oggi leggendo, come affermava Papa Giovanni XXIII, i “segni dei tempi”. La spiegazione ci viene data dal Leky, che nella sua “Storia della morale in Europa”, scrive: “All’inizio l’atteggiamento benevolo riguarda solamente il nucleo familiare, poi il cerchio si espande e include dapprima una classe, poi una nazione, poi un insieme di nazioni, infine tutta l’umanità; da ultimo il suo influsso si fa sentire nel rapporto dell’uomo con il mondo animale…”.
Gli studi e le nuove conoscenze a livello planetario suscitano oggi, specialmente nei giovani, un interesse nuovo che favorisce questo passo finale nell’espansione del cerchio etico.
In modo assai diverso sono in molti, dentro ai partiti o nelle leghe, a prendere parte alla lotta per la liberazione animale. Questo fenomeno completamente nuovo, traccia un orizzonte morale al di là della nostra specie e crea una tappa significativa nello sviluppo dell’etica umana.
Anche nella Chiesa non si è più così certi di alcune posizioni esageratamente antropocentriche. Siamo in diversi, ormai, ad esplorare le debolezze nascoste in molte convinzioni etiche che ci sembravano a prima vista evidenti. Il Cristianesimo non è una religione del particolare, di un sapere tronco ridotto in schegge. Il Vangelo ha una sua dimensione dichiaratamente planetaria di fronte alla Creazione.
Ci domandiamo con pena perché il Concilio Vaticano II e le correnti ecologiste cristiane non abbiano ancora raccolto i frutti di questo particolare ecumenismo cosmico. Culturalmente ciascuno, in questa società pluralista, si fa un’idea personale del posto che occupano gli esseri che fanno parte della natura. La protezione viene spesso sottoposta a valutazioni arbitrarie.
Qualche legislatore ha definito il cane come “oggetto semovente”. Anche chi ha cercato di correggere questo eccesso meccanicistico, lo ha fatto con imprecisione e variabilità. Per lo più è sempre assente un concetto definito di ordine spirituale.
L’animale non ha diritto ad una definizione di valore fondata sulla fede e sulla scienza? L’assenza dei cristiani in questo campo è un arroccamento su una cultura arcaica che polarizza l’uomo su se stesso a spese dell’ambiente.
Anche i laici hanno apprezzato i recenti interventi di Giovanni Paolo II a favore degli animali. Nella Chiesa non tutto è stato ancora approfondito e compreso. Il credente deve rinnovare la coscienza del suo ruolo e del senso di responsabilità che deve avere nel mondo. C’è un gran cambiamento da fare, e non senza una previa ricerca teologica e biblica.
L’esplorazione di tutte le dimensioni della vita, l’approfondimento spirituale del senso dei nostri rapporti con la totalità dei viventi, l’invito a porre fine a certi trattamenti abominevoli inflitti agli animali, saranno alcune grandi ricchezze del cristianesimo di domani.
Il messaggio ancora disatteso che viene dal Concilio Vaticano II, dice stupendamente: “L’uomo può e deve amare le creature di Dio. Da Dio le riceve e le guarda e le onora come se al presente uscissero dalle mani di Dio”.

LA LUNGA NOTTE

“E Dio vide che era cosa buona” afferma il Primo Libro della Bibbia, la Genesi, dopo ogni singola creazione della realtà del cosmo. I redattori della fonte sacerdotale, che scrivono nel secolo V circa a.C. all’epoca dell’esilio, non sospettavano che la creazione fosse avvenuta in un altro modo.
Quando eravamo ragazzi, sul frontespizio delle nostre Bibbie c’era una data: l’anno 4004 a.C. dalla creazione della terra. Non so con quali argomenti l’arcivescovo Usher nel seicento, l’avesse potuta fissare. Altri, compresi gli Ebrei, ne assicuravano date diverse, con eguale pretesa di precisione.
Con argomenti ben più convincenti, gli studiosi parlano oggi di quattro miliardi e mezzo di anni. Gli uomini di Chiesa più colti si vengono a trovare così di fronte a una situazione che richiede nuovi approfondimenti e una lettura diversa della Bibbia.
Dopo un lungo sonno, dovranno trascorrere milioni e milioni di anni perché la lenta evoluzione della specie possa aprirsi allo psichismo, al perfezionamento del sistema nervoso, alla coscienza totale dell’uomo, l’ultimo parente di una generazione quasi infinita.
Ingegnosamente, per cogliere tutta la lentezza di questa elevazione verso il più perfetto, alcuni autori hanno inventato uno schema ben noto. L’età della terra, quattro miliardi e mezzo di anni, può essere ridotta a un anno. Da gennaio a novembre, durante l’era precambriana, c’è il silenzio cosmico e nessuna traccia di vita.
L’uomo appare l’ultimo minuto del 31 dicembre. Appena due settimane fa sono comparsi i dinosauri, morti da sei giorni. Si sono sbranati fra di loro e i musei etnologici ne registrano la tragedia.
In un museo londinese è ben visibile la testa di un dinosauro, frantumata con i grandi denti spezzati da un avversario più forte di lui. Nel fango, oggi pietrificato, è constatabile l’impronta di molte agonie. Dice bene Michel Damien:”I fossili sono i bassorilievi che raccontano sulla cattedrale della vita la storia dell’amore sconfitto”.
Se la Bibbia è una scrupolosa interpretazione religiosa dichiaratamente teologica dell’apparizione della vita sulla terra, come spiegare questa lunga carneficina che si è consumata in millenni di tragedia, come ci viene descritta dagli scienziati? Dio dov’era?
Una cosa è certa: c’è una traiettoria della natura, il proposito di andare sempre più avanti. A prezzo di camminare su montagne di corpi, essa tende a salire sempre più in alto. Adesso sappiamo che il percorso vincente fatto da un pesce in un labirinto, si trasmette geneticamente nella memoria dei pesci che lo hanno mangiato.
Nella carneficina della preistoria non c’è il caos. Se le variazioni biologiche fossero a caso, non potrebbero essere oggetto di scienza. Se possiamo stabilire l’epoca cui appartengono le diverse strutture, e distinguere le specie tra migliaia di altre, se soprattutto l’evoluzione non si è verificata in frange staccate, è segno che questa carneficina obbedisce ad un disegno.
Trasmettere la vita, così semplicemente, non importa a quale prezzo o in che condizioni, purché altri esseri continuino a vivere con maggiori informazioni ed esperienze: questo è stato il compito di un innumerevole esercito di animali dalle forme più svariate, ed è stato il motivo della loro esistenza. Inutile domandarci se Dio poteva organizzare il mondo diversamente. Avremmo la stessa risposta data ai perché di Giobbe: “Dov’eri tu quando creavo le stelle?”.
Eppure queste creature, come scrive i Damien, “vissero momenti di riposo e provarono il desiderio di avvicinarsi ad un altro essere, non per stritolarlo ma per stringerlo voluttuosamente; sentirono il caldo del sole e il freddo dell’inverno, la stanchezza della vecchiaia, quando avevano la fortuna di battersi abbastanza per arrivarci”.
Il disegno dell’evoluzione prevedeva le tecniche di difesa: la corazza e la coda a forma di clava per l’anchilosauro, i quasi duemila denti dell’iguadonte che rispuntano quando vengono spezzati, la forma affusolata dei pesci che favorisce la rapidità del nuoto, le onde di disturbo scoperte dal Branly nel moscerino per dirottare il pipistrello con il suo radar.
Nessuna creatura, nascosta in un angolo di foresta o in una laguna, è dimenticata da Dio.
Certo, i suoi disegni ci sono nascosti; ma si dovrà rivedere il ruolo assegnato dalla Bibbia al Creatore, dato che egli ha esplicitato la sua Onnipotenza in un modo diverso, e non secondo gli schemi ovviamente simbolici mediorientali.
Sicuramente bisognerà ridimensionare il concetto dell’uomo: egli è l’erede delle grandezze e delle miserie del passato, comprese quelle di un mondo animale a cui è legato strettamente dall’insieme cosmico della vita. “Ciascun uomo – ha scritto scherzosamente Oliver Holmes – è un autobus, sul quale viaggiano tutti i suoi antenati”.

SIMBOLI E ARCHETIPI

Ogni cosa, in quanto tale, è un frammento. E’ abbandonata nella sua individuazione. E’ staccata da tutte le altre. E’ chiusa nei suoi confini. E’ soltanto questo, e non tutte le altre cose. Come allora può essere ricondotta alla fonte universale da cui è stata tratta, ed essere la trasparenza nel mondo?
L’uomo, scrive Erich Fromm, è stato a ragione definito un animale che crea simboli, perché senza la nostra capacità di parlare, a malapena potremmo essere chiamati uomini. La vita non potrebbe essere vissuta ed espressa nella sua più intima profondità, anche inconscia, se non ci venissero in soccorso i simboli. Le parole rendono finito l’infinito. I simboli portano lo spirito oltre i confini dell’ineffabile e dell’inesauribile.
Simbolo viene dal greco “sun=con” e “ballo=lanciare, raggiungere”. Un gesto dell’uomo, una pianta, un animale, una parola, ma anche un oggetto d’arte, può incontrare il completamento di sé tramite il tutto universale. Per questo il simbolo è la base di ogni dinamica iniziatica e religiosa, attraverso un movimento ascensionale dal visibile verso l’invisibile, fino all’interpretazione spirituale, non allegorica ma analogica.
Immagini e simboli non sono espressioni irresponsabili della psiche; essi rispondono ad una necessità e svolgono una funzione: quella di mettere a nudo le più segrete modalità dell’essere. Per Baudelaire l’universo è una “foresta di simboli”. Per Jaspers il mondo è una “scrittura cifrata” della trascendenza.
Per rimanere nel campo degli animali, ci rifacciamo al “Bestiario” di Leonardo, in cui vengono descritte le virtù occulte di animali e piante ed il loro significato simbolico-religioso.
Dalla diffusione di questo libro, nelle aree di lingua latina e nelle lingue romanze e germaniche, sono state influenzate per secoli le arti figurative e persino i libri di medicina. Ritrovare, nei confronti degli animali, gli stessi vizi e le stesse virtù degli uomini aiuta a scoprire il giuoco delle forze naturali che agiscono analogicamente su tutti gli esseri viventi.
Il grande Leonardo, con profonde introspezioni psicologiche, sostiene che gli animali operano alle volte solo per istinto, come la formica, che “per naturale consiglio provvede la strade per lo verno”. A volte invece sono pienamente coscienti dei loro scopi, con una libertà di scelta che comporta la possibilità di errore, di correggersi e di punirsi. Il lupo, se nonostante la sua cautela, pone il piede in fallo, “si morde il piè per correggere da sé tale errore”. Vi sono società di animali, presentate come regni saggiamente governati da un re, curato ed obbedito dai sudditi, che si distribuiscono i compiti con leggi e sanzioni inflessibili.
Per Leonardo, anche tra gli animali si trovano istinti buoni o cattivi: “l’allegrezza del Gallo, la tristezza del Corvo, la generosità del Falcone. Il Nibbio è invidioso dei suoi stessi figli, il Serpente è crudele, il Bue selvatico pazzo…”.
Ancora oggi non è stato sufficientemente approfondito il motivo della mescolanza dei simboli animalistici nelle regioni più disparate del mondo. Neppure l’Hymalaja, con le sue 16 cime di 8000 metri, è riuscita a creare dei compartimenti stagni.
Jung ha sottolineato la portata incalcolabile di questa sorte di memoria accumulata nell’inconscio, e degli archetipi, che sono il prodotto di una cultura universale. La psicanalisi, l’etnologia, l’antropologia, stanno studiando il nesso che lega gli uomini tra di loro sotto qualsiasi cielo. Anche negli ambienti più lontani fra loro, e quindi senza possibilità di contatti, si constatano gli stessi segni.
Il simbolismo romanico, per esempio, è in Occidente un punto di arrivo di tutta una tradizione simbolica che, per qualche specialista, trae origine dalle grotte preistoriche. Si ha l’impressione, alle volte, che i simboli travalichino i secoli. Per esempio, i precedenti dell’”asino musicante” di Ur o del “nodo di serpenti” di una tazza mesopotamica, come pure le corrispondenze evidenti con la Cina o con l’America precolombiana.
La vasta gamma di questo particolare simbolismo ci costringe inevitabilmente a fare delle scelte sintetiche. In Oriente abbiamo l’elefante, simbolo di Ganesh, dio della saggezza; l’oca, messaggera tra cielo e terra; il cigno, simbolo solare; il pavone, cavalcatura degli dei ed emblema di trasmutazione spirituale; l’aquila-Garuda, cavalcatura di Vishnu apportatrice di luce e di Parola Alata; il pesce, Dio salvatore della Trimurti induista che reca il Veda o Rivelazione primordiale; la vacca sacra simbolo ancestrale dell’universo; il leone che rappresenta lo stesso Krishna, come è detto nella Bhagavad-Gita.
L’Egitto ha evocato i simboli dei buoi, dei gatti, degli ibis, che venivano mummificati perché ritenuti immortali. In particolare l’asino simboleggia il dio Set personificazione del Caos, che viene sconfitto dal dio solare Horo raffigurato da un falco. La fenice è associata ad Osiride, dio della resurrezione.
Nel mondo greco, nel Peloponneso, la Grande Madre Demetra dea del frumento, era raffigurata da una scrofa alla quale erano sacrificati dei porci facendoli precipitare in voragini; il gallo era l’emblema di Ermes, protettore dei commercianti; inoltre i delfini, da cui Delfo, ed i polipi a Micene. Nei musei di queste due località, se ne possono raffigurare le rappresentazioni scultoree. Da notare che delfini e polipi, contemporaneamente, venivano venerati anche in Scandinavia e nei paesi baltici.
Nel mondo latino primeggia la lupa, “madre dei romani”, seguita dagli altri animali tra cui l’ariete chiamato Giove Ammone, Creatore e reggitore del mondo.
Tutti questi animali hanno anche ispirato l’iconografia cristiana. Nel medioevo esistevano dei “Bestiari” nei quali venivano elencate le proprietà reali o simboliche dei vari tipi di animali. Anche l’architettura sacra ne era ispirata, specialmente quella romanica.
Sarà San Bernardo a definire questi motivi che decoravano i capitelli e portali, delle “grossolane inutilità”. E’ la famosa reazione cistercense, che ricorda da vicino il movimento iconoclasta del secolo VIII. I monaci passavano ora a contemplarli: “A che scopo questi begli errori, questi mostri ridicoli e queste orribili bellezze? Da tutte le parti ci viene incontro una così grande e stupefacente varietà di forme, che è più piacevole leggere sui marmi che sui manoscritti, e altrettanto e più piacevole passare giornate intere ad ammirare queste cose l’una di seguito all’altra anziché meditare sulla legge di Dio”.
La decifrazione dei simboli rimaneva spesso problematica, tanto più che sopravvivevano fra le masse popolari tutti i fantasmi magici, i terrori ancestrali, di cui i simboli costituiscono il supporto e tutta la poesia e l’ambiguità dei vecchi miti. Lo stesso Libro dell’Apocalisse, fitto di immagini di animali, ha fatto piangere San Giovanni, come egli stesso dice, perché non poteva aprirlo, essendo “chiuso con sette sigilli”.

 

ANIMALI E RELIGIONI

Per Sigmund Freud, “…il timore proteggeva la vita dell’animale”, che veniva considerato sacro come fosse un membro della comunità. Era proibito cibarsi della sua carne, salvo che in occasioni solenni e con la partecipazione di tutta la tribù. Il mistero della sua morte sacrificale si spiega con il fatto che costituiva il legame dei partecipanti tra di loro e con il loro Dio. L’uccisione e la consumazione periodica del “totem” rappresenta l’elemento essenziale della religione totemica, per Freud la più antica.
A Dakshinkali, a sud-ovest di Katmandù nel Nepal, ho visto di recente praticare sacrifici per placare la dea Kali assetata di sangue, ma di soli animali maschi. Poiché i Nepalesi credono che così si garantisca una nuova vita, forse anche umana agli animali, mi sono domandato perché anche alle femmine non venga riservato questo privilegio. Il sacrificatore ha un grembiule coperto di sangue. Gli viene consegnato l’animale che egli sgozza con un colpo secco del suo “khukri”. La bestia viene spiumata se si tratta di un volatile, o gettata nell’acqua bollente, se è un mammifero. Gli animali sacrificati più di frequente sono le capre. Sbollentate e private della pelle, vengono tagliate a pezzi e riconsegnate ai proprietari perché le mangino a casa propria. I visitatori non si rendono conto di aver assistito ad un rito sacro. Che sia un modo per non violare la sacralità degli animali?
Per Giovanbattista Vico, le saghe e le leggende che si rifanno ad una ancestrale “Età favolosa” del mondo, rappresentano il “Mito” in cui convivono uomini e animali e l’espressione genuina di espressioni religiose. Spesso si trattava di riti religiosi, che esigevano una graduale iniziazione. I principali misteri erano quelli Eleusini, della dea Cibale, di Iside, di Mitra.
A Roma, sono ancora ben visibili gli altari dedicati a quest’ultima divinità. Alfredo Cattabiani e Marina Cepeda Fuentes, nel loro “Bestiario di Roma” sono riusciti felicemente a dare l’idea di come la città eterna sia di fatto la sintesi di miti e simboli animali della civiltà latina, greca e mediorientale. Scrivono: “Dal cornicione di un palazzo egizio romano occhieggia una gatta egizia, una testa di cervo con una croce tra le corna svetta sul timpano di una chiesa, una scrofa è incastonata sulla facciata di una casa, in un festone di un appartamento papale l’unicorno adagia le zampe sul grembo di una vergine, una lupa etrusca allatta due gemelli su una piazza… gli obelischi e i templi ritraici convivono con gli dei dell’Olimpo, le basiliche pitagoriche con quelle cristiane e i palazzi nobiliari, in una sfilata di animali simbolici che compongono una polisemia glorificazione del cosmo e delle sue energie”.
Il discorso sul rapporto religioni-animali è complesso. Solo sommariamente possiamo parlarne, preferendo soffermarci su quella loro “essenza”, almeno per le religioni antiche, che è il “sacrificio”.
Il “Libro dei Morti”, che riporta la confessione del defunto di fronte ai suoi giudici dell’altro mondo, testimonia la cura che gli egiziani avevano per gli animali. Vi si legge, tra l’altro: “Non ho maltrattato le bestie. Non ho dato la caccia agli animaletti nascosti tra i cespugli. Non ho intrappolato gli uccelli degli dei…”.
L’”Inno al Sole” del faraone Amenophis IV ha ispirato certamente il Salmo 104 della Bibbia:

“Fai scaturire le sorgenti nelle valli
e scorrono tra i monti;
ne bevono tutte le bestie selvatiche
e gli onagri estinguono la loro sete.
Al di sopra dimorano gli uccelli del cielo,
cantano tra le fronde…”

Gandhi sosteneva che il rispetto per gli animali era il dono dell’induismo all’umanità. Le religioni indiane, da sempre in verità, li hanno protetti da ogni crudeltà. C’era una casta speciale, quella dei vaisyas, che doveva attendere alla loro cura, in base alle leggi scritte di Manu.
La legge non scritta del Karma, riguarda tutt’oggi anche gli animali oltre che gli uomini e gli stessi dei. Ogni azione viene premiata o punita nella catena della reincarnazione. A questo proposito riferisco un episodio che mi è capitato a Srinagar, la capitale del Kashmir. Stavo osservando con raccapriccio dei bottegai che uccidevano a bastonate un gattino. Un vecchio, dopo averlo gettato nel fiume, vedendo il mio dispiacere, mi ha detto: “Forse rinascerà persona”. Gli ho risposto: “Intanto non ha vissuto da gatto…”.
Nella Bhagavad-Gita si narra di un eroe che accetta di entrare in paradiso solo se il suo cane potrà seguirlo. Buddha chiede “dayà”, compassione, anche per gli animali. Come Zarathstra, egli proibisce i sacrifici:”Invece di sacrificare gli animali, lasciateli liberi. Lasciateli cercare l’erba, l’acqua e la carezza del vento. Gli animali che uccidete vi hanno dato il tributo del loro latte e della loro lana. Hanno posto la fiducia tra le vostre mani che ora li sgozzano”.
Una volta, vide un agnello che, ferito da un sasso, non riusciva a tener dietro al gregge. Lo prese tra le braccia dicendo:”povera madre dal vello lanoso, dovunque tu vada porterò il tuo piccolo. E’ meglio impedire a una bestia di soffrire, piuttosto che restare seduto a contemplare i mali dell’universo, pregando in compagnia dei sacerdoti”.
In India furono costruiti dai buddisti, al tempo dell’imperatore Acoka che visse dal 264 al 227 a.C., i primi ospedali destinati agli animali ammalati o feriti. L’iniziativa fu poi ripresa nel secolo XVIII da Vivekananda.
In Iran, Zarathustra afferma in una sua “Gathà”, che chi ha cura del bestiame, senza nutirsi della carne “massacrata e fatta a pezzi”, avrà lo Spirito Santo e la Verità. Ha sostenuto anche: “Chi uccide un cane uccide la sua anima! ”.
In Grecia, il profeta della Tracia, Orfeo, come tutti i grandi dello spirito, è attorniato dagli animali che vengono affascinati dal suo amore, dalla sua voce, dal suono del suo flauto. Il pensiero di questo vegetariano, sacerdote di Apollo-Sole, è rimasto nel cuore dei discepoli per un millennio, fino a raggiungere Pitagora e Plutarco.
Questo storico greco, che teneva a Roma conferenze nella madrelingua, era stato iniziato in Egitto anche alla religione di Iside e di Osiride. Ripeteva le parole di Orfeo sugli animali: “come voi hanno un’anima… astenetevi perciò dal mangiare il cibo a base di carne!”
Era l’epoca delle catacombe cristiane. I discepoli di Gesù di formazione greco-latina, quando fecero scolpire nel IV secolo il Buon Pastore che porta sulle sue spalle l’agnello troppo debole per camminare, avevano certamente veduto le statue di Orfeo, che si possono ora ammirare nei musei, trovandovi una prefigurazione.
Plutarco ha delle espressioni delicatissime: “E’ una cosa barbara vedere i vecchi cavalli quando non sono più utili. Significa non aver riconoscenza per i servizi resi. L’uomo veramente buono deve tenere con sé i cavalli e i cani anziani, anche se non sono più utili”.
Tutta la letteratura greca manifesta sentimenti nobili nei riguardi degli animali. Valga per tutti l’episodio del cane di Omero, Argo, che attende il padrone per morire, come leggiamo nell’Odissea.
Tra le grandi religioni, l’ebraico-cristiana, se si vuole essere oggettivi, è ambivalente. L’Antico Testamento, del quale tratteremo a parte, anche per maldestre interpretazioni, è stato causa di indifferenza, ma insieme anche di apprezzamento per gli animali. Il Libro della Genesi, che parla di “guida” e non di “dominio” da parte dell’uomo su di essi, annuncia l’alleanza di Dio con gli uomini, gli uccelli, il bestiame e tutti gli animali della terra “che sono con voi”.
Nimrod, figlio di Kush, fondatore di Ninive, è l’antenato degli Assiri, grandi massacratori di popoli. Di lui è detto che “fu un cacciatore, a dispetto dell’Eterno”. Saranno i profeti Amos, Osea, Isaia e Geremia, a condannare i sacrifici, purtroppo senza alcun esito. Geremia ha perfino l’ordine da Dio di mettersi sulla porta del Tempio per dissuadere coloro che vi entravano per offrire sacrifici.
Con il Nuovo Testamento, la venuta del Figlio di Dio libererà finalmente il mondo non umano dalle crudeltà del sacrificio rituale. L’Ultima Cena sarà lo spartiacque tra due epoche, la cerniera tra la barbarie dei sacrifici antichi, un vero mattatoio biblico, ed il sacrificio di Cristo. Il suo Sangue sostituisce quello degli animali. E’ lui ora l’Agnello di Dio. “E’ impossibile che il sangue dei tori e dei caproni
– scrive l’autore della lettera agli Ebrei – liberi dai peccati”.
Purtroppo, come ha dimostrato Robert Smith, il sacrificio sull’altare costituisce la parte essenziale del rito delle religioni antiche. L’altare è nato per il sacrificio. Ogni altare ci ricorda perciò inevitabilmente le immani sofferenze degli animali.
Le intenzioni sacrificali erano le più diverse e derivano dalle concezioni che si avevano di Dio. In origine sembra che il sacrificio non fosse altro che “atto di unione sociale tra le divinità e i suoi adoratori”. In epoche successive divenne un’offerta fatta alla divinità per placarla e renderla propizia.
La spiegazione delle cosiddette “ecatombe”, che venivano compiute in Grecia e dappertutto, deriva dalla sostituzione “vicaria” che veniva addossata agli animali in vece dell’uomo.
Nei sacrifici, una parte consistente della vittima apparteneva ai sacerdoti. Si può capire, allora, come il monoteismo di Akenaton fallisse, avversato dai sacerdoti degli altri templi che erano stati fatti chiudere dal faraone. Si comprende anche, come i sacerdoti del tempio di Gerusalemme avessero, oltre ai dolori reumatici perché dovevano camminare scalzi sui pavimenti marmorei, malattie uricemiche, avendo l’azotemia elevata per il continuo consumo di carne.
Oltre a questo carattere “sostitutivo” sacrificale, gli animali nelle antiche religioni hanno sempre avuto un valore in sé, fino ad essere creduti dotati di anima immortale. Pitagora e Anassagora, a differenza degli Stoici che ritenevano l’animale un’emanazione divina, pensavano che le anime degli animali, imperiture come quelle degli uomini, scaturissero dall’Anima del Mondo, forza e sostanza intermedia, fra il cosmo e Dio. Così pensavano anche Platone e gli Alessandrini.
Aristotele distingue tre anime: vegetativa o nutritiva, sensitiva e razionale. Attribuisce la prima alle piante, la seconda agli animali, la terza agli uomini. Sarà il filosofo inglese Bacone a rifiutare l’anima vegetativa. Cartesio, in seguito, dichiarando che gli animali sono “automata”, “macchine”, li priva dell’anima sensitiva.
I cattolici, facendo propria l’opinione di Cartesio, per l’intento di conciliare fede e scienza, si immettono per una via sbagliata. L’oratoriano Malebranche, dando un calcio ad una cagna gravida che lo importunava con i suoi guaiti, mentre discorreva di filosofia con un amico, si giustificò così con lui: “Non si preoccupi! Questa cagna grida, ma non ha sensibilità”.
Kant e Bentham riproporranno il problema della sofferenza degli animali. La Chiesa uscirà tra alterne vicende dal buio del Medioevo, che vedeva sovente in essi delle manifestazioni demoniache, con Giovanni Paolo II, il papa che parlando del soffio divino presente anche negli animali e non soltanto nell’uomo, ha ridato a queste creature il valore e la dignità che esse meritano.

IL MATTATOIO BIBLICO

I turisti che visitano l’Acropoli di Atene, mentre salgono frettolosamente le gradinate per ammirare da vicino il Partenone, non si avvedono dell’antico accesso a zigzag per facilitare l’accesso degli animali destinati al sacrificio. L’ho scoperto con commozione in un mio ultimo viaggio in Grecia.
In occasione della processione delle Panatenee, rappresentata brillantemente sul fregio del Partenone, conservato al British Museum di Londra, le vittime erano condotte dai rappresentanti di tutte le regioni dell’Attica. La festa terminava in una “ecatombe”. Questo termine designava, all’origine, il sacrificio rituale di cento buoi. Più tardi fu usato per ogni grande sacrificio di animali.
I sacrifici, prima ancora che Ittico e Callicrate nel V secolo a.C. costruissero il Partenone, venivano praticati sullo stesso sito, nell’epoca preistorica, dai Pelagi. Altari per i sacrifici se ne possono vedere in Grecia a Micene, di 1500 anni a.C., a Delfi, ad Eleusi, ad Argo, ad Epidauro, a Corinto.
I culti misterici, importati soprattutto dall’Oriente e presenti anche nei Mitrei di Roma, finivano spesso nel bagno rituale con il sangue di un toro.
Il sacrificio acquista in questo caso il significato di una lotta interiore. Secondo la scuola di C.G. Jung, va interpretato, similmente ad altri riti dionisiaci, come un simbolo della vittoria della natura spirituale dell’uomo sulla sua animalità, di cui il toro è il simbolo cornuto.
Poiché i templi egiziani sono pieni di immagini di massacri umani, alcuni storici hanno creduto che si trattasse di sacrifici umani. Queste scene sanguinarie rappresentano invece la vittoria del faraone sui nemici. Hanno forse anche una funzione magica, quella di realizzare quello che viene rappresentato.
Che l’animale avesse un ruolo sostitutivo dell’uomo lo vediamo soprattutto nella Bibbia. Gli israeliti vivevano tra popoli che arrivavano a sacrificare bambini e fanciulle. I Cananei, come ho osservato al Museo Rockfeller di Gerusalemme, mettevano ai quattro angoli di una nuova casa i primi quattro nati. E’ impressionante vedere le anfore con questi bambini calcificati al di dentro.
Quando le divinità erano considerate crudeli, come il Dio Moloch in Canaan, o il Dio Uitzilopotli in Messico, si pensava che fosse necessario, anche se a così caro prezzo, procurarsene la protezione. C’erano anche altri motivi per queste uccisioni. Agamennone, per esempio, dopo aver ascoltato l’oracolo, sacrificò la figlia Ifigenia per la vanità di ottenere una vendetta sicura.
Il sacrificio, in genere, veniva fatto per rendere qualcosa o qualcuno, sacro, cioè separato da colui che lo offriva, e donato a Dio a testimonianza di dipendenza, obbedienza e pentimento, ma anche d’amore. Per questo motivo, ciò che veniva offerto, veniva bruciato o distrutto e reso intoccabile, essendo ormai proprietà inalienabile di Dio. Ho veduto nel Nepal i migliori cavalli del branco correre liberi nei boschi dopo il fischio sacro che li dedicava alla divinità.
Gli Ebrei che evitavano di entrare in conflitto con i Cananei, a differenza di altri popoli, non condividevano però questi sacrifici di vite umane. Il mancato sacrificio di Isacco da parte di Abramo, era una allegorica proibizione in tal senso.
L’azione o il gesto del sacrificio, nell’Antico Testamento, simbolizza il riconoscimento da parte dell’uomo della supremazia divina. Nella Bibbia, è il terzo Libro del Pentateuco, il Levitino, a riferire la legge, il rituale e le ulteriori specificazioni dei primi tre grandi sacrifici.
In questo libro, per materie, redazioni e cronologie diverse, viene posta sulla bocca di Dio un’espressione ricorrente nella mentalità delle varie religioni del tempo: “Parla ai figli di Israele e dì loro: Quando uno di loro presenterà un’offerta al Signore, potrà farla di bovini o di ovini”.
Il primo sacrificio è per gli Ebrei l’olocausto. Sulla testa della vittima, sempre di sesso maschile, perché doveva rappresentare insieme la forma e la bellezza, l’offerente metteva la sua mano destra come segno di solidarietà. Per motivi che oggi ci sfuggono, il Levitino, per gli olocausti di volatili, riconosce validi soltanto le tortore e i colombi.
Il libro, vero manuale di macelleria, illustra come uccidere, scorticare, lavare la vittima. In questo sacrificio, ritenuto il più nobile, tutto veniva bruciato e distrutto.
Il secondo sacrificio del quale è dato il rituale, è l’oblazione, un sacrificio incruento consistente nell’offerta di prodotti vegetali. L’offerta era sempre accompagnata dai seguenti elementi: olio, vino, incenso, sale. Quest’ultimo non doveva mancare in ogni tipo di sacrificio, cosicché ogni alleanza inviolabile era detta alleanza di sale. Il simbolismo del sale, originato dal pasto preso in comune per stringere amicizia, doveva essere sempre vivo. In questo senso deve essere interpretato il passo del Vangelo di Marco “voi siete il sale della terra”, “siete i riconciliatori del mondo!”
Il terzo sacrificio, regolamentato nei dettagli dal Levitino, è quello “pacifico”. Era il sacrificio cruento nel quale la vittima veniva divisa in due: una parte veniva distrutta e offerta a Dio; una seconda parte serviva per il caratteristico convivio sacro nel quale “si mangiava e beveva davanti a Dio”. Offerto nelle più svariate circostanze, poteva essere di ringraziamento, spontaneo, votivo.
A parte c’erano poi i sacrifici di espiazione e di riparazione. I poveri animali venivano sacrificati in riti diversi, per i peccati del Sommo sacerdote o per i peccati di tutta la comunità. Era consistente l’idea che il peccato potesse interrompere la possibilità di comunicazione morale-spirituale tra il tempio di Dio e la nazione, tra il Dio dell’alleanza e i suoi fedeli. Quando c’erano state lesioni del diritto di proprietà o altre lesioni materiali, dopo la restituzione completa di quanto sottratto, con l’aggiunta del profitto ricavato più la metà di un quinto del valore totale, si procedeva al sacrificio di restituzione. Anche in questo caso erano gli animali a sobbarcarsi ad una ennesima sofferenza.
Per avere solo un’idea di questa immane ecatombe biblica si pensi che Salomone, al tempo dell’epoca di Israele, fece i seguenti sacrifici: per la sua incoronazione ci fu il sacrificio di mille giovenchi, mille arieti, mille agnelli; a Gabaon, come viene detto nel 1° Libro dei Re, offrì mille olocausti, e lo stesso face in altre molteplici occasioni: a Gerusalemme, per esempio, davanti all’arca dell’alleanza del Signore, offrì olocausti, compì sacrifici di comunione dando un banchetto per tutti i suoi servi; nella festa della dedicazione del tempio immolò al Signore, “in sacrificio di comunione, 22000 buoi e 120000 pecore…”
Chi non partecipava a questa comunione tra Dio e il popolo era proprio la povera bestia che tra l’altro dovette fare la stessa fine allorché Salomone, “…commettendo ciò che è male agli occhi del Signore”, si mise in vecchiaia ad adorare le divinità delle sue mille mogli, la dea Astante di Sidone, Milcom obbrobrio degli Ammoniti, Camos il dio degli Ammoniti.
Saranno i profeti, in particolare Isaia, a predicare che il solo sacrificio valevole è la purificazione dell’anima. “Voglio misericordia e non sacrifici di animali” dice il Signore. “Non gradisco il sangue di tori e di agnelli. Smettete di presentare offerte inutili…”
Sarà Amos, il primo profeta in ordine cronologico tra i profeti-scrittori, a smentire i Libri dell’Esodo, del Levitino, del Deuteronomio: “Dice il Signore: non posso respirare l’odore dei vostri sacrifici. Non provo alcun piacere e non guardo neppure i vitelli ingrassati che voi sacrificate per ottenere la grazia”. Dio non pretende un culto in cui si assassinano le sue creature.
E Osea, contemporaneo di Amos, scrive: “E’ nell’amore che mi compiaccio, non nei sacrifici”. Con gli animali Dio ha stretto un’alleanza: “concluderò un’alleanza con gli animali dei campi, gli uccelli dei cieli e i rettili della terra”.
Isaia arriva a dire che “…sono felici coloro che non lasciano continuamente legato alla catena il loro cane”. Sentenzia anche: “Chi uccide un bue è come colui che uccide un uomo. Chi sacrifica un agnello è come colui che rompe la nuca a un cane”.
Geremia chiama il Tempio “Caverna di assassini” come poi lo chiamerà Gesù, perché vi viene versato il sangue di animali innocenti. “Per via della cattiveria umana muoiono gli animali e gli uccelli”.
Per il profeta Giona gli animali hanno la stessa importanza dei 120000 uomini di Ninive. La gioia della vita, anche degli animali, viene affermata dal Libro di Daniele, un “Cantico delle Creature” ante litteram: “Montagne e colline, piante e fontane, mari e fiumi, mostri marini e tutto quanto si agita nelle acque, uccelli del cielo, animali selvaggi e greggi, bambini, benedite il Signore, lodatelo, esaltatelo in eterno.”
Nel libro di Tobia c’è un particolare delicatissimo: “Il cane che li accompagnava correva davanti, e ogni volta che ritornava sui suoi passi, agitava la coda per dimostrare il suo affetto ai suoi compagni di viaggio”.
Come si spiega questa evidente ambivalenza della Bibbia nei riguardi degli animali? Dopo attente ricerche, con la consulenza del mio amico tedesco Franz Susman, ho scoperto la chiave per una soluzione. San Girolamo scrive a Gioviniano che il permesso accordato da Dio dopo il diluvio, come si legge nella Genesi, è una interpretazione tardiva del III secolo a.C., un’epoca in cui “…i costumi si erano completamente appiattiti”. In un Libro ritenuto canonico dai Copti, il sacrificio di Abele sarebbe stato “vegetariano”, di frumento e frutta, quello di Caino “carnivoro”, di animali.
Vorrei auspicare una cosa: si tolga dalla liturgia cattolica del Giovedì Santo il testo dell’Esodo che prescrive il sacrificio dell’Agnello pasquale. E’ solo una cattiva memoria di una pratica mediorientale che non merita neppure di essere ricordata. I fedeli potrebbero trovarvi una giustificazione per celebrare la Pasqua con l’agnello con le patate al forno. Molte persone intelligenti e sensibili hanno già abbandonato questa tradizione che non tiene conto delle sofferenze a cui sono sottoposti migliaia e migliaia di agnelli.
Di grande importanza è nell’Antico Testamento il racconto del diluvio. Sarebbe interessante mettere in risalto le analogie tra il racconto biblico del diluvio e quello dell’undicesima tavola dell’antico poema babilonese Gilgamesh, oppure seguire l’intreccio del racconto jahvistico con quello del documento sacerdotale. Sorprendentemente il redattore finale del racconto non ha eliminato le contraddizioni di queste due tradizioni.
Nella prima, il numero degli animali è di sette paia degli animali mondi e di un paio dei non mondi; nella seconda, due paia di ogni specie. Quanto alla durata del diluvio è di 40 giorni e di 40 notti, oppure di 150 giorni. Per l’invio di uccelli dopo la fine del diluvio, è una colomba nella tradizione jahvistica; un corvo in quella sacerdotale.
Questo è quanto troviamo nei capitoli 6,7,8, della Genesi.

Questi aspetti letterali sono certamente di secondo piano di fronte al messaggio biblico dell’”Arca di Noè”, dove tutti, uomini e animali sono salvati insieme dalla catastrofe. Quel messaggio antico è valido anche per oggi. Di fronte a un’immane catastrofe ecologica, tutti dobbiamo fare qualcosa per questa nuova “Arca di Noè” che è il pianeta Terra.

PASSEROTTI AL MERCATO

Per quello strano personaggio biblico che è l’animale, eroe senza scampo tra le mani dell’uomo, tutto comincia a cambiare con l’avvento del Nuovo Testamento. San Paolo, che scrive prima degli Evangelisti, nella Lettera ai Romani afferma: “Tutta la creazione geme nel travaglio del parto”.
Pensando ai sanguinosi sacrifici di animali che si tenevano anche a Corinto, chiede ai Romani sulla linea dei profeti, di offrire piuttosto il loro corpo come “vittima vivente”, “…per poter discernere ciò che è buono, gradito a Dio e perfetto”.
Il sacrificiodella Nuova Alleanza è del tutto diverso dall’Antica. Non è più l’agnello sacrificato al centro del rito di Pasqua. Il Pane e il Vino sacramentalmente diventano il Corpo e il Sangue del Signore.
A differenza degli Apocrifi, i vangeli canonici non parlano molto di animali. In realtà, come vedremo, diversi sono gli accenni. Ciò che più conta nei Vangeli, è la prospettiva di fondo. Il mondo con le sue creature non è un fondale per l’uomo. Forse non è neppure una visione semplicemente cosmica. Gesù di Nazaret più che alla Creazione guarda al Creatore.
Nel cuore stesso del messaggio c’è l’annuncio di un Dio-Abba, cioè Padre straordinariamente vicino. Per Gesù la bontà del Creatore viene prima della bontà della Creazione, il visibile dopo l’Invisibile. Tuttavia il mondo può essere decifrato da un insieme di “segni” che permettono di riconoscere il “Totalmente Altro”.
Gli uccelli del cielo si collocano, nei Vangeli, in quell’asse verticale che sfugge al dominio dell’uomo, in quel “cielo” dove si irraggia la presenza del Padre. Attraverso essi si intravede l’azione della Divina Provvidenza:”Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre”. Vedendo che vengono venduti per pochi spiccioli al mercato, dice: “Neppure un passero cade a terra senza che Dio lo sappia”.
Gesù di Nazaret cita anche altri uccelli che appartengono al vissuto della quotidianità: la colomba, immagine dello Spirito di cui si deve imitare il candore, i pulcini, che “…la chioccia raduna sotto le sue ali”, così come Egli avrebbe voluto proteggere i “Figli di Gerusalemme”.
Il Vangelo vede nel mondo delle acque un’ambiguità radicale. C’è il ricordo del caos primordiale, del Leviatan primitivo, del fango che sfugge alle mani del vasaio. Il “grande pesce” che ingoia Giona è l’immagine evidente della morte, il Leviatan che non avrà l’ultima parola né per il Cristo, che risusciterà al “terzo giorno”, né per Giona, né per i Cristiani che, credendo in Lui, avranno la stessa sorte felice.
Anche lo “scorpione” contrapposto nel Vangelo di Luca all’uovo, è segno di morte, con un pungiglione che Paolo di Tarso dichiara ormai dopo la Resurrezione, inefficace. L’uovo, invece, contiene la vita come cibo e come seme.
A queste immagini, che rappresentano il rischio dell’uomo distratto nel suo destino cosmico, il Vangelo contrappone l’attenzione alla freschezza della natura. I pesci compaiono nella moltiplicazione-condivisione dei pani e dei pesci e nei due episodi della pesca miracolosa. Viene sottolineata anche la penuria e la non sottomissione dei pesci che invece “si lasciano prendere” come “si lasciano prendere” gli uomini convertiti dall’annuncio dei tempi nuovi.
La simbolica posteriore farà del “pesce” l’”iktus”, l’acronismo di “Gesù Cristo Figlio di Dio, Salvatore”. Gesù nel IV secolo sarà raffigurato come il Buon Pastore. In una civiltà pastorale non potevano mancare pastori, greggi, lupi.
Il Maestro di Nazaret vede il mondo animale senza gli antropomorfismi delle favole, nelle quali gli animali sono come sostituti degli atteggiamenti e dei comportamenti umani.
Non abbiamo ancora pienamente valutato la virtualità concettuale di Gesù in questo campo, ma c’è un’evidente tonalità educativa profondamente umanizzante nei riferimenti evangelici agli animali. Gli stessi discepoli, sempre in cammino, potranno confrontare con essi persino la loro libertà e mancanza di un tetto: “le volpi hanno le loro tane”.
All’esterno del museo di Salonicco al Nord della Grecia, c’è un sarcofago con una bella raffigurazione di Orfeo che ammansisce con il liuto gli animali. Mentre l’osservavo, mi sono ricordato che più volte Cristo viene raffigurato nelle catacombe sotto le sembianze di Orfeo.
Perché questo simbolismo? Nel mito pregresso, il figlio di Zeus calma le fiere. Nel soggiorno di Gesù nel deserto, l’evangelista Marco, che non riporta come gli altri due sinottici il “Midrash” delle tre tentazioni di Gesù, ci dice che Egli, anticipando un Eden ritrovato, “…restava con le bestie selvagge”. Dostoievski dirà: “Il Cristo è stato con gli animali prima di essere con noi”.
L’ammansimento poi è il segno del passaggio dalla selvatichezza all’addomesticamento. Questa armonia riconquistata del Figlio dell’Uomo non è semplicemente per una visione della creazione, ma un archetipo, esemplare per gli uomini, per un’armonia edenica da conseguire: il Regno è al di là dell’Eden, ma è “anche già l’Eden”.
Quando Gesù proclamerà nel discorso della Montagna: “Beati i miti, coloro che sono pieni di dolcezza”, poiché sta parlando ad ascoltatori che hanno familiare il mondo animale, non potrà non riferirsi anche a questo universo popolato di esseri singolari che debbono essere pacificati.
Un giorno non ci saranno più le bestie mostruose delle visioni dell’Apocalisse o la sozzeria delle bestie impure, fortunate comunque, perché non potevano servire né ai sacrifici, né come cibo.
Avranno gli animali l’ingresso nella grande casa del Padre? Vivranno ancora misteriosamente nella “nuova terra”?
Quello che è certo è che con il Cristo anche il vicinato animale passa dalla bestialità minacciosa alla compagnia, dalla paura della limitatezza al folto stormire sugli alberi, dalla perdizione alla speranza anche della loro salvezza. Egli ha promesso di attirare “tutto” a sé: “…ciò che è nei cieli e ciò che è in terra”.
Intanto ci ha dato un esempio: quando scaccia i venditori dal tempio, apre le gabbie delle colombe e libera gli altri animali. Sulla spianata e dentro i cortili del Tempio, il cielo mai fu così vivo per lo sbattere di ali di queste colombe in libertà.
Il testo di Matteo 21,13, che corrisponde chiaramente a Geremia 7,11, è molto più brutale di quanto non appaia nelle nostre traduzioni. “Mearat parisim” significa “spelonca di assassini”. E’ una chiara allusione ai sacerdoti del tempio che erano deputati al sacrificio di animali.
Gesù di Nazaret è certamente sulla scia delle profezie di Geremia, Osea, Isaia, che contestano la pratica criminale del sacrificio degli animali. Anche per Lui il sacrificio cruento è un alibi e una sostituzione vicaria inutile. La salvezza non può consistere che nella misericordia. La Nuova Alleanza ristabilisce anche la pace tra tutti i regni della natura.
Il Signore Gesù ha mangiato l’agnello nella Cena del Giovedì Santo? La maggioranza degli esegeti del Nuovo Testamento, sia cattolici che protestanti, sostiene che non è possibile oggi, da un punto di vista storico, stabilire se il banchetto di addio di Gesù avvenne o meno nel mezzo di un una celebrazione pasquale. Solo una minoranza è decisamente per il carattere strettamente pasquale della celebrazione dell’Ultima Cena. Troviamo questa discrepanza fin dalla Chiesa antica. Essa deriva dalle differenti indicazioni di Giovanni e dei Vangeli Sinottici. Secondo Giovanni 18,28, la festa di Pasqua non coincide con il giorno dell’Ultima Cena, ma con quello seguente. Egli infatti nuore nel preciso momento in cui, non lontano dal Golgota, il sacrificio di almeno 50000 agnelli uccisi nel Tempio per essere portati nelle case, raggiunge il punto culminante. L’indicazione diversa data dai Sinottici, deriva dal fatto che in Gerusalemme la Pasqua veniva celebrata secondo due diversi calendari, quello tradizionale legato al ciclo solare e quello degli Esseni, legato al ciclo lunare. Secondo quest’ultimo calendario si sarebbero svolti i fatti, così come sono stati raccontati da Marco, Matteo, Luca.
Ci può essere un indizio di connessione con alcuni elementi che a noi sembrano importantissimi, per sostenere una ipotesi che può scalfire gli schemi tradizionali.
Recenti scavi sul Monte Sion fatti dal Padre Bargil Pixner OSP, hanno dimostrato che la zona del Cenacolo apparteneva agli Esseni i quali mettevano a disposizione delle sale per gli ospiti. Gli Esseni si erano allontanati da Gerusalemme perché non condividevano i sacrifici del Tempio. Giuseppe Flavio scrive: “Mandano offerte al Tempio ma essi non compiono sacrifici, dato che le purificazioni da loro eseguite sono differenti; perciò si astengono dall’entrare in quei recinti del Tempio frequentati da tutta l’altra gente”. Anche Filone riferisce che gli Esseni non sacrificavano animali ed erano vegetariani: “…ritengono che la frugalità con la gioia sia, come in realtà è, un sovrabbondante benessere”. Scrive anche: “…sono longevi, tanto più che oltrepassano i 100 anni, a motivo della semplicità del loro genere di vita”. Secondo Ippolito Romano, Pitagora e gli Stoici del tempo si posero a scuola degli Esseni. Dopo il terremoto del 40 a.C. di Qumran, il “Popolo delle palme” come lo chiamava Giuseppe Flavio, ritornò a Gerusalemme stabilendosi sul Monte Sion. Il portatore di acqua, che troviamo in Luca 22,10, era esseno, poiché solo presso gli Esseni erano gli uomini ad attingere l’acqua.
La cena essena escludeva rigorosamente la carne che era bandita anche nella celebrazione pasquale. Giuseppe Flavio e Plinio definiscono gli Esseni dei veri pitagorici. Non esisteva l’espressione “vegetariano”, in uso solo dal secolo scorso. A Delfi, in Grecia, il filosofo platonico Plutarco, scrisse i testi più importanti sugli animali, sul sacrificio e sul nutrimento divino. “Esiste un tavolo del Signore e uno di Satana – egli scrive – non si può partecipare ad ambedue, non si può astenersi dalla diffusione di sangue solo una mezz’ora al giorno. La misericordia è indivisibile”.
Gesù ha abolito ufficialmente il sacrificio dell’agnello. L’eucarestia non avrà più collegamento con i riti del Tempio, ma con il Pane e il Vino dell’Ultima Cena. La nuova Pasqua cristiana supera e soppianta quella ebraica. Per San Paolo il tema dell’agnello pasquale non appare più in relazione con la Cena del Signore, ma con la sua morte. Restano il cammino dell’esodo, l’acqua dalla roccia. Quando gli Ebrei mangiano l’agnello pasquale Gesù, il vero Agnello, giace nella tomba, e nel suo corpo non vi è traccia dell’agnello rituale. Risuscitato ha attaccato a sé un agnello, che non è quello che lui avrebbe consumato la sera della Cena. A descrivere questa scena è Giacomo, cugino del Signore, che sarà capo della comunità di Gerusalemme per 25 anni.
San Girolamo a chiare lettere scrive: “Postquam Christus venit…nec comedimus carnes”; “…dopo che Cristo è venuto non è permesso mangiare le carni”.
Gesù che ha celebrato l’Ultima Cena in una casa di Esseni, chiamati anche “I figli della misericordia”, è stato Lui stesso, come attestano i Vangeli, l’esempio di una misericordia infinita. Ripetutamente nella sua predicazione aveva detto che Dio non vuole sacrifici cruenti. Forse avrà pensato anche a Geremia: “Come potete dire: Noi siamo saggi, la Legge del Signore è con noi? A menzogna l’ha ridotta la penna menzognera degli scribi”.
Giovanni e Paolo scrivono che Gesù sostituì il sacrificio (ed il cibo!) cruento con quello incruento. Come “Pater familias” avrebbe dovuto uccidere propria mano gli animali… in questo caso sarebbe stato inferiore al Buddha che chiede “dayà – compassione – anche per gli animali; a Krishna e a Francesco d’Assisi.
Molti pensano di poter continuare ad avere un diverso atteggiamento nei riguardi degli animali, in base alla Bibbia. Ma che dice la Bibbia? La prima legge divino-naturale si riferisce al cibo specifico di uomini e di animali. Gli animali non sono creati come cibo per nessuno. Il cibo umano è costituito da frutta, erbe e cereali. San Girolamo, in un libro che è tra i più importanti della Patristica, è che è sconosciuto ai più, sostiene che il permesso dato dopo Noè di mangiare la carne, è una interpolazione nel testo sacro, aggiunto tardivamente in un’epoca di appunto basso profilo spirituale.
Gli Esseni non vengono menzionati nel Nuovo Testamento perché sono diventati cristiani sotto il nome di “Ebioniti”, i poveri, termine che ricorre 12 volte nel N.T. e “nazorei”, 6 volte. Sant’Epifanio scrive che in ambedue i casi si tratta di vegetariani. Egesippo dice esplicitamente di Pietro che, essendo Nazoreo, era un vegetariano, così come lo erano Giacomo, Giovanni e Stefano.
Plinio il giovane riferisce nella celebre lettera all’Imperatore Adriano, in qualità di governatore della Bitinia nell’anno 112: “Il Medio Oriente è convertito in tal modo che i ricchi, i latifondisti perdono il loro potere, perché i cristiani si nutrono di cibi innocui”. Per Sant’Agostino, Porfirio era il più grande dei filosofi. Vissuto nel 234-307, ha scritto “L’astinenza degli animali”, in cui afferma che Gesù ci ha portato il nuovo cibo divino, dichiarando come il cibo carneo come nutrimento dei demoni. Sant’Agostino in “La Città di Dio” descrive sulla sua scia il modo di vivere dei Cainiti (la città terrestre) e quella dei Setiti (la città celeste). Esplicitamente afferma che Gesù è un Setita.
Come mai allora i cristiani hanno cominciato a mangiare carne? Storicamente quando nelle chiese i ricchi usurparono il potere, cominciarono a perseguitare i veri discepoli di Gesù ed i loro libri, dichiarandoli eretici. Nel 314 ci fu anche un concilio regionale, quello di Ancira (Ankara), che sospese tutti i chierici e i diaconi dai loro posti, con tutte le conseguenze: “…non voler mangiar carne, nemmeno nascosta tra i legumi, è un oltraggio al Creatore che ci ha dato gli animali per mangiarli…”.
Per questo motivo ci furono anche delle persecuzioni. Ufficialmente il primo martire fu Priscilliano, decapitato con 6 altri, tra cui 2 donne. L’uccisione di alcuni capi cristiani cambia per molti la prassi ecclesiale. Chi si astiene dalla Cena cristiana, non più vegetariana, non è più perseguitato; può tuttavia partecipare ai raduni cristiani liturgici del mattino. L’esortazione del libro dell’Apocalisse, di non mangiare la carne degli animali uccisi “In nome di Dio”, resterà lettera morta.
Eppure Gesù, che non ha mangiato l’agnello pasquale, era venuto e aveva sofferto perché gli uomini di buona volontà diventassero pacifici e misericordiosi con tutto ciò che vive, anticipando così i tempi messianici.

L’ALTRA FACCIA DEI VANGELI
“I VANGELI APOCRIFI”

Gli “apocrifi” per definizione, sono quei Libri che la Chiesa non ha accettato nel suo canone e che quindi non potevano essere letti nella liturgia. Non tutti erano ritenuti eretici o falsi. Si contestava la pretesa, almeno per quelli più antichi, di sostituire o completare la letteratura ufficiale con dei dettagli immaginari. Spesso introducevano le idee delle varie correnti di pensiero allora comuni, per lo più di sette scismatiche. Vennero però dichiarati falsi.
La maggioranza degli scritti sono databili dal III al IV secolo, ma non mancano in essi materiali che possono risalire alle più antiche e autentiche tradizioni cristiane. Era comprensibile che certi strati di fedeli desiderassero sapere molto di più sulla vita di Gesù, di sua madre Maria, degli apostoli, in particolare di qualcuno più legato ad un paese, ad una chiesa, a una qualche corrente di pensiero.
Essi hanno il merito, almeno, di farci conoscere i sentimenti, gli stati d’animo, gli ideali di molti cristiani sia dell’Oriente che dell’Occidente. Alcune feste liturgiche cristiane, come la presentazione di Maria al Tempio, derivano dagli apocrifi. I mosaici di S.Maria Maggiore, del tempo di Sisto III, hanno molti particolari derivati interamente dagli apocrifi. Il loro influsso è presente persino nelle catacombe.
La letteratura apocrifa si rifà sentire anche in grandi opere come la “Divina Commedia” di Dante, il “Paradiso perduto” di Milton, la “Messiade” di Klopstock, ed in molte altre.
Gli apocrifi, con un loro genere letterario sovente leggendario e fantastico, hanno spesso per protagonisti gli animali, in particolare la colomba, il cane, il serpente, il leone.
Il “Pastore di Erma” del secondo secolo d.C. parla di “Angeli custodi” per le bestie selvagge. Nell’aramaico “Vangelo della Vita perfetta” c’è la condanna per i cacciatori, perché essi stessi saranno cacciati a loro volta! I Papi dell’epoca del Rinascimento che avevano la “Casa di Caccia” sulla via Portuense, non avevano certamente letto questo testo.
I testi degli apocrifi sono numerosi. Sono costretto a fare una scelta: riportare solo quanto essi riferiscono circa la presenza di animali nella vita di Gesù.
Nel Protoevangelo di Giacomo, con un chiaro riferimento a Isaia e ad Abacuc, compaiono nella Grotta Santa, illuminata da una “nube splendente”, il bue e l’asino “…genuflessi in adorazione accanto alla mangiatoia”. E’ un particolare che non è presente nei Vangeli canonici dell’infanzia che, secondo gli studiosi, sono anch’essi dei testi “a latere” dei Vangeli di Matteo e Luca, dato lo stile diverso e la citazione della Bibbia non secondo la traduzione dei LXX come nel resto dei Vangeli.
Il Vangelo dello Pseudo Matteo completa fantasticamente le poche notizie della fuga in Egitto: in una grotta in cui la Sacra Famiglia si riposa ci sono dei “draghi” che adorano Gesù e fuggono da Lui mansueti. Il riferimento è chiaramente ad un salmo di Davide che dice: “Dalla terra lodate il Signore, o draghi, draghi e abissi tutti!. Anche i leoni, i leopardi ed altre fiere lo adoravano, mostrando la strada e chinando la testa, facendo festa con la coda”. E’ detto espressamente che rimanevano mansueti tra le pecore, e i montoni che avevano portato con sé dalla Giudea. Camminavano tra i lupi, avverandosi quanto era stato detto dal profeta: “i lupi pascoleranno con gli agnelli, il leone e il bue mangeranno insieme la paglia”.
Dell’infanzia di Gesù a Nazaret vengono ricordati, sempre dallo pseudo Matteo, questo prodigi: “…plasma con il fango dodici passeri e li fa volare dicendo: “andate e volate per la terra e per tutto il mondo, e vivete”.
A otto anni scese Gesù con i suoi a Gerico. Saputo che c’era una caverna dove una leonessa aveva generato i suoi figli, vi entrò: “Gesù sedeva nella caverna e i leoncelli correvano qua e là intorno ai suoi piedi, accarezzandolo e scherzando con lui… il popolo, a causa dei leoni, se ne stava discosto, non osando avvicinarsi. Allora Gesù prese a dire alla gente: “Quante bestie sono migliori di voi!... le bestie mi riconoscono e si fanno mansuete, gli uomini mi vedono e non mi riconoscono”. Con i leoni passò il Giordano. Disse loro di non nuocere alle persone. Ed essi lo salutarono “non con la voce soltanto, ma anche con il corpo”.
Nel medesimo Libro dello Pseudo Matteo si parla di un’ondata a Cafarnao e a Betlemme. In questa città, Gesù guarisce Giacomo che era stato morso da una vipera, mentre era nell’orto a prendere i legumi.
Nel Vangelo di Tommaso troviamo delle narrazioni miracolose, in apparenza, con la figura di Gesù. Si potrebbero riferire a qualsiasi personaggio. Sono stati rivelati molti paralleli con le leggende di Krishna o di Buddha. Giuseppe è imbarazzato di fronte ai suoi compaesani. Un giorno si alzò, prese un orecchio di Gesù e glielo tirò forte”.
Il “Vangelo arabo sull’infanzia del Salvatore” scrive di un mulo ritenuto tale per le arti magiche di alcune donne, e che torna ad essere uomo dopo le suppliche della madre e delle sorelle di Maria. Viene anche raccontato: “Gesù a sette anni, giocando con i compagni con il fango, facendo figurine di asini, di buoi, di uccelli e di altri animali, vantando ognuno la propria arte dimostrata con l’opera compiuta, Gesù disse loro:”alle figurine che io ho fatto ordinerò di camminare. Immediatamente si misero a saltare e poi, per suo ordine, si arrestarono nuovamente”.
Un’altra volta cercava i suoi compagni. Domandò alle donne se li avessero visti. Alla loro negazione disse: “…quelli là che vedete nel fosso, chi sono?” avendo essi risposto che si trattava di capretti di tre anni, il Signore Gesù esclamò dicendo: “…venite qui, capretti, presso il vostro pastore”. Allora i ragazz,i sottoforma di capretti, uscirono e presero a saltare attorno a Lui. Alla richiesta delle madri dice: “…su, ragazzi, andiamo a giocare!” e immediatamente, alla presenza di quelle donne, i capretti si mutarono in ragazzi”.
Tra i frammenti di testi copti, che hanno un fascino tutto particolare e che sono databili fra il V e il VII secolo, c’è questo magnifico racconto.
Mentre Gesù e gli apostoli erano a tavola, “Mattia depose un piatto sul quale c’era un gallo…. Gesù toccò il gallo e gli disse: «Gallo, ti dico di vivere come prima. Spuntino le tue ali e tu possa volare nell’aria per divulgare il giorno in cui darò consegnato». Il gallo si levò dal piatto e fuggì.”
Il “Vangelo copto di Tommaso”, del IV secolo, è stato scoperto recentemente nel 1945-46 presso Nag Hamad, ma se ne possedevano frammenti greci nei papiri di Ossirinco. Ha un suo originale genere letterario e a differenza di molti apocrifi, trae spunto spesso dagli animali. Eccone alcuni esempi: “Gesù dise: se vi dicono - ecco il Regno di Dio è in cielo - allora gli uccelli del cielo vi precederanno. Se vi dicono – è nel mare – allora i pesci del mare vi precederanno. Il Regno invece è in voi e fuori di voi…”. Ancora: “…non è possibile che un uomo cavalchi due cavalli… non è possibile che un servo serva due padroni…”
“Gesù disse: il regno è simile a un pastore che ha cento pecore. Una, la più grande, si smarrì. Egli lasciò le 99 e cercò quell’una fino a quando la trovò. Dopo che si era affaticato disse alla pecora: “ti amo più delle 99” e anche: “…guai ai farisei! Sono come un cane accovacciato su di una mangiatoia di buoi: né mangia, né lascia che mangino i buoi”.
Non poteva mancare un accenno all’agnello: “Videro un samaritano entrare nella giudea portando un agnello. Disse ai suoi discepoli: “…che cosa ne sarà dell’agnello?” gli risposero: “Intende ucciderlo e mangiarne” egli disse loro: “Fino a quando è vivo non ne mangerà, ma soltanto uccidendolo e facendone un cadavere…”
Anche nelle storie degli Apostoli si parla di animali. Nel libro apocrifo degli “Atti di Sant’Andrea” si racconta che il Santo uscì incolume dalla stadio, dove a turno erano stati introdotti un cinghiale, un toro, un leopardo.
Negli “Atti di Pietro” è scritto che egli “…fu sfidato dal ricco Onesiforo a far passare un cammello attraverso la cruna d’ago. Egli compì due volte il miracolo”.
Gli apocrifi, essendo degli scritti indirizzati soprattutto al popolo con lo scopo dell’edificazione, della diffusione della parola nuova del Vangelo, del Trattenimento piacevole anche, assumevano gli stessi artifici letterari delle opere allora più diffuse, in particolare dei romanzi greci del I e II secolo a.C. e d.C. ciò spiega l’elemento straordinario e miracoloso, per esempio delle “bestie parlanti”.
Nel “Manoscritto di Vercelli” un cane risponde all’apostolo Simone che lo interroga. Negli “Atti di Andrea, Paolo e Filemone” (VIII-IX secolo) un altro cane riferisce ad Andrea e a Filemone che una donna, dopo aver fatto a pezzi un bimbo nel deserto, glielo aveva dato in pasto. Un leone, come è scritto nel “Papiro greco di Amburgo”, chiede a Paolo di essere battezzato: “Lodai Dio che aveva concesso la parola alla belva e… ai suoi servi la salvezza… presi il leone per la criniera e lo immersi tre volte nel nome di Gesù Cristo. Quando risalì dall’acqua, scosse bene la sua criniera e mi disse: “La grazia sia con te” io gli risposi:”Pure con te”. Il leone corse poi per la campagna pieno di gioia: lo incontrò una leonessa, ma egli non le voltò il suo sguardo e invece di seguirla se ne fuggì…”
Il medesimo leone “maschilista”, catturato poco prima, invece di mangiare Paolo, che era stato condannato alle fiere, si mette a pregare… l’apostolo lo riconosce e gli chiede: “Come sei stato preso a caccia?”. Il leone saputello, risponde:”Come te, Paolo”.
Parlando anche negli “Atti di San Tommaso”: un serpente, che dichiara di essere un parente di quello che parlò con Eva, un puledro, che si rivela ottimo oratore; gli asini selvatici sostituiscono invece, silenziosamente, i cavalli stanchi, non senza inginocchiarsi davanti all’apostolo, prima di prendere servizio.
Il gatto, che non compare mai nella Bibbia, forse per la divinizzazione che aveva in Egitto, è presente nell’apocrifo “Vangelo dei dodici Apostoli”, riportato nei “Commentatori” di Sant’Ambrogio nella Patrologia Latina; “Una gattina si lamentò con Gesù perché nessuno le dava da mangiare. Egli la raccolse e la prese con sé, le diede da mangiare e da bere ed ella gli fu riconoscente. Egli l’affidò a una delle sue discepole di nome Laurentia ed ella ne ebbe cura. Alcuni dissero: “Ecco che quest’uomo ha cura di tutte le creature! Sono esse, dunque, suoi fratelli e sue sorelle, perché egli le ami tanto?” ed Egli disse loro: “In verità esse sono vostre compagne. Si, sono vostri fratelli e sorelle. Chi si prende cura di loro si prende cura di me. Chi le maltratta fa soffrire me!”
Negli “Atti di Filippo”, un leopardo si confessa con gli apostoli Bartolomeo e Giovanni, con voce umana, di aver rubato un capretto la notte precedente e “…colpitolo per divorarlo, lo sentì annunciare l’arrivo degli apostoli venuti a compiere nel deserto la promessa dell’Unigenito Figlio di Dio. Il leopardo fu ammansito dall’annuncio del capretto, il quale fu guarito da Filippo, e tutti e due ottennero da Dio, per mezzo della preghiera degli apostoli, vece e mente umana”.
Scrittori diversi riportano gli “Agrafa di Gesù” cioè quelle parole a lui attribuite che tuttavia non sono scritte. Ireneo, morto intorno al 200 d.C., descrivendo la fertilità del creato nel mondo futuro, riporta quanto l’apostolo Giovanni ricordava di aver udito da Gesù ed in particolare:”E tutti gli animali che ricevono il cibo dalla terra saranno pacifici, concordi tra loro e in amicizia con gli uomini”.
E’ appena un florilegio il nostro, tratto dagli Apocrifi. Se tenue è la storicità dei racconti, interessante è la conoscenza che se ne può trarre riguardo alla considerazione che i cristiani di Oiente e di Occidente avevano, nei primi secoli del Cristianesimo, per gli animali.

ANIMALI E PADRI DELLA CHIESA

Vengono chiamati “Padri della Chiesa” coloro che, vescovi, presbiteri o anche laici, nei secoli seguenti al periodo apostolico, hanno approfondito la dottrina evangelica formando quel primo “corpus” o patrimonio cristiano che deriva dalle due aree greco-orientale ed occidentale.
Costretti dalla necessità di riproporre per il loro tempo il “depositum fidei”, non hanno delle disquisizioni dirette per un campo così apparentemente marginale qual è quello degli animali. Nei primi secoli dell’era cristiana, vengono per lo più ripresi vari motivi degli scritti biblici, combinati variamente con luoghi comuni ricevuti dall’antichità classica.
Ad esempio, è legato il carattere aggressivo e distruttore di alcuni animali, alla situazione di peccato che connota, secondo varie modalità, tutta la natura. Teofilo, nel suo libro “Ad Autolico”, affermava soavemente che “…il peccato degli uomini li ha resi cattivi”. Non sapeva che prima dell’uomo, e da tempi immemorabili, esistessero già le “bestie feroci”.
Un’affermazione comune è quella che, nei tempi escatologici, ci ritroveremo solo con animali amici, un tema legato alla convivenza pacifica del Cristo con gli animali nel deserto delle tentazioni, narrata dall’evangelista Marco.
Alcuni Padri Armeni, tra cui in particolare Eznib, scrivendo contro l’eresia dualista di origine persiana, negano che ci siano animali “essenzialmente cattivi”. Tali animali deriverebbero da un “dio del male”, ma la stessa cosa dovremmo pensarla per l’uomo che quotidianamente pecca.
L’affermazione maggiormente ricorrente nella patristica sia latina che orientale, sotto l’influsso evidente della filosofia greca, è quella della presenza della ragione nell’uomo, come connotazione specifica rispetto all’animale.
Conseguente è l’idea che l’animale sia un essere “incapace di religione”. Lattanzio, citando Cicerone, afferma che “…non c’è nessuna creatura su questa terra all’infuori dell’uomo che abbia una pur minima nozione di Dio”.
Su questa linea il Padre greco Origene, in polemica con Celso, pone come discriminante tra l’uomo e l’animale, la conoscenza del futuro che permette di percepire Dio come Provvidenza. Sant’Agostino, con la sua tipica sensibilità latina, vede il criterio della differenza nella diversa essenza delle loro anime. Dalla irragionevolezza degli animali, deduce la legittimità della uccisione degli animali, messa in discussione dai marcionisti e dai manichei. La cosa avrà in seguito un grande influsso su tutta la teologia occidentale.
Va sottolineato a questo proposito che i Padri che sono per la disciplina dell’astinenza dalle carni, legata da una parte alla problematica biblica delle “carni pure” e “impure” e dall’altra ad elementi ascetici, sono per un “vegetarianesimo cristiano” per altre ragioni che non siano quelle della illegittimità della distruzione della vita degli animali.
Accanto a queste grandi linee di pensiero, troviamo nei Padri della Chiesa un florilegio, di cui riporto appena una sintesi, che attesta la loro sensibilità e il loro amore per gli animali.
Di Sant’Isacco di Siria, che si riempiva di lacrime davanti anche alla più piccola creatura, è detto: “Quest’uomo, animato dal vero amore, non cessa di pregare anche per i rettili, mosso dalla pietà infinita che si risveglia nel cuore di coloro che si uniscono a Dio”. Del resto Plutarco scrive nella “Vita di Catone”: “Ci si deve abituare ad essere miti e umani con gli animali. Per parte mia, non vorrei vendere il mio bue perché è diventato vecchio”.
San Macario di Alessandria guarisce dalla cecità il cucciolo di una iena. San Girolamo toglie una spina dalla zampa di un leone. E’ nota la familiarità di Santo Antonio abate con gli animali del deserto. Anch’egli predicava ai pesci e agli uccelli.
Scrivendo dei Santi Padri, non posso non riferire l’opinione espressa da San Bernardo nel suo “Quinto sermone in Cantica”. Egli intitola il suo sermone così: “Dei 4 generi di Spirito, e cioè di Dio, dell’angelo, dell’uomo, dell’animale”. Più volte chiama l’anima dell’animale “spirito”. Ne fa un confronto con gli altri “spiriti”, ponendolo com’è ovvio nel gradino più basso.
Solo da questa comparazione appare chiaro che San Bernardo pensa che l’anima degli animali è una vera sostanza immateriale. “Senza il corpo della pecora questo spirito non può sussistere – precisa il Santo – senza tuttavia che questo venga meno quando muore l’animale...”.
San Bernardo sa bene che, per i filosofi, una sostanza “immateriale”poichè non può scomporsi in parti o corrompersi, non può morire né annichilirsi. E’ quindi “immortale” sebbene non abbia in sé la perfezione del comprendere il bene ed il vero.
L’opinione, ardita com’è, aprirebbe la possibilità dell’eternità anche per questi “fratelli più piccoli”, come li chiamava il grande San Francesco. Anche Sant’Agostino aveva affermato questo tipo di anima negli animali. Tuttavia San Bernardo, in una Lettera al Maestro Gualtiero di Monte Calvo, scrive, senza mezze misure, che quest’anima immateriale “…viene a cessare quando non vivifica più il corpo dell’animale”.
San Giustino, filosofo cristiano del II secolo, sostiene che l’anima dell’animale non è immortale di per sé, però “…l’anima dell’uomo appartiene alla stessa natura di quella del cavallo e dell’asino”.
Alcuni Padri attestano che, con Noè, Dio ha stretto l’Alleanza anche con gli animali. Ai tempi del Millenarismo, Sant’Ireneo scrive: “Durante un millennio, l’armonia del Paradiso Terrestre sarà già ristabilita. Saranno presenti anche gli animali, che vivranno in pace gli uni con gli altri”.
Evidente è il riferimento alla profezia di Isaia:”Il lupo brucherà con l’agnello, il leopardo riposerà con il capretto; il vitello, il toro e il leone pascoleranno insieme”.
Ermete Trismegisto, influenzato da Platone, dice:”Per il Tre volte Grandissimo, gli animali, poiché hanno un’anima, hanno un posto nell’altra vita con Dio”. Origene non aveva scritto che “…il sangue sparso sul Calvario non è solamente utile agli uomini, bensì anche agli angeli, agli astri e a tutti gli esseri del Cristo”?
Accenno appena agli Anacoreti: a San Simone il Vecchio che diede due leoni per guida ad alcuni viandanti; a Sant Antonio l’’Eremita che, non avendo alcuno strumento per scavare la fossa del suo Maestro, San Paolo l’Eremita, vide due leoni piangere accanto al cadavere del Santo e poi scavare essi stessi la fossa capace di contenerne il corpo.
Nell’anno 370 San Basilio di Cesarea compose questa preghiera che ancora oggi dovrebbe essere recitata:”Dio accresci in noi il senso della fraternità con tutti gli esseri viventi, con i nostri piccoli fratelli a cui Tu hai concesso di soggiornare con noi su questa terra. Facci comprendere che essi non vivono soltanto per noi, ma anche per se stessi e per Te; facci capire che essi amano, al pari nostro, la dolcezza della vita e si sentono meglio al loro posto, di quanto noi non ci sentiamo al nostro!”.
Le culture dei popoli costituiscono un patrimonio che si tramanda attraverso i secoli. Percorrendo vie sotterranee, attraverso capovolgimenti sociali e politici, permangono nella coscienza popolare per risvegliarsi nei momenti e nei modi più impensati. Arcaicità e modernità, per esempio in Russia, compongono un quadro stupefacente per estro e creatività.
Lo scrittore Andrei Sinjavskij ci ha rivelato che i cavalli, in base all’idea popolare che “Anche il cavallo prega”, hanno i loro Santi protettori, i Santi Flor e Lavr, e anche le mucche e le pecore. Perfino le oche avevano un Santo tutto per loro, Nikita martire. Ciò dimostra fino a che punto la vita quotidiana della gente fosse penetrata dalla religione e come questa venisse concepita in modo concreto.
A San Georgij-Evgorij erano affidati tutti gli esseri viventi. Un proverbio russo dice che “…quello che il lupo ha tra i denti lo deve a Evgorij”. A questo Santo, che era anche patrono dei pascoli e delle mandrie, veniva attribuito il ruolo anche di “…organizzatore della terra russa”. Nella concezione popolare, la fede cristiana non è soltanto la fede nella quale è stato battezzato il popolo russo. Ad essere battezzate sono in qualche modo tutte le creature e la terra stessa di Russia. Il cristianesimo non è soltanto un’armonia umana, ma di tutto il cosmo e del creato.
La particolare sensibilità dell’anima russa la ritroviamo nell’”Autobiografia spirituale” di Nicola Berdjaev. Del suo gatto egli scrive:”Quando morì Mury piansi dirottamente. La morte di lui, creatura meravigliosa di Dio, fu per me esperienza della morte in generale, della morte delle creature che amiamo. Ho desiderato per Mury la vita eterna, di vivere anch’io in eterno insieme con lui. Ho fatto una straordinaria esperienza del problema dell’immortalità. Quando passo vicino alla tomba di Mury che è nel nostro giardino sotto l’albero penso all’immortalità come a cosa concreta. Sono assolutamente contrario all’idea che la morte distrugga la personalità: di essa non può andare dissolto quanto è individuale, irripetibile.
Questo l’ho sentito molto nei momenti più profondamente dolorosi della mia vita”.

LA NOTTE DEL MEDIOEVO

Un’altra lunga crudele notte, questa volta ad opera degli uomini a partire dal Medioevo viene ad offuscare il mondo degli animali. Sarà un Medioevo lunghissimo che perverrà fino ai nostri giorni, l’epoca delle “batterie” degli animali, della loro industrializzazione, della orribile vivisezione. Nel frattempo solo due schiarite: i secoli della contestazione a Cartesio; il secolo di Darwin e dell’evoluzione, che legherà tra loro l’universalità degli esseri e dei fenomeni.
Questo Medioevo nasce da radici nefaste. Il sospetto riguardo al corpo ed al sesso, con il conseguente discredito dettato sulla natura nel suo insieme e sulle bestie in particolare, deriva dall’affermazione agostiniana: “il corpo è quanto vi sia di più vile e di più basso”.
Il mondo animale spesso non è reputato solo subumano, ma anche infernale. L’occidente cattolico incappa nell’errore di ritenere cattiva una parte della creazione, come ai tempi del manicheismo. Torturare gli animali era il miglior modo di servire Dio…
Sta venendo ora alla luce tutto un materiale sepolto per anni in biblioteche polverose. Dopo la prima reazione di incredulità, questo materiale è stato oggetto di dibattiti su riviste erudite. Edward P.Evans ha avuto il merito di pubblicare le storie di processi e condanne contro gli animali dal Medioevo all’Ottocento.
Il volto della Chiesa ne esce sfigurato. Come spiegare le punizioni gli esorcismi, le scomuniche, nei riguardi degli animali? I “Manuali” e i “Rituali” del tempo evidenziano il fatto che quest’epoca credeva di vedere il Diavolo dappertutto, specialmente nei pipistrelli, nei rospi, nei caproni, nei cani. Si pensava anche che la “stregoneria” fosse strettamente collegata con le specie animali fornite di pelo o di piume nere.
L’elemento più paradossale è l’esistenza di tribunali laici o ecclesiastici deputati “ad hoc” nei quali ad esempio si infliggeva la pena di morte a quei maiali, vacche, cavalli o altri animali domestici che avevano commesso un omicidio. Si invocava come giustificazione il Libro del Deuteronomio, il quale stabiliva che un bue omicida doveva essere condannato alla lapidazione.
Si era certi che lo stesso Principe delle tenebre prendeva corpo in una natura nociva. Ciò spiegava i roghi e gli altri tormenti con cui ci si accaniva sulle povere bestie. Del resto, non era stato condannato il serpente del giardino dell’eden, a strisciare sul ventre per l’eternità? E Gesù, non aveva detto che a destra saranno le pecore, a sinistra i caproni?
Incoerentemente si nega l’anima agli animali, ma non la loro responsabilità. Le loro urla sono considerate delle vere e proprie confessioni. Le sentenze vengono lette anche quando i topi, non presentandosi all’udienza, vengono condannati in contumacia.
Questi processi susciterebbero ilarità, se a soffrire non fossero i poveri animali. Un asino che beve in una acquasantiera viene impiccato. Il caprone, simbolo di lussuria e animale creduto del tutto demoniaco, ha sempre vita corta, ed è il primo della schiera degli animali ad essere torturato. Ma anche i muli vengono straziati, così pure i maiali e le civette.
I rospi vengono bruciati sulle fascine nella notte di San Giovanni. Spesso è il re ad accendere il falò. In un museo è conservata la ricevuta di pagamento ad un tale Lucas Pommereau, che aveva fornito in tre anni gatti destinati al rogo. Le colombe vengono fatte bruciare sistematicamente dai Canonici di Notre-dame, mentre il popolo assiste alla scena macabra muto, per non essere accusato di complicità demoniaca.
Per gli animali c’è, incredibilmente, anche la scomunica. Nel 1210 viene comminata dal Vescovo Laon contro i muli; nel 1488 dai Vicari di Autun contro le calandre; nel 1554 dal Vescovo di Losanna contro le sanguisughe, dopo che un suo predecessore l’aveva lanciata contro le anguille. Altre scomuniche vengono comminate, nella seconda metà del XV secolo, contro le locuste. C’è anche un vicario di Valenza, nel 1554, che se la prende con i bruchi.
E’ Guglielmo, abate di San Teodoro a Reims, a darci un’altra incredibile notizia: San Bernardo, il Santo che per la sua dolcezza sarà chiamato “Doctor mellifluus”, avrebbe scomunicato le mosche che molestavano la sua abbazia di Foigny.
Sono i secoli della superstizione e della magia. La medicina dava questa ricetta contro l’epilessia: acqua di rondine con una decina di pelli di rondinotti presi di fresco da un nido. Un libro di magia prescriveva di far celebrare una messa dello Spirito Santo, ma non senza aver prima strappato gli occhi ad un galletto vivo.
La superstizione è ancora tra noi. Ricordo che, quando ero rettore di San Teodoro al Palatino, ho veduto gettare davanti alla chiesa, la notte prima di un matrimonio, un gallo appena ucciso con delle monete nascoste tra le interiora…
Ignoranza, forza bruta tipica dell’età del ferro, interesse da parte dei Vescovi ad ampliare la loro autorità rispetto alle istituzioni della società civile, furono le cause maggiori dell’accanimento contro gli animali ritenuti “demoniaci”. Nelle vecchie biblioteche sono conservati talismani, scongiuri, incantesimi, in Scozia, ma anche in Irlanda, come riferisce E.P.Evans, sui muri delle case c’erano degli “Avvisi” di questo tipo:

“Sorci e ratti
lasciate questi anfratti,
della povera donna le mura abbandonate
al mulino in schiera v’affrettate tra i sacchi il ventre v’impinzate”

In Francia, i contadini nella prima domenica di quaresima andavano su e giù per i campi, con delle torce accese, fatte di paglia arrotolata, mormorando questo incantesimo:

 

“Fuori, fuori di qui, sorci di prato!
Se non volete i baffi bruciati,
il raccolto di grano abbandonate!
Via! Nella cantina del curato
Più da ber che da mangiar troverete”.

Numerose iscrizioni sono piuttosto egoistiche. Quella, che Reynard Volpe volle nel castello di Malepartus, suona così:

“San Floriano, martire beato e benedetto,
proteggi queste mura e brucia le altre case!”

Il Medioevo, per gli animali, non termina come per la storia ufficiale nel 1453 con la presa di Costantinopoli da parte dei Turchi: oltrepassa il Rinascimento e l’epoca dell’illuminismo e giunge fino a noi. Ai nostri giorni, cos’è la vivisezione, se non un redivivo Medioevo.

LA LEZIONE DI SAN FRANCESCO

Personalmente credo che ci sia un vero legame tra gli animali archetipi delle grotte preistoriche e quelli androfagi che si affacciano qua e là sulle architetture religiose dell’età del ferro. Sul finire di questo periodo gli animali vengono presentati per lo più come dei mostri; ma già si stanno costruendo le chiese romaniche che metteranno insieme il leone mesopotamico e il serpente egiziano, non senza un’ancestrale derivazione, forse, dai leoni di Micene, contrapposti a triangolo, un’allusione anche alla “tetraktis” pitagorica, alla “delta” dell’alfabeto greco che tanto ricorda il frontone dei templi classici.
E’ il tempo in cui nascono i primi “bestiari” medioevali, che hanno lo scopo di elencare le proprietà reali o simboliche dei vari tipi di animali.
Tra queste rappresentazioni orride o dotte, nasce ad Assisi un umile frate dalle intuizioni stupende: San Francesco, l’uomo che amava teneramente tutte le creature.
Storia e leggenda svelano, con una grande suggestione, il rapporto del Santo con il mondo degli animali. Traggo dallo “specchio di professione”, dalla “storia” del Celano, dalla “leggenda maggiore” e dai “Fioretti”, qualche citazione al riguardo.
In occasione del natale, chiede all’Imperatore di decretare che le pubbliche amministrazioni facciano spargere per le strade miglio e granaglie per tutti gli “uccellini”, e che i proprietari di “buoi e asini” diano agli animali una doppia razione di foraggio.
Ordina ai frati che, nel periodo invernale portino miele e vino alle “api”. Mette in libertà le “tortore” che un ragazzo aveva preso dai loro nidi. Ai “pesci” a Sant’Angelo in Pantanelli presso Orvieto, raccomanda di farsi furbi e eli rigetta nel Tevere, dopo che erano stati pescati. Ai “lupi” di Greccio e al “lupo di Gubbio” ordina che non facciano male alla gente.
A Venezia predica ai “passerotti”, ad Alviano alle “rondini”, a Bevagna alle “colombe”, alle “cornacchie”, ai “monachini”. A Roma alle “gazze”, ai “corvi”, agli “avvoltoi”. La “cicala” l’”usignolo” sono invitati da lui a lodare il Signore.
Stringe amicizia a Siena con un “fagiano”, all’isola del lago Trasimeno con un “coniglio selvatico” e a Greccio con un “leprotto”. Quando sulla strada scorge dei “vermi”, ricordando il Salmo che dice del Servo di Jahvè: “Sono un verme e non un uomo”, li toglie rispettosamente. Sulle montagne delle Verna incarica un “falco” di svegliarlo all’ora del mattutino. Un branco di pecore, nella campagna senese, gli va incontro belando dolcemente. Soprattutto per l’”agnello”, simbolo mite del Cristo, aveva una gran predilezione.
Ricordo una mia campagna contro l’uccisione degli agnelli. Vengono fatti morire lentamente, tra indicibili sofferenze, fino all’ultima goccia di sangue, perché la carne sia più bianca. Venni invitato a “Domenica In” dopo che un cardinale di Santa Romana Chiesa, la domenica precedente, aveva sentenziato che non solo si poteva mangiare l’agnello, ma che era anche “meritorio”.
Mi limitai a raccontare che in un giorno d’inverno, San Francesco vide un contadino che recava sulle spalle due agnellini vivi. “Dove li porti?” chiese il Santo. “Al mercato, per venerdì” rispose quello. Il Santo si tolse di dosso il mantello, che proprio quel giorno gli avevano regalato perché si riparasse dal freddo, e fece cambio con il contadino.
Poi, ridandogli gli agnelli, gli raccomandò di non farli morire.
Francesco amava talmente gli animali, che li chiamava “i nostri fratelli più piccoli”. Nelle “Lodi delle virtù” francescane, un opuscolo in lingua latina, è detto che il vero frate minore “…sia così servo da essere suddito e sottomesso non soltanto agli uomini, ma anche a tutti gli “animali” e alle “fiere” cosicché possano fare di lui quello che vogliono, e per quanto sarà loro concesso dall’alto dal Signore”.
Per parte sua, come scrive San Bonaventura, era “meravigliosamente soave e potente da domare gli “animali feroci”, addomesticare i “selvatici”, ammaestrare i “mansueti”, indurre all’obbedienza i “bruti”.
E’ soprattutto con il “Cantico di frate Sole” che è ancora oggi il più innovatore manifesto ecologico, che Francesco ha la sua più grande intuizione. Con una contrapposizione dialettica, mentre “nullo homo” è degno di nominare e lodare il Signore, afferma: “Laudato sie… cum tucte le tue creature”, chiamando così gli animali a unire la loro voce a quella insufficiente dell’uomo.
L’atteggiamento del Santo di Assisi, con una finezza che possono avere solo le anime grandi, è di vedere sempre e solo in Dio, la causa e la ragione universale della lode: “Non ti lodiamo a causa delle cose che hai creato – è detto nella “Regola” non bollata – ma ti lodiamo “per Te” perché hai voluto creare tutte le cose”.
La realtà, vista nella luce di Dio, cambia la prospettiva aristotelica dell’antropocentrismo: l’uomo si scopre non padrone, ma solo semplice depositario, custode e pastore della realtà.
L’amore di comunione con la natura, San Francesco lo scopre nella rinuncia alla volontà di possesso, e si ritrova così “fratello” di tutte le cose. Povero e “nudo” davanti a Dio, viene investito dal calore e dalla bellezza del Creatore per mezzo delle cose… e s’illumina di Dio.
Il rispetto del “vestigium creationis” lega tutte le esistenze in un “ordo fraternitatis”, avendo in Dio in comune il Principio. Contro la teoria eretica dei Catari, a lui contemporanea, che giudicava negativa la natura rifiutandone ogni contaminazione, ripropone la bellezza, la necessità, la bontà di tutte le creature, che dell’Altissimo “portano la significazione”.
Le grandi anime, prima o poi, trovano la scorciatoia per salire con sicurezza a Dio. Ricordo la formula dell’universo di Werner Heisenberg:
Quel “v”, la variabile che lascia intravedere, anche se freddamente il Mistero,[3] Francesco l’ha oltrepassata, giungendo a Dio:

“Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so le laude, la gloria e l’onore
et onne benedictione.
…..
caudate et benedicite lu mi Signore,
e rengratiate, e servite a Lui cun grande humilitate.”

Il giorno della sua morte, il Santo pregò frate Angelo e frate Leone, che lui aveva soprannominato “pecorella di Dio”, di cantargli il Cantico delle Creature. Non avrebbe più avuto alla sua tavola i “pettirossi” che egli chiamava “non ospiti” ma di famiglia. Venne invece una moltitudine di “allodole” che “si posarono adagio a ruota, facevano come un cerchio intorno al tetto, cantando dolcemente, parevano lodare il Signore.

L’ESEMPIO DEI SANTI

Molti sono i Santi che hanno amato gli animali, manifestando la loro bontà verso di essi in un modo o nell’altro. Abbiamo già veduto come li amava San Francesco. Oggi stiamo riscoprendo il “Cantico delle Creature” di questo grande contestatore del Duecento.
In termini francescani “ante litteram” egli ha cantato il sole, l’acqua, il vento, le montagne, gli uccelli, il fuoco, sulla scia del pensiero ebraico che integrava, in un unicum”, la religione e la vita del cosmo.
Cantava infatti il Salmo 148:

“Lodate il Signore della terra,
mostri marini e voi tutti abissi
voi fiere e tutte le bestie rettili e uccelli alati”

Ed il Libro del profeta Daniele:

“Benedite, quanto si muove nell’acqua,
il Signore, lodatelo ed esultate nei secoli.
Benedite, uccelli dell’aria il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli
Benedite, animali tutti, selvaggi e domestici, il Signore,
lodatelo ed esaltatelo nei secoli”.

Si potrebbero citare esempi di Santi che in ogni opera hanno amato gli animali, a cominciare dagli anacoreti del deserto.
Si racconta che una iena, che aveva il suo piccolo cieco, aprì con la testa la porta dell’abitacolo in cui viveva San Macario di Alessandria.
Il Santo guarì dalla cecità il piccolo e la madre, dopo averlo allattato, tornò nel deserto.
San Simeone l’Anziano, che viveva in solitudine tra le bestie selvagge, comandò a dei leoni, dopo averli accarezzati, di far da guida ad alcuni viaggiatori che avevano smarrito la strada. Un altro episodio delicato è questo: quando morì San Paolo l’Eremita, il discepolo Sant’Antonio, non avendo strumenti per scavargli la fossa, chiamò dei leoni che, dopo aver pianto accanto al corpo del Santo, grattarono la terra con le loro unghie fino a fare una fossa capace di contenere il corpo. Poi leccarono le mani di Sant’Antonio come per domandargli una benedizione. E lui pregò così: “Signore, dona a questi leoni quello che voi sapete che è necessario per loro”.
Nella Chiesa ortodossa San Serafino è uno dei Santi più popolari. Viveva nella foresta di Sarov alla fine del 1700 e agli inizi del 1800. insegnava che “…solo chi sa pregare può conoscere il linguaggio della Creazione”. A mezzanotte – racconta un testimone oculare – orsi, lupi, lepri, volpi, lucertole e rettili attorniavano l’eremitaggio. Dopo aver terminato le sue preghiere secondo la regola di San Pacomio, l’asceta usciva dalla cella e si metteva a nutrirli. A chi gli domandava come poteva essere sufficiente il poco pane secco contenuto nella sua bisaccia rispondeva: “Ce n’è per tutti”.
Tra i Santi, famoso è il domenicano fratel Martin de Porrés, vissuto nel XVI secolo e canonizzato nel 1962 da Papa Giovanni XXIII. Aveva un’anima fraterna per tutti gli esseri, anche privi di ragione, suscettibili di sofferenza e di angoscia. Vide un giorno un essere ferito e gli disse: “Hai voluto fare il cattivo: seguimi e ti guarirò”. La stessa cosa avvenne con un gallo che si era rotto la zampa. Scrive un biografo:”Gli aveva dato l’ordine di tornare da lui ogni giorno per essere medicato ed il gallo ubbidì con precisione. La sua commiserazione non si fermava agli animali domestici, si occupava anche degli animali nocivi.
Nel Convento si volevano prendere misure draconiane contro i topi che rosicchiavano tutto quello che trovavano in cucina, in sacrestia, nelle celle. Soffrendo al pensiero dell’imminente sterminio di queste insopportabili ma innocenti bestiole, incontratane una, le disse: Piccolo fratello topo, voi qui non siete più sicuri. Va a dire ai tuoi compagni di prendere alloggio in fondo al giardino. Mi impegno a venirvi a dare da mangiare, a condizione che non torniate più in convento. Da quel giorno finì ogni razzia”.
Non è che tutti i Santi ebbero una simile sensibilità. Di San Bernardino da Siena, gli storici dicono che un giorno, mentre predicava, un cane stava attraversando la piazza, certamente non silenziosamente. Il Santo, che colpiva i suoi ascoltatori con parole che sembravano colpi di balestre e di bombarde, si mise ad urlare: “Cacciate quel cane, dategli una pianella!”.
Vorrei soffermarmi su un Santo a me caro, perché è stato un mio predecessore nella Basilica di San Giovanni Battista dei Fiorentini, di cui sono parroco: San Filippo Neri, vissuto alla fine del 1500.
Dagli “Atti del processo di canonizzazione” leggiamo: “Non poteva passare per i macelli per compassione; riprendeva quelli che battevano gli animali; pativa quando li vedeva vivi et sapeva quando avessero ammazzati, se l’avesse veduti patire; voleva se li desse da mangiare, tanto a quelli di fora che a quelli di dentro; li topi, poi, non voleva si ammazzassero, ma ordinava che fossero portati all’aperto et lasciati andare”.
“Aveva a caro che si facesse carezze a li animali simile a quelli di San Francesco. Diceva: Se tutti fossero della mia natura, non si ammazzariano gli animali”.
Mentre il chierico Francesco Gazzarra, di 21 anni, stava preparando la cappella per la Messa, vi trovò un piccolo passerotto che portò a far vedere al padre. “Non lo stringere, non li far male – disse – apre la finestra et lassalo andare. Però bisognerà allevarlo; non saperà dove andare”. Non voleva che si ammazzassero neppure le mosche. Diceva al chierico:”Non l’ammazzare; apri la finestra et, collo ferraiolo, cacciale fuora”.
Ai tratti e aneddoti sull’amore autenticamente francescano di San Filippo per gli animali, parecchi altri ne aggiungono gli atti del processo. Una deposizione attribuisce alla sua intercessione perfino la resurrezione di un passero solitario del Cardinal Cusani.
Una volta vide il prete Francesco Borzo uccidere una lucertola nel cortile. “Crudele! Che ti faceva quell’animale?”.
Il doganiere Loys Ames depose nel processo di aver veduto un cardellino giocare con la barba del Santo. Un’altra volta, dopo aver visto un macellaio che feriva con un coltellaccio un cane: “Cominciò a lamentarsene più volte, e disse: Oh poveri animali, oh poveri animali; et a questo – scrive Domenico Migliaccio, prete nepesino – mi trovai presente; et di queste cose ne è stata et è pubblica voce et fama”.
Il Canonico da San Pietro Germanico Fedeli, depose: “Ho visto, più volte, mentre andava per strada, o in cocchio, o a piedi, di fare scansare, cani, somari et altri, quando potevano essere calpestati da qualche cocchio, o altro pericolo. Et quando gli era presentato qualche uccello, o animale vivo, lo donava a persone, dicendogli, che non l’ammazzassero, ma li conservasse vivi. Et, a una sua gatta, che lasciò nelle stanze di San Girolamo, quando venne a stare alla Vallicella, gli mandò, sinché visse, una volta al giorno, da mangiare”.
Quando ebbe in dono due pernici: “Udendo che avevano a morire, tutto si turbava; et le mandò alla s.r. marchesa Rangona che le governasse, proibendole che non se ammazzassero”. Amava una cagnolina del s.r. cardinal Cusano: “…et la teneva sempre in braccio, et tanto faceva de una sua gatta”.
Un’altra interessante deposizione è quella dell’abate di Sant’Eutizio a Norcia, Giacomo Crescenzi: “Per lo spirito che aveva, avanti che dicesse Messa, per reprimere la commozione, teneva certi cagnoli, lì a San Girolamo, e tanti che dicesse la Messa, si metteva a giocare con quelli cagnoli. Et una volta, fu ripreso di questa cosa, da un prete spagnolo, quale non intendeva né sapeva perché lo facesse, et accettò la riprensione, et non disse niente. Et che, per questo effetto, tenne ancora certi uccellini, per distraerse dall’abbandonantia dello spirito, quale li abbondava. E per questo accadeva sia a San Girolamo che a San Giovanni dei Fiorentini”.
Il preferito, tra gli animali che Filippo ama, è il cane “Capriccio”. Depone al processo il chierico Zazzara: “Un’altra cosa meravigliosa me sovviene, che l’s.r. cardinale de Santa Fiore aveva un cagnolo il quale era il spasso del detto s.r. cardinale; et il m.s. Costanzo, maestro di casa del cardinale, figliuolo spirituale edl p. Filippo, si fermò con lui et non volse tornare dal cardinale. Et il cardinale disse: “Non li basta di tirare a sé li homini et persone humane: ci vuole tirare ancora li animali”; et, nel principio, l’hebbe a male; et il padre ce lo faceva riportare et, con tutto questo, il cane sempre ritornò e non lasciò mai il padre, fin che il cane morse in camera del p. Filippo. E pure, come attestò Germanico Fedeli, “Capriccio” alla tavola del cardinale veniva cibato di “polpe di gallina et d’altre carni delicate, facendolo bere in tazze d’argento, et era grande quanto un grosso lepre, di pelame bianco con alcune macchie rosse. Il padre Filippo, invece, non gli dava, per ordinario, altro che pane et, alle volte, qualche ciambella”.

San Filippo girava con il cane per il rione Ponte. Il Santo se ne serviva per tenere in umiltà i suoi. Un canonico di Palestrina, tale Francesco Pucci, facendo la sua deposizione affermò: “Nella sua stanza non c’era che il letto, alcuni uccelli e il suo cane Capriccio. Un giorno, per mortificarmi, me lo fece prendere in braccio. Avevo una tonaca nuova e si riempì di peli di Capriccio…”.
Il cane invecchiando divenne brutto. Il Cardinal Tarugi, che insieme ai suoi confratelli se ne era dovuto occupare, ma solo per ubbidire al Padre, scrisse questo curioso epitaffio:

“Re degli altri superbo altero cane,
Che d’orgoglio e d’invidia il mondo empiesti,
Hor cieco e vecchio in terra pur cadesti,
Di ch’alza al Ciel ogni huomo ambe le mane,
Suonano d’allegrezza le campane
Fan nuove squilli e tu fra cesti
D’ortiche e sterpi giaci e non ti desti
Crudel flagello della mani humane
Si ch’or contento è l’Aniumuccia e il resto
Dei tuoi nemici, can mastino e fero,
ma eran più se morivi più presto
fa feste e gode il secolo e il clero
e cani, e gatte, sol si rova mesto
il cadavere tuo fraciolo e nero
non ci darai più, spero
tentazione e tormenti, come hai fatto.
Quel ch’è avvenuto a te, venga anche al gatto”.

San Filippo non deve aver sorriso ascoltando queste parole. Amava troppo “Capriccio” per non pensare di ritrovarlo un giorno in paradiso.

BREVE STORIA DEL PENSIERO FILOSOFICO E TEOLOGICO

Il dibattito contemporaneo si rifà spesso, di fronte al mondo animale, agli orientamenti di fondo della storia del pensiero umano, alle stratificazioni del tempo, alle filosofie correnti. Manca tuttavia a tutt’oggi una sintesi globale.
La ricerca odierna è ristretta solo, in genere, ad alcuni studi settoriali e monografici. Siamo in un tempo di specializzazione scientifica e di “pensiero debole”. Eppure il presente nasce dal passato.
Le tappe storiche non vanno considerate in se stesse, ma nel loro lento incedere verso un arrivo comune, dal quale partono le nuove mentalità, presenti considerevolmente anche in campo laico. Vistosa, purtroppo, è la compresenza di fattori negativi, quali per esempio, l’organizzazione commerciale, puramente strumentale, del rapporto uomo-animale, con i soli squallidi fini di lucro.
Le radici di questa storia sono nel grande fondo comune a tutto l’Oriente arcaico e quindi anche nella Bibbia. Le varie tradizioni religiose sono una conseguenza delle differenti “immagini del mondo” da cui a loro volta derivano le diverse sensibilità etiche.
Pur confermando quanto già detto sul “mattatoio biblico”, ho l’impressione che alcuni vogliano addossare alla Bibbia una concezione antropocentrica che è stata invece, solo in seguito, l’interpretazione di alcune tradizioni cristiane influenzate dal pensiero greco sulla natura.
Il Libro della Genesi descrive la Creazione secondo due fonti distinte, la jahwista e la sacerdotale. Nella prima, la Creazione è percepita come un’unità globale. C’è chi vede una specie di “unione magica” di tutte le creature, espressa dal testo jahwista. E’ Dio stesso che presenta gli animali all’uomo per colmare la di Lui solitudine. L’uomo perciò dà il nome agli animali, non come segno di supremazia, come una certa tradizione esegetica afferma, ma per attestare la familiarità che ha con gli animali, che egli ormai ben conosce.
Anche dopo la creazione della donna che è l’aiuto adeguato all’uomo, sembra quasi che il redattore del testo non voglia fare una distinzione essenziale tra uomo ed animale: le minacce di distruzione poste sulla bocca di Jahvè, dopo il peccato originale, toccano insieme l’uomo e i suoi animali, che sono parte integrante del suo essere nel mondo.
La tradizione sacerdotale, tardiva, ha una visione più strutturata del mondo. L’uomo ha il privilegio regale di essere ad immagine di Dio, cioè di attestarne la presenza come le statue ricordavano nelle province l’imperatore. Nel mondo biblico Dio non può essere rappresentato, come lo era in Egitto, sotto forma di animale sacro. Diverso è il discorso delle visioni mistiche dei profeti.
Nell’Antico Testamento c’è una infinità di testi provenienti dalla tradizione apocalittica riguardanti gli animali. In uno stato di pace universale essi prederanno la loro aggressività: “Il lupo pascolerà con l’agnello” in un mondo pacificato dove la stessa alleanza, estesa anche al regno animali, diventerà segno di una “nuova creazione”. Bisognerà anche dire che, in questi testi, l’animale spesso immaginario, può assumere una valenza ambivalente e quindi demoniaca.
Tutto ciò suscita dei riflessi etico-giuridici documentabili nella Bibbia stessa. Accenno solo ad alcuni. Gli animali sono così vicini all’uomo, da essere visti in qualche senso responsabili di azioni malvagie, e quindi punibili: “…il bue che uccide un uomo deve essere ucciso”. Ma non mancano esortazioni alla protezione: secondo il Libro dell’Esodo gli animali che vivono liberamente vanno paragonati ai poveri mendicanti; secondo il Deuteronomio gli animali addomesticati hanno diritto ad una parte del raccolto per il proprio nutrimento.
Gli scritti del Nuovo Testamento, non avendo una preoccupazione specifica per la sorte degli animali in quanto tali, tranne quanto già precedentemente detto, sono in linea continua con l’Antico Testamento, pur superandone alcuni tabù, come quello della spartizione tra “puro” e “impuro” derivante dal raccolto mitico di Noè.
Per poter meglio situare la novità del dibattito contemporaneo sullo statuto ontologico e morale degli animali, accenno ai maggiori filoni di pensiero.
L’antichità classica, dall’antropomorfismo criticato dai presocratici, trova in Aristotele la riflessione più compiuta. Il fatto che l’uomo è “animale razionale” lo distingue dagli animali. Solo in lui la “nous” è capace di “teoria”, cioè di considerazione astratta, impossibile alla percezione puramente sensitiva degli animali. Da qui il tipico “antropocentrismo” aristotelico. Saranno gli stoici a parlare di un istinto originario, specifico per ogni essere, e di una dottrina finalistica degli istinti stessi. Filone, Plutarco, Celso e Porfirio, in funzione antistoica, difendono la ragionevolezza degli animali affermando la presenza delle “ragioni seminali” del Logos in ogni organismo vivente. Porfirio invita al vegetarismo in “De abstinentia”. Plutarco nel suo “De solertia animalum”, in un immaginario dialogo tra giovani cacciatori che discutono senza vincitori e vinti, se abbiano maggior quantità di ragione gli animali terrestri o acquatici, invita alla tesi della ragionevolezza.
Bisogna dire che il Cristianesimo ha attinto con maggior simpatia al filone stoico piuttosto che a quello dei suoi critici. Dopo i Padri della Chiesa, dei quali abbiamo già specificato le posizioni, con San Tommaso D’Aquino abbiamo una teologia speculativa più ontologica che utilitaristica: “Le piante sono per gli animali – scrive nella “Summa Contra Gentiles”- gli animali per l’uomo”. Anche se l’espressione ha un significato fortemente causale-finale e non semplicemente strumentale, le proposte normative dell’Aquinate sono relativamente povere: l’uomo può nutrirsi di animali. Essi, possedendo una “anima sensitiva” e quindi non sussistente e mortale, sono piuttosto “acta quam agentia”, degli “atti più che dei soggetti”.
L’uomo può usarne senza ingiuria, sia uccidendo che in altro modo…”.
Non si può negare, però, che San Tommaso è contro ogni comportamento arbitrariamente crudele verso gli animali. Anzi, distinguendo tra “affectus secundum rationem” ed “affectus secundum passionem” giudica moralmente desiderabile una misericordia verso gli animali. La fede nella creazione, l’influsso della zoologia aristotelica e della dottrina stoica dell’”appetitus naturalis”, fanno muovere l’Aquinate su una linea di antropocentrismo moderato. La freddezza nei confronti degli animali, priva del tono affettivo così presente in altri scritti medievali a lui contemporanei, è arrivata fino a noi e spiega la posizione di molti ecclesiastici e laici cristiani di oggi.
La Riforma Protestante nel XVI secolo non ha portato novità. Lutero parla del dolore degli animali assunto e redento nella prospettiva del Regno. Calvino accenna al fatto che le altre creature accompagnano l’uomo nella gloria, anche se è difficile indagare come. Zuiglio ha le sue considerazioni particolarmente “zoofile”, simili a quelle del pensiero umanistico. Il cattolico Tommaso Moro, nella sua celebre “Utopia”, farà la “critica alla caccia”.
La storia piega in senso negativo, partendo dalla nuova concezione del mondo, a partire dal XVII secolo con Cartesio. Secondo lui l’animale non è che una macchina uscita dalle mani di Dio. Che siano gli animali semplicemente “automata”, “macchine”, è dimostrabile dalla mancanza in loro di linguaggio.
La concezione meccanicista di Decartes nega agli animali qualsiasi sensazione, in senso positivo come piacere, in senso negativo come dolore.
Voltaire reagisce: “Che vergogna, che miseria, aver detto che le bestie sono macchine prive di conoscenza e sentimento, che fanno sempre tutto ciò che fanno nella stessa maniera, che non imparano nulla, non si perfezionano…”.
La reazione alle idee di Cartesio sposta inevitabilmente l’attenzione dallo studio ontologico degli animali da cui si potevano trarre conseguenze etico-normative, ad una tensione morale diretta. In Inghilterra prende inizio l’industrializzazione della natura. In America viene realizzato l’allevamento intensivo di animali con lo scopo del consumo esteso di carne.
L’inglese J. Bentahm, iniziatore del filone utilitarista, che considera prevalenti gli interessi dell’uomo, è per una “uccisione indolore”. Sono famose le sue parole: “Il problema non è: possono ragionare? Possono parlare?” ma “Possono soffrire?”. Sul “tormento degli animali” egli non vede nessuna giustificazione etica: “…ma esiste qualche motivo per cui si dovrebbe permettere che li tormentassimo? Si, parecchi”.
La filosofia morale del vegetariano Kant, che scrive un libro sulla “sofferenza degli animali” è sul fronte opposto. Se è vero che doveri “diretti” sono solo tra gli umani, esistono doveri “indiretti” normativamente rilevanti per gli animali. Per lui, come per San Tommaso, la crudeltà verso di essi ha tristi conseguenze sul comportamento degli stessi uomini.
Che gli animali siano dotati di una qualche forma di volontà viene affermato in seguito da Schopenhauer. Siamo ormai nel XIX secolo. Egli si domanda se sia possibile, come sosteneva Kant, pensare ai valori “in sé”, visto che “…ogni valore è una quantità doppiamente comparativa, riguardo all’essere in se stesso e nel confronto con qualcosa d’altro che serve a valutarlo”. Sulla linea di Bentham egli afferma: “La sconfinata pietà per tutti gli esseri viventi è la più salda garanzia del buon comportamento morale e non ha bisogno di alcuna casistica”.
A contatto con queste dottrine, la teologia scopre una sensibilità più marcata, rispetto a quella manifestatasi con Tommaso D’Aquino, con Schleiermacher e Hamman nel mondo evangelico, e con Sailer in quello cattolico. Sul fronte della spiritualità e della visione romantica della natura, Albert Schweitzer, osservando che tutta l’etica è fondata essenzialmente sulla esperienza della propria volontà di vita in mezzo a quella di ogni organismo vivente, dichiara che è proprio questa presenza multiforme della vita ad avere un carattere di sacralità di cui bisogna avere il massimo rispetto. Solo Barth dimostra comprensione per questa concezione di vita dello Schweitzer, che anche se abbastanza indifferenziata e vitalista, mette sul tappeto quesiti etici che non si possono eludere.
Il dibattito, rimasto fino a poco tempo fa appannaggio quasi esclusivo dei filosofi morali, sta passando, come vedremo, ai teologi moralisti. La Chiesa, la grande assente, dall’interesse alla “Teologia delle realtà terrestri” deve pur dire qualcosa sulla “teologia della natura” e quindi degli animali, per non dimenticare una parte così considerevole dell’universo.

IL MAGISTERO DELLA CHIESA OGGI

Fino alla metà degli anni ’60 nessuno aveva accolto il cauto accenno di Schopenhauer, che chiamava in causa il pensiero biblico cristiano, addebitandogli lo sfruttamento degli animali, giudicati privi di ogni elemento spirituale, e quindi senza alcun diritto nei riguardi dell’uomo-padrone.
Il primo a riprendere questa accusa, scatenando negli Stati Uniti e in Germania un vivace dibattito, pare sia stato Lynn White Jr. il processo contro la Chiesa, lentamente e con argomenti diversi, venne poi sviluppato da Carl Amery, Gerhard Liedke, Ugo Krolzih, Eugen Drewermann.
Si è parlato di ritorno al Cristianesimo genuino, quale soggiace nelle Lettere di Giacomo o anche nell’”Esamerone” e di Sant’Agostino nel “De moribus Ecclesiae cattolicae”. Si è detto anche che esistono altri fattori, non addebitabili al Cristianesimo.
Si è cercata una causa anche nel concetto di lavoro, diverso dalla concezione classica dispregiativa, della Chiesa dei primi secoli e della tradizione monastica; e persino della ricerca in chiave di interpretazione psicanalitica del “principio malefico jahwista del dominio dell’uomo sulla natura”.
Il dibattito non poteva non indirizzare la questione verso altre direzioni culturali, che ebbero il merito di far proclamare nel 1978, da parte dell’Unesco, la «Dichiarazione universale dei diritti dell’animale», la «Dichiarazione», che può servire come base di partenza per una ulteriore elaborazione dei vari problemi in chiave non soltanto teorica ma anche operativa, assegna esplicitamente agli animali il diritto alla vita, al rispetto e alla protezione da parte dell’uomo, a non essere maltrattati, alla libertà nel proprio ambiente, a non essere abbandonati, alla non sperimentazione implicante sofferenze fisiche o psichiche, alla non compatibilità di esibizioni o spettacoli da circo, ad essere trattati con rispetto anche da morti, alla difesa per legge “come i diritti dell’uomo”.
E la Chiesa? La Chiesa non poteva stare a guardare. Doveva scendere in campo e almeno per tre motivi: ristabilire la giusta interpretazione della Bibbia in genere, e dei primi capitoli della Genesi in particolare non sempre conosciuti sufficientemente; invitare i teologi a riscoprire un nuovo tipo di rapporto “uomo-animali” uscendo da un silenzio arcaico; far affrontare nella predicazione e nella catechesi anche le tematiche ambientali, “segno dei tempi” della nostra generazione.
Non sono molti coloro che conoscono l’incoraggiamento dei Papi, nel secolo scorso, verso la protezione degli animali. Pio IX loda la legge francese Grammont del 1850 “…per la protezione giuridica degli animali”. Ai tempi di Leone XIII il segretario di Stato cardinal Rampolla, a nome del Papa si felicita per “…lo scopo altamente umanitari e cristiano” della Società per la protezione degli animali di Parigi. Lo stesso fa nel 1905 il cardinal Merry del Val a nome di Pio X per alcune società austriache. Benedetto XV era indignato per la caccia. Eppure i suoi predecessori avevano una “casa di caccia” alla Magliana…
Benedetto XV, Pio IX, Pio XII, hanno rispettivamente ricevuto in udienza e lodato Società e Leghe ambiente, italiani, inglesi, francesi, come si può leggere negli “Acta apostolicae Sedis”. Pio XII nel novembre del 1950 in una udienza privata alla duchessa Hamilton che gli consegnava una supplica a nome di più di duecento società di diversi paesi, protettrici degli animali, disse: “Ogni desiderio inconsiderato di uccidere gli animali, ogni crudeltà ignobile verso di essi devono essere condannati”.
Paolo VI è stato il primo pontefice ad intervenire esplicitamente sulla natura. Lo ha fatto in più riprese. Nel 1971, parlando ad un Convegno sui problemi dell’inquinamento in Campidoglio; nella Lettera Apostolica “Octogesima Adveniens”, in cui chiama i cristiani a dedicare maggiore attenzione alla natura; nel documento finale “La giustizia nel mondo” del Sinodo dei Vescovi. Nel 1972, nel messaggio al congresso di Stoccolma, in cui chiede un cambiamento di mentalità e la collaborazione di tutti, afferma: “La Chiesa è pronta a fare la sua parte”.
I vescovi della Repubblica Americana si occupano, nel frattempo, anche se concisamente, del problema ecologico in una loro lettera pastorale del 1 Agosto 1982.
Sarà Giovanni Paolo II a riprendere il discorso ecologico. Karol Wojtyla, da cardinale di Cracovia, aveva scritto già nel 1962 in “Amore e responsabilità”: “Gli animali sono dotati di sensibilità e capaci di soffrire: si esige da parte dell’uomo che non li faccia soffrire e che non li torturi fisicamente…”.
Il padre Brukberger ha fatto conoscere un aneddoto accaduto il giorno stesso della partenza del card. Woityla per il Conclave in cui doveva diventare papa. Una anziana donna, disperata perché gli avevano rubato il gatto, chiese l’aiuto del cardinale che stava per montare in macchina per andare all’aeroporto. Fece montare in macchina la donna e andò con lei a farsi ridare l’animale. Per poco non perdeva l’aereo…
Giovanni Paolo II ama gli animali. Dicono che abbia fatto venire in Vaticano da Cracovia il gatto che aveva nel suo episcopio. Nel 1971 ha detto a M.Paolo Kruse della Repubblica Federale Tedesca che “…la protezione degli animali è un’etica cristiana”.
Nel 1981, alla Lega di San Francesco, fondata dal grande pioniere Mons. Fusaro, ha dichiarato: “E’ piacevole per me trovarmi con voi, meritevoli ecologisti, e volentieri vi dò il mio incoraggiamento per l’opera che voi compite per la salvaguardia del patrimonio della natura e la protezione degli animali, i nostri fratelli più piccoli, come li chiamava il poverello di Assisi”.
Papa Wojtyla ha nominato, nel 1979, agli inizi del suo pontificato, questo Santo come celeste Patrono degli ecologisti. Ha parlato dell’ecologia ai giovani a Viterbo nel 1984, a quelli di Ravenna nel 1986, ai lavoratori dell’ENEL di Civitavecchia e ai forestali a Pramarino di San Pietro di Cadore nel 1987, tornando più volte sull’argomento nelle udienze del mercoledì.
Eccezionale per i suoi risvolti teologici, la sua Enciclica “Sollecitudo rei socialis” del 1987, con un chiaro invito ai teologi a studiare un nuovo rapporto uomo-animali. Due prestigiose riviste cattoliche, “Concilium” e la “Rivista di teologia morale”, accogliendo il desiderio del Papa, hanno dedicato un numero unico all’argomento.
Dopo aver spronato, nel 1988, i parlamentari europei a Strasburgo a “…riconciliarsi con la creazione, vegliando sull’integrità della natura, sulla sua flora, sulla sua fauna…” il 1 gennaio 1990 ci ha donato il “Messaggio sulla Pace e la salvaguardia del creato” che ha fatto gioire gli animalisti, che non sospettavano che il 10 gennaio sarebbe tornato sull’argomento, affermando a chiare lettere che “…non solo l’uomo, ma anche gli animali hanno un soffio divino”. L’intento del Papa non è stato metafisico (la composizione di anima e corpo degli animali), ma morale. Nessuno più, dopo questa riscoperta biblica del Papa, potrà negare un valore creaturale anche ai più piccoli esseri del mondo animale. La stampa ha parlato di un paradiso per gli animali, ma anche se ciò rientra nel mistero d’amore di Dio, come vedremo, non è né esplicito, né implicito nel discorso del Papa.
Si deve per completezza tener conto anche dell’insegnamento di alcuni episcopati. Nel 1985 c’è stato un documento congiunto dal titolo “Responsabilità per il creato” della Chiesa evangelica e della Chiesa cattolica di Germania. In esso è sottolineato che c’è “…un modo di intendere la natura che pone erroneamente al centro l’uomo e considera la natura solo come oggetto”.
Nel 1987, i vescovi della Repubblica Dominicana, non nuovi all’argomento, vi tornano con un corposo documento che si conclude con l’appello alla “riconciliazione non solo degli uomini tra loro, ma anche di questi con la natura”. Nella tarda estate del 1988, anche la conferenza episcopale della Lombardia tratta del mondo, Konrad Lorenz diventa l’iniziatore dell’etologia, la scienza che studia il comportamento degli animali.
Il linguaggio particolare degli scimpanzé è stato studiato da Peter JenKins. Lilly-Marline Russow ha sottolineato l’importanza della specie; Donald Van De Veer, la giustizia interspecifica, Peter Siner, gli allevamenti intensivi; Tom Regan, il loro diritto di vivere.
La sofferenza degli animali è stata valutata scientificamente da Marian Stamp Kawkins, da Harriet Shleifer, da Edward Evans. Richard Ryder ha scritto sugli esperimenti sugli animali.
Ho avuto la fortuna di conoscere due grandi: Hans Ruesh, il fondatore di “Imperatrice nuda” e il prof. Dott. Pietro Croce. Tutti e due magistralmente hanno approfondito il problema angosciante della vivisezione.
Le opinioni “evidenti” e da lungo considerate come naturali e necessarie, lo sono soltanto perché convenienti e passivamente accettate. Le differenze tra le reazioni degli organi animali e degli organi umani alle sostanze chimiche sono impressionanti. Quante medicine vengono ritirate dal mercato, perché sebbene sperimentate sugli animali, vengono scoperte dannose per l’uomo.
Auguriamoci che i medici finalmente chiedano che la sperimentazione animale sia sostituita da altri metodi. Sanno le donne che i loro cosmetici vengono sperimentati “legalmente” con l’LSD 50, sugli occhi dei conigli, e che non sono tossici al disotto del 50% della morte o cecità di questi animali? Scrive Pietro Croce: “Una buona parte della ricerca medica vien fatta a beneficio dei ricercatori, piuttosto che a beneficio dell’umanità”.
La seconda prospettiva, che è sempre almeno implicita negli studiosi, è il “significato etico-sociale” che sottende all’ecologia e quindi ad ogni vero ecologismo. Non sono dell’avviso di nutrire “diffidenze”, nei riguardi di chi si batte per l’ecosistema, emendo l’inquinamento di un rinnovato panteismo o di una forma più raffinata di scientismo materialista.
Le risorse di un sapere sperimentale per gli equilibri degli ecosistemi non debbono trovarsi d’altra parte di fronte all’ingombro di una “rimistificazione della natura”, sia essa realizzata attraverso il ricorso alle dottrine orientali, o attraverso vari francescanesimi, o anche attraverso un ritorno alla mistica romantica della natura.
Da temere è la cattiva demagogia di una politica che strumentalizza la questione ambientale per la probabilità certa di trovare un facile consenso popolare. E’ il rischio più grande per svuotare le vere istanze ambientali.
Gli studiosi che più stanno ricercando un significato alla nostra problematica sono diversi. Accenniamo ad alcuni. Peter Siner tratta l’uguaglianza degli animali; Tom Regan dei diritti degli animali e del loro diritto di vivere; James Rachels del diritto alla libertà.
Joel Feimberg si domanda se gli animali possono avere diritti; Peter Miller se gli animali possono avere interessi degli del nostro interesse morale; Silvana Castiglione illustra in un suo studio alcune prospettive bioetiche e giuridiche.
Anche in campo cattolico, la discussione morale attorno ai diritti degli animali rappresenta un’occasione per meglio esplorare le debolezze nascoste in molte convinzioni etiche che sembravano a prima vista evidenti. Finora era sempre valsa la “correlazione” tra diritti e doveri, ritenendo che gli animali non potendo avere obbligazioni non possano essere soggetti di diritto. L’attuazione degli interessi specifici degli animali aprirà, anche per i credenti, una nuova visione e nuovi comportamenti.
Siamo chiamati tutti, credenti e non, a vedere nell’animale non un semplice materiale organico a piena disposizione dell’uomo, un coagulo di molecole, ma un organismo vivente in un insieme di relazioni non arbitrarie, che l’uomo deve ben conoscere prima di modificare.
I miei quattro gatti, Astro, Marx, Mary e Coccola, hanno una loro identità. Quando, per una conferenza, torno tardi la sera, non vanno a dormire; giro piano la chiave nella toppa, ma loro sono tutti lì ad aspettarmi fuori dalla porta. Bisogna conoscerli gli animali per amarli!
Un’ultima prospettiva, molto importante, è il nuovo desiderabile approccio teologico. Come salvarci infatti da quella Scilla e Cariddi, che sono l’antropocentrismo e il biocentrismo?
Il termine “antropocentrismo”, soprattutto presso gli ecologisti, è un’eccezione del tutto spregiativa. Sarebbe inopportuno e inutile recuperarne il concetto. Anche perché abbiamo veduto che non dipende dalla tradizione biblica, almeno secondo la fonte letteraria jahvista. Comunque l’antropocentrismo ha perduto identità e rilevanza nel mondo moderno.
Il “biocentrismo”, d’altra parte, è una concezione troppo riduttiva per il credente, anche se fuori dai pregiudizi agnostici e da una falsa educazione religiosa, non può aprirsi al mistero.
Una visione olistica, cioè complessiva, globale, organica, che pone l'accento più sul tutto che sulle parti, ci aiuta a considerare la terra come un unico organismo vivente, del quale fanno parte tutti gli esseri viventi, compreso l'uomo. Riconosce anche all'intero ecosistema e a tutte le sue componenti un valore in sé, oggettivo, con dei diritti per tutti, ma non tiene conto della spiritualità particolare che l'uomo ha, a differenza degli altri esseri.
Siamo infatti tutti animali, ma non allo stesso modo. Per quanto amiamo gli animali e solo Dio sa come, nell'uomo il cosmo trova la sua autenticità e la sua verità facendosi voce della creazione a cui Egli ha dato il nome, l'homo sapiens raggiunge il punto più alto del suo essere. L'homo faber porta al perfezionamento la terra affidatagli da Dio. L'homo contemplativus loda Dio, come San Francesco, vedendo in tutto il segno di Dio, conoscendo la Sua sapienza, bontà, e bellezza.
Tuttavia, tra un antropocentrismo che non gode più buona fama e un biocentrismo che potrebbe rivelarsi agnostico, scelgo da credente il teocentrismo. La creazione è creazione di Dio, della quale Dio è e resta il Signore, cosicchè l'uomo non può divenire mai il padrone assoluto.
L'uomo deve essere ad immagine di Dio, non solo nel suo essere, ma anche nel suo agire. Perciò non può avere sulla natura un potere dispotico e distruttivo, e non può, senza andare contro il disegno di Dio, sfruttarla selvaggiamente e irrazionalmente.
La natura non è divina, non procede da Dio per emanazione o azione, l'atto della creazione pone una distanza infinita e invalicabile tra Dio e la sua opera.
Queste verità in cui credono i cattolici sono state approfondite egregiamente da Moltmann, Kasper, ed altri autori moderni.
Quanto al teocentrismo da me rivendicato, penso che sia la sola via per un recupero totale della riconsiderazione che ci deve essere tra uomini ed animali.
Altre vie, come il revisionismo esegetico, che tenta ampiricamente di avvalersi di testi biblici disparati, l'ipotesi di Witeheard che raccomanda l’idea di un Dio limitato impegnato in continui esperimenti con la Sua creazione, la ri-mistificazione della natura, ispirata a idee romantiche o orientaleggianti, mi appaiono come strade interessanti, ma parziali. La dignità a cui hanno diritto gli animali viene da Dio prima ancora che dagli uomini.

PRIMAVERA ECOLOGICA

Molti fatti testimoniano che è esploso un grande interesse ecologico. Si potrebbe dire una vera primavera. Annuari e periodici riferiscono che dappertutto spuntano denunce di inquinamento e di inquinatori, campagne e iniziative in favore degli animali, richieste di leggi contro l'uccisione dei cani nei canili, contro il randagismo...
Tra le iniziative alle quali io stesso ho partecipato, la bruciatura delle pellicce in Campo dei Fiori, la marcia contro il randagismo e l'abbandono degli animali durante le vacanze, le campagne contro la corrida, la caccia, la strage degli agnelli.
I mass media hanno il grande merito di far conoscere queste manifestazioni, educando così responsabilmente la gente. Per quanto mi riguarda possiedo una voluminosa “rassegna stampa” sui miei interventi da solo o insieme a movimenti ecologisti, come la “Lav”, la “Lega di San Francesco”, il “Movimento di liberazione animale”, il movimento animalista “U.N.A. Uomo Natura Animale”.
Tutta la stampa riferì della 1° Festa di San Francesco celebrata il 4 ottobre del 1978, ispirata dalla assistente sociale signorina Carolina Grieco, che venne in chiesa con la sua scolaresca insieme agli animali che i bambini avevano in casa.
Il primo ad entrare in una chiesa, dai tempi di Carlo Magno, l'Imperatore che aveva proibito l'ingresso agli animali, fu “Willy” un “coocker spaniel”. Mi ascoltava benevolmente quando suonavo l'organo, accovacciato accanto alla consolle, tanto che gli dicevo: “La gente penserà che è musica da cani...”. I bambini parteciparono con gioia alla manifestazione, che non era una Messa come riferirono i giornali, ma una benedizione con la lettura del Cantico delle Creature.
Anche gli anziani, con il loro cane, assistevano alla festa con gli occhi lucidi. Vennero a sapere che, da quel momento, tutte le volte che lo volevano, potevano entrare in chiesa, anche durante la Messa, con il loro animale.
Per me era un piccolo segno del cambiamento di mentalità all'interno del mondo cattolico, che ha un orientamento dominante – non si può nascondere – di indifferenza e di disinteresse, se non proprio di rifiuto e di opposizione.
Puntualmente ogni anno, il 4 ottobre, abbiamo rinnovato la Festa che, nel 1990 dovremmo celebrare per la grande quantità di gente, a piazza del Pantheon, benedicendo così tutti gli animali della città. A Roma, oltre gli animali domestici, ci sono le tartarughe di acqua dolce, le anatre e le papere, le nutrie, gli storni, il falco, il nibbio, la civetta, l'allocco, il gabbiano reale, il passero solitario, il martin pescatore e... la pantera, introvabile nelle campagne intorno alla capitale.
Benedicendoli, pensai sopratutto ai miei quattro gatti e ai gabbiani che, quando il mare è mosso, risalgono il Tevere e trasformano i tetti della mia chiesa in un'isola felice.
Un giorno, la Basilica sembrava un tappeto nero. Era la festa dei terranova, cagnoni che arrivano a pesare fino a 180 chili, e che salvano i naufraghi, come potemmo appurare nelle prove di salvataggio al Lago di Castelgandolfo.
Nei venticinquesimi di matrimonio, ma anche nei matrimoni, il cane accovacciato accanto agli sposi, come in un affresco del Tiepolo, rappresenta tutto il quotidiano e il feriale della vita familiare. Un'altra volta ci fu un funerale. Il cane che era stato di compagnia alla solitudine del padrone ora gli stava accanto proprio come il più afflitto dei parenti.
Per la “Campagna contro la corrida” riscoprii la Bolla “De salute gregis” pubblicata nel 1567 da San Pio V. In essa il Papa condannava il tradizionale spettacolo iberico “sanguinoso e vergognoso, più degno dei demoni che degli uomini” negando il funerale religioso ai toreri che perdevano la vita nell'arena e comminando la scomunica ai religiosi che vi partecipavano.
Inutile dire che, soprattutto in Spagna, grande fu la reazione. Un giornalista spagnolo di “Diario 16” mi fece dire che nella penisola iberica tutti erano scomunicati, dal re Juan Carlos al'ultimo dei “banderilloros”. A parte che le banderillas vengono tutt'oggi preparate e infiocchettate da un istituto di suore e che un padre francescano insegna da una cattedra di tauromachia...
Ricordo anche una ragazza che a Valencia, dopo che le ebbi dimostrato le immense sofferenze del toro e del cavallo, guardandomi con un pizzico di commiserazione, mi rispose: “…ma la corrida è una cultura...” .
Ogni anno la stampa si occupa della mia “Campagna contro la strage degli agnelli”. Queste povere bestie vengono uccise a migliaia non a norma di legge, lasciandole penzolare per ore finchè esce l'ultima goccia di sangue. Questa carne più bianca, e perciò più preziosa per i commercianti, è piena delle tossine che si sprigionano dai meccanismi di difesa degli animali stessi.
“Mangiate l'erba!” intitolava un giornale. “Roma divisa a metà” scriveva un altro. La verità era che, prima di Pasqua, avevo fatto entrare in chiesa tre agnellini. Volevo spiegare ai fedeli perchè nella Messa diciamo 5 volte: “Agnello di Dio...”. Il simbolismo dell'agnello è tra i più belli: mite e bello com'è, simile al Cristo, che innocente è stato condotto al macello, come afferma Isaia.
Al termine della celebrazione molti accarezzavano gli agnelli e io, vegetariano, non seppi trattenermi dal dire: “E' inutile accarezzarli se poi ve li mangiate! Fatene a meno a Pasqua!”.
Fui chiamato da varie televisioni e non mi parve vero, a “Maurizio Costanzo Show” - era il Venerdì Santo – di leggere tra la commozione generale, rara in uno “spettacolo di varia umanità”, la “Preghiera dell'agnello”.
“Signore, sono un piccolo agnello, nato da un sogno della Tua creazione. A noi agnelli, per breve tempo ci è dato di brucare, sulle colline, l'erba madida di rugiada e scaldata dai primi raggi del sole.
C'è chi crede di poter festeggiare la Tua Pasqua vittoriosa con la nostra morte, una morte lunga, crudele.
Assieme ad altri agnelli resterò appeso, da vivo, perchè la mia crne sia più bianca, in attesa che l'ultima goccia di sangue esca dalle mie vene tra immense sofferenze.
Con la sensibilità allo spasmo e gli occhi lacrimanti, guarderò a Te, che hai voluto essere chiamato Agnello di Dio. Per questa tua partecipazione al mio dolore, fa che possa almeno vivere assieme ai miei amici in quel soggiorno felice che è il Tuo paradiso, per specchiarmi per sempre nella limpidezza del Tuo amore eterno. Amen”.
Oltre la “Rassegna Stampa”, molte lettere mi sono arrivate dall'Italia e dall'Estero. Ne cito alcune, riferendo la località di provenienza, essendo tutte di plauso per le iniziative prese a favore degli animali. Dall'Italia: Roma, Milano, Torino, Napoli, Livorno, Udine. Lecce, Parma, Crema, Padova, Rimini, Vicenza, Cervia, Porto Santo Stefano, Como, Isola dei Liri, Lanciano, Trieste, Alessandria, Reggio Emilia, Pescara, Brescia, Bologna, Monza, Gubbio, Catania, Messina, Palermo, Moncalieri, San Giorgio a Cremano, Genova, Umbertide.
Da quest'ultima località mi hanno scritto gli alunni della II e III C della Scuola Media Giovanni Pascoli. Questi bravi ragazzi mi hanno riferito, sgomenti, che la loro insegnante di religione avrebbe loro detto che “…gli animali, poiché non hanno la ragione, non valgono nulla, e quindi possono essere gettati nel secchio...”. Ne è nata una corrispondenza e addirittura un loro viaggio a Roma, per vedere questa “bestia rara” che è il sottoscritto. E' stata per me una giornata indimenticabile.
Dall’estero mi hanno scritto dai seguenti Paesi: Inghilterra, Scozia, Usa, Spagna, Austria, Belgio, Francia, Olanda, Germania, Svizzera, Australia.
L’interesse per gli animali si è esteso alle tre reti televisive, a televisioni private, tra le quali GBR, Canale %, e diverse trasmissioni radiofoniche RAI ed anche straniere, con interviste con la Spagna, Germania, Romania.
Sono del tutto cosciente che il mio è stato il tipico “sasso nello stagno”. A onde concentriche, un gesto simbolico, quale quello di aprire al chiesa agli animali permettendo agli anziani di entrare con il loro cane, si è allargato trovando sintonia e apprezzamento da parte di molti. Un piccolo contributo che una grande primavera ecologica, favorita anche da non pochi valenti laici di estrazione ideologica diversa, ponga finalmente fine alle sofferenze degli animali.

CIELI E TERRE NUOVE

L'ambiente in cui si muove l'animale non è solo una foresta, uno stagno, un deserto: è l'universo intero. C'è voluta la stessa immensità per produrre, in molto tempo, un cane randagio e le pulci che ha sulla schiena. Come scoprire l'infinito che si cela dietro ogni creatura?
Ogni essere non è una frangia appena dell'evoluzione; è una risposta ad un piano evidente che si realizza minuziosamente. Darwin parlava di “terra animale”: aveva constatato che i vermi muovono e trasformano la terra fino a due o tre metri di profondità, in misura di due o quattro tonnellate per ettaro di prato.
Sui grandi vecchi alberi dal Lungotevere Sangallo, dietro la mia chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, le piccole foglie verdi che si ostinano a rinascere a primavera, sono il segno di una persistenza universale a vivere. Si scoprono ogni anno nel mondo 4 o 5 nuove specie di uccelli e nuovi comportamenti si scoprono tra le specie già note. La linea che sale di teilhardiana memoria nel tempo verso Punto Omega, riguarda anche gli animali? Secondo questo grande paleontologo, il “Gesuita proibito”, Teilhard de Chardin, ci deve essere stata una preparazione nell'atomo perchè l'uomo avesse il pensiero.
“It thinks”, “Si pensa, nel cosmo, poiché io penso”, afferma la nuova filosofia americana. Ilya Prigogine, premio Nobel per la Chimica, ha dimostrato che esiste una predestinazione della materia a divenire vivente. Lo stesso San Tommaso d'Aquino riconosceva la tendenza della materia ad accedere ad uno stadio superiore.
“Le bestie non sono così bestie come si pensa”, affermava Molière. Oggi sono gli etologi a fare da grande rivelazione. Già Charles Darwin, dedicando uno dei suoi libri ai moduli di comportamento con cui gli animali esprimono le loro emozioni, parte dal presupposto che abbiano esperienze mentali. Lo conferma un autorevole etologo vivente, il Griffen.
Più impariamo a conoscere gli animali, più ci rendiamo conto che stanno cadendo una ad una le barriere che si riteneva ci dividessero dal loro mondo. Le esperienze condotte da Konrad Lorenz e l'ochetta selvaggia Martina a cui egli faceva da mamma, da Diane Fossey ed i suoi gorilla di montagna, dalla ricercatrice Anne Rasa e le manguste nane, o dalla naturalista Hope Ryden ed i suoi castori, e altre esperienze ancora, hanno fatto constatare che gli animali prendono decisioni, modificano il loro comportamento, memorizzano ed imparano, comunicano con i compagni. San Francesco parlava con gli uccelli. Konrad Lorenz ha continuato il discorso con loro.
Sono strabilianti i risultati ottenuti dai primatologi, che sono riusciti a dialogare con le scimmie antropoidi. Quando l'addestratrice della gorilla Koko, le ha comunicato, con il linguaggio gentuale usato in America con i sordomuti, la dolorosa notizia che il suo compagno di giochi, il gattino All Ball, era morto, Koko è rimasta per tutto il giorno con la testa tra le mani, rifiutando il cibo.
Cosa dobbiamo pensare? Ogni essere è un centro dell'universo. La sua sparizione dovrebbe minare l'equilibrio del cosmo, disperderlo in schegge infinite in un'assurdità senza nome. Se l'universo resiste a questo cataclisma, è perchè è una cosa diversa da ciò che si crede superficialmente. “Se le porte della perfezione fossero ripulite -scrive William Blake, - tutto apparirebbe com'è, infinito”.
Il filosofo J. Maritain, pur essendo un tomista fervente, era scandalizzato dalle idee degli Scolastici. Con il rinforzo delle vedute pseudo scientifiche del loro tempo, riprendendo una definizione di Aristotele, reputavano la donna “Aliquid deficiens et occasionatum”; in pratica, un maschio mancato. Certe definizioni dell'animale non procedono dallo stesso metodo usato per la definizione della donna?
L'Umanesimo veramente integrale non è solo il rapporto Uomo-Dio, ma il rapporto Uomo-Creazione-Dio. “Uomini, natura e animali, sono tutti sulla stessa barca”, ha detto un giorno Papa Luciani. “Se mi dicessero che per raggiungere un certo scopo dovrei uccidere una formica, - confessò una volta Giovanni XXIII – io non lo farei”. Paolo VI, alla chiusura del concilio, nel benedire i presenti, si chinò a mettere una medaglia al cane di un cieco.
Si può avere un'idea dell'amore misterioso di Dio per gli esseri? Egli si dà in pienezza anche agli infimi. Ogni creatura è un miracolo di grazia. C'è un'infinita distanza tra l'uomo e un insetto, ma quanta è la distanza tra l'insetto e il nulla?
Dall'amore di Dio sgorga il valore delle creature. Il suo amore ha sempre una causa ed un fine divini: non può perciò essere interrotto neppure dalla morte. Certamente non sappiamo come: dobbiamo lasciare intatto il mistero. Abbiamo bisogno di identificare in alcune formule la nostra fede, ma non possiamo predicare il mistero e poi riempirlo di formule catechistiche. Diceva Shakespeare: “Ci sono più cose tra la terra ed il cielo che non nella tua filosofia”.
L'animale può ancora ignorare la preghiera rivolta a Dio; non ignora certamente la preghiera rivolta all'uomo “immagine di Dio”. Se siamo responsabili della Creazione, c'è una mediazione da compiere che “sovranimalizza” gli animali. “Hanno un segreto divino”, ha scritto Léon Bloy.
La religione vedica insegna in India che ogni essere vivente richiede un principio immortale. La “vacca sacra” è chiamata “go”, cioè “raggio di sole”, “illuminazione spirituale”. Per gli antichi Egizi e per gli animisti africani l'animale veniva divinizzato. Da noi, visto che il verbo si è unito alla materia, non si potrà dare una definizione dell'animale, fondata sulla religione e sulla scienza?
Dio non si stanca di ripetere: “Non godo della morte di chi muore”.
Giobbe arriva a dire ai vermi che lo attorniano: “Mia madre, sorelle mie siete voi”. San Paolo, forse guardando con melanconia le tragiche sassose montagne di Grecia, esclama: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio... Tutta la creazione fino a quel giorno geme nel travaglio del parto”.. “Allora si rivelerà la gloria del Signore ed ogni creatura la vedrà”, ha affermato il profeta Isaia.
Solo “a tentoni”, come scrive San Paolo, possiamo conoscere il mistero che ci attornia. Il Creato non è solo un fondale per l'uomo, cosa sarebbero i “cieli nuovi e la terra nuova”, spopolati dagli esseri che fanno con l'uomo i cieli e la terra?
Paolo VI, ad un bambino che piangeva la morte del suo cagnolino, nella parrocchia di cui ero parroco ad Acilia, ha detto: “Se continuerai ad essere buono, rivedrai il tuo cagnolino nel mistero di Cristo”. Nessuna morte, neppure quella degli animali si attua fuori della morte di Cristo. Egli ha riconciliato a sé “…sia le cose che sono sulla terra, sia quelle nei cieli”.
E' risaputo che i profeti vedevano il futuro di Dio in dissolvenza al presente. Il grande Ezechiele profetizza:

 

“A te, figlio dell'uomo, dice il Signore Dio:
Annunzia agli uccelli di ogni specie
e a tutte le bestie selvatiche:
Radunatevi, venite raccoglietevi da ogni parte
sul sacrificio che offro a voi...
alla mia tavola vi sazierete...
Tutte le genti vedranno
la giustizia che avrò fatto
e la mano che avrò posta su di voi...
non vi nasconderò il mio volto
effonderò il mio spirito”.

 

Mario Canciani

biblista e scrittore italiano

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