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MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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Paolo De Benedetti

I nostri fratelli minori. Per una teologia degli animali

Nel linguaggio rabbinico, la frase za’ar ba’alè chajjim vuol dire “cura per i viventi”, e con il termine “viventi” ci si riferisce sia agli uomini che alle bestie, senza distinzione alcuna. Il fondamento comune a uomini e animali si può illustrare con due testi, che vorrei citare qui, testi separati fra loro da migliaia di anni, eppure singolarmente affini. Il primo è biblico: “Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti. Non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità. Tutti sono diretti verso la medesima dimora: tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere. Chi sa se il soffio vitale dell’uomo salga in alto e se quello della bestia scenda in basso nella terra?” (Qo 3, 19-21). Il secondo testo è una voce di bambini. E’ una pagina didiario redatto in una scuola materna di Riesi in Sicilia:“Gianfranco stava camminando, ha gridato, ha visto uscire un uccello da un buco nel muro, ha guardato: c’erano cinque uova in un nido. Sarino ha preso un uovo e l’ha rotto. E’ uscito sangue, dentro c’era l’uccello piccolo piccolo, aveva già il becco e poche penne, era fatto di carne come noi”. Questo piccolo testo sembra illustrare quel detto rabbinico secondo il quale lo Spirito Santo, dopo aver lasciato i profeti, è andato nei bambini.
Ma in che cosa l’uomo e l’animale sono uguali? E’ un problema che occupa una parte della riflessione sia teologica sia animalista. Una delle tante affermazioni in proposito è quella di Piero Stefani: “Il mondo animale rappresenta la sfera in cui violenza e sofferenza non possono collegarsi con una colpevolezza personale”. L’animale, se potesse parlare, non può dire: “Soffro perché ho peccato”.
Un’altra affermazione importante è quella di Peter Singer nell’introduzione del volume da lui curato dove cita Jeremy Bentham e si pone il dilemma se l’animale ha la ragione o il linguaggio; per la prima di solito si decide per il no (ma anche qui bisognerebbe intendersi sulle parole), per il linguaggio a volte si risponde positivamente, a volte negativamente. Qual’è la vera risposta alla domanda di eguaglianza? E’ la capacità di
ragione o forse la capacità di parola? “Ma un cavallo o un cane adulto sono, senza paragoni, più razionali e maggiormente capaci di comunicare di quanto non lo sia un neonato di un giorno, di una settimana, o anche di un mese. Ma anche se fosse diversamente, che cosa importerebbe? Il problema non è: ‘possono ragionare’ e neanche ‘possono parlare’ bensì ‘possono soffrire’” (o.c. p. 18)
Nell’ambito cristiano è pienamente condivisibile ciò che Michel Damien afferma, ossia che nel cristianesimo esiste “una formidabile carenza di pensiero” a questo proposito. Veramente le chiese hanno manifestato e in parte manifestano ancora una formidabile carenza di pensiero: “Il cristiano ha anzi un handicap: una cultura filosofica arcaica che polarizza la sua attenzione su se stesso a spese dell'ambiente”.
Gli esempi da portare a sostegno di questa tesi sono numerosi; mi limiterò a citare una polemica da me sostenuta qualche anno fa, contro il cardinal Palazzini. Questi, secondo l’abitudine per la quale i cardinali intervengono in qualunque campo dello scibile, era intervenuto a proposito dell’appello che ogni anno a Pasqua si fa contro il massacro degli agnelli e molto confusamente) sulla questione dell’antivivisezionismo; i
giornali hanno riportato la sua seguente dichiarazione: “Gli antivivisezionisti pensino di più alle violenze che subisce la vita umana e lascino stare gli animali, il rischio è che diventino essi stessi animali”. Si potrebbe ironizzare che questo rischio sarebbe, semmai, un augurio per gli uomini! Questa “volgarità teologica” non è un fatto singolare. In tale dichiarazione il cardinale diceva anche che mangiare l’agnello pasquale, non solo è lecito, ma doveroso e meritorio. Commentando questa dichiarazione io avevo scritto a “Il Regno”: “Sappiamo benissimo quale sia il tipo di allevamento che fa dell'animale uomo un cardinale”.
Il prof. Sandro Spinsanti, in una annotazione, risponde affermativamente alla domanda se anche gli animali vanno in cielo, ma prosegue: “E se in Paradiso oltre ai pavoni ci fossero anche dei cardinali?” Il cardinale Palazzini certamente non sarà iscritto nel novero dei teologi o dei pensatori, ma è nel novero dei cardinali, e quindi è probabile che arrivi in cielo, dove troverà gli animali! Ciò che soprattutto mi offendeva nell’intervento del cardinale era la sua falsa alternativa tra cura dell’uomo e cura dell’animale. E’ un vecchio e inestirpabile sofisma cattolico che Damien così riassume e commenta:
“Quante discussioni per sapere se è meglio proteggere gli orfani di guerra e i bambini percossi dai genitori nei tuguri urbani oppure i cuccioli di foca sgozzati vivi sulla banchisa o gli orsi che impazziscono nei giardini zoologici! Come ha potuto la coscienza cristiana, la coscienza umana crearsi simili dilemmi?
Tutto è da scegliere, tutto è da fare. Nessun essere fra quanti soffrono e muoiono deve essere escluso” (o.c., pp. 23-24). Ho citato un caso molto particolare e anche irrilevante perché qui brillano in modo particolare le precomprensioni cristiane. Ancora all’ecatombe degli agnelli pasquali si riferisce un articolo di Guido Ceronetti uscito su “La Stampa” sotto lo pseudonimo di Ugone di Certois. Egli parla delle tre grandi religioni frutto di un’unica rivelazione, quella biblico-coranica. Ceronetti dice: “Sopra di loro, dentro di loro c’è quel marchio triste, quell’impurità lebbrosa, il timbro del mattatoio. Perché non si pentono? Perché non si convertono? Perché tollerano e addirittura orribilmente prescrivono tante stragi di creature viventi, immenso popolo di anime impaurite allevate apposta in condizioni di spavento per le loro tavolate al pepe, le loro liturgie gastronomiche ricondotte con spietata monotonia dal calendario?” (La Stampa, 11/4/93). Ceronetti è paradossale e violento, qualche volta si può essere d’accordo con lui altre volte no: ma qui esprime il rifiuto di quello che, nelle grandi religioni monoteiste c’è di antianimalistico, di rozzamente semplificatorio e di arcaico, che a volte si incrocia anche con pregiudizi filosofici.
Alla citazione di Cartesio fatta dalla professoressa Alba Orselli vorrei affiancarne una tratta dall’autobiografia di Salomon Maimon, filosofo ebreo contemporaneo di Kant che andava soggetto a passioni violente e immediate per alcuni filosofi; aveva cominciato con Wolff per diventare poi cartesiano e successivamente spinoziano. Maimon sosteneva con grande risolutezza che gli animali sono macchine, al che alcuni amici gli obiettarono: “Ma se tu picchi una pecora, quella si lamenta”; egli rispose: “Anche il tamburo a percuoterlo dà un suono”. Ma nell’ebraismo il rapporto con gli animali è più complesso: ne parleremo poi, citando uno scambio di articoli e lettere avvenuto sulla rivista ebraica torinese Ha Keillah (5/91 e 1/92) fra Andrea Bosco e il rabbino Menachen Emanuele Artom. I dati biblici sugli animali ci pongono di fronte a un’ambiguità ermeneutica che può essere sviluppata in senso positivo o negativo: nella storia ebraico-cristiana ci sono stati tutti e due gli esempi. Forse la tradizione del giudaismo rabbinico l’ha sviluppata di più in senso positivo verso gli animali; invece il cristianesimo più in senso negativo: in entrambi i campi vi sono le dovute eccezioni. Vorrei partire dalla domanda riportata da Alberto Bondolfi su Concilium: “Occuparsi di teologia degli animali è un lusso dello Spirito?”. A tale domanda rispondo, risolutamente, di no, ma vorrei provarlo. La teologia certo si deve occupare di tante cose: se è vero che, come è stato detto, ha dimenticato le donne, non si può negare che ha inflitto la stessa sorte sia a questi “fratelli minori” che sono gli animali, sia a quei “fratelli maggiori” che sono gli ebrei. Tanto i fratelli maggiori quanto i fratelli minori sono stati per secoli e secoli vittime del silenzio teologico, anzi di una cattiva teologia cristiana; in qualche modo hanno avuto uno stesso destino, ingiusto e immeritato. Penso che nessun ebreo possa dolersi che il suo destino (si spera passato) sia paragonato a quello degli animali, ma è veramente così: l’antropocentrismo dell'uomo e, dentro a questo, l’antropocentrismo del cristiano, ha fatto in modo che, sia quelli che oggi vengono chiamati fratelli maggiori, sia quelli che si chiamano fratelli minori, abbiano subito lo stesso destino. Questa è già una prova che occuparsi di loro non è un lusso dello spirito. Karl Barth parlava addirittura di “delirio antropocentrico” e Lutero spingeva a non essere troppo spirituali, perché “Dio è altrettanto presente nelle trippe di un topo quanto lo è nel nostro Spirito”.
In effetti il problema degli animali è a mio parere un problema centrale sia di antropologia teologica che di teodicea. Bisogna partire dal testo biblico in cui si narra la creazione dell'uomo:
“Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: ‘Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli dei cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra’” (Gen 1, 27-28).
L’uomo, quindi, fin dalla sua creazione, è immagine di Dio, ma fin dalla sua creazione quest’immagine di Dio è collegata immediatamente al “soggiogare” (in ebraico kabash) e al “dominare” (in ebraico radah) la terra. Le religioni hanno inteso questo testo come un invito a esercitare una sovranità assoluta e senza confini sulla terra. Ma, rileggendolo con attenzione, si nota che tale dominio e tale soggiogamento devono essere eseguiti da colui che è “immagine di Dio”: ossia, il dominio dell’uomo sulla terra deve essere a sua volta immagine del dominio buono di Dio sull’uomo e sulla terra. Una tradizione chassidica nota che, dopo aver creato l’uomo,Dio non dice “e vide che era cosa buona”, come invece dice quando crea gli animali (Gen 1, 25). Per l’uomo non dice nulla, quasi a manifestare un’ombra di dubbio. Se alla fine del sesto
giorno (Gen 1, 31), Dio guarda la sua opera e dice che “era cosa molto buona” ciò si riferisce alla totalità del creato, non, come molte letture cristiane affermano, all’uomo. Il problema di antropologia teologica trova la sua formulazione nel domandarsi che cosa è l’uomo rispetto al mondo e, in particolare, se è il culmine del creato. Se infatti l’uomo fosse il culmine del creato, avrebbe certi diritti e certe investiture che, in caso contrario, non gli spetterebbero. Ma, dopo l’uomo, Dio crea ancora il sabato (l’unica cosa della quale non si pentirà): quindi l’uomo non è il culmine del creato, è il “quasi culmine”. Dal punto di vista della teodicea la cosa è ancora più palese.
E’ opportuno richiamare tutto il brano dell'articolo citato di Piero Stefani: “Il mondo animale rappresenta [...] la sfera in cui violenza e sofferenza non possono collegarsi con una colpevolezza personale”. Su questo punto “è il cristianesimo ad aver avuto e a continuare ad avere un rapporto meno pregnante e significativo con il mondo degli animali. La ragione di ciò si trova, in buona misura, nel processo di accentuata spiritualizzazione attraverso cui è passata la tradizione cristiana” (cf. articolo sopra citato).
Potremmo aggiungere che questo è causato da una specie di virus, il virus platonico che continua a rodere, dal di dentro, il cristianesimo.
Fra le numerose affermazioni che toccano la teodicea ne ho scelta qualcuna. Per esempio quelle che il romanziere Isaac Bashevis Singer mette in bocca al protagonista del suo romanzo Lo schiavo, una specie di servo della gleba ebreo che deve accudire il bestiame: “Spesso gli sembrava che il bestiame si lamentasse: Tu sei un uomo e noi non siamo che vacche: quale giustizia vi è in ciò? Padre, pregava spesso, tu sai perché tu le hai create, sono opera della tua mano, al termine dei loro giorni anche per esse deve esserci la salvezza”. Abraham Joshua Heschel afferma: “La natura stessa (cioè il mondo animale e quello vegetale) ha bisogno di salvezza”. Il bisogno di salvezza, che alla natura non può venire se non dall’uomo, è espresso da due grandi autori protestanti: Calvino e Barth. Nel suo commento alla Lettera ai Romani, Barth dice:
“Dove mai l’uomo, nella sua insopprimibile inquietudine per quello che egli è, nel suo implacabile desiderio di quello che non è, potrebbe volgere i suoi occhi senza incontrare altri occhi che sono rivolti a lui con la stessa inquietudine e nostalgia, anzi più ancora, con una domanda che si rivolge direttamente a lui?”.
Calvino, citato dallo stesso Barth, afferma: “Non vi è alcun elemento né alcuna particella del mondo che quasi consapevole della sua presente miseria, non speri nella resurrezione” Emerge qui la figura dell’innocente che soffre, dell’animale in quanto Giobbe, anzi più Giobbe del Giobbe biblico: perché quest’ultimo ha avuto poi la sua ricompensa, mentre il mondo animale, in genere, non la ottiene. Il vero Giobbe, il giusto sofferente – tema molto presente nella Bibbia – è l’animale, e, in qualche misura, la pianta.
Questi non sono problemi marginali, perché ne va di mezzo Dio e la sua giustizia; non sto qui a dire se questo sia più vero per il cristianesimo, per l’islam o per l’ebraismo, oppure sia vero anche al di fuori delle religioni: ne va comunque, della giustizia di Dio!
L’accostamento che sto per fare potrà sembrare a qualcuno paradossale e non vorrei che fosse considerato irriverente: ma sento di poter affermare che quello stesso Dio che è messo così in discussione e in pericolo dall’evento Auschwitz, è messo ugualmente in pericolo dalla sofferenza degli animali. La Bibbia ha molti testi che sono su questa linea, così come ne ha alcuni che vanno in direzione opposta. A mio avviso è una grave caduta intellettuale quanto afferma Paolo in 1 Cor 9, 9-10: “Sta scritto nella legge di Mosè: Non metterai la museruola al bue che trebbia. Forse Dio si dà pensiero dei buoi? Oppure lo dice proprio per noi? Certamente fu scritto per noi […]”. Non è vero! Fu scritto per i buoi! Paolo è libero di allegorizzare, ma non di stabilire qual era l’intenzione della Scrittura. Del resto, basta ricordare la bellissima e toccante argomentazione del libro di Giona. Giona, benché estremamente riluttante, va ad annunziare a Ninive il castigo ormai incombente; i niniviti promuovono un digiuno, anzi il re di Ninive comanda una penitenza generale con questo decreto: “Uomini e animali, grandi e piccoli, non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. Uomini e bestie si coprano di sacco e si invochi Dio con tutte le forze; ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. Chi sa che Dio non cambi, si impietosisca, deponga il suo ardente sdegno sì che noi non moriamo?” (Gen 3, 7-9).
Dio perdona e il castigo non arriva; Giona si indispettisce molto, esce dalla città e si stende sotto un riparo di frasche, di fronte alla città. Allora Dio fa crescere un ricino per “fare ombra sulla sua testa e liberarlo dal suo male”; ma poi manda un verme che fa morire la pianta. Giona è così deluso, arrabbiato e scoraggiato che vuole morire: Dio allora gli parla così: “Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: e io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra [i bambini], e una grande quantità di animali?” (Gen 4,10-11). Ninive ha fatto penitenza, ma Dio esplicitamente dice che la sua compassione è per i bambini e per gli animali, senza nessuna differenza tra gli uni e gli altri: entrambi sono la causa della salvezza di Ninive.
Gli esempi biblici sono numerosi. Mi limiterò a elencare soltanto alcune norme bibliche che si manifestano come gentilezza verso gli animali. Forse è opportuno premettere che certe disposizioni bibliche a favore degli animali talvolta sono spiegate, e a ragione, come dettate da tabù o da preoccupazione di non confondersi con altri popoli. Ma se è vero che esse non sono nate a favore degli animali, è altrettanto vero che hanno poi creato un costume e un’etica a loro favore. Nell’anno sabatico, così come nell’anno giubilare, non si coltivano i campi, e i prodotti spontanei devono essere a disposizione di uomini e animali: “Ciò che la terra produrrà durante il suo riposo servirà di nutrimento a te, al tuo schiavo, alla tua schiava, al tuo bracciante e al forestiero che è presso di te; anche al tuo bestiame e agli animali che sono nel tuo paese servirà di nutrimento quanto essa produrrà” (Lv 25, 67).
“Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a sé stesso: mettiti con lui ad aiutarlo” (Es 23, 45; cf. Dt 22, 13): si potrebbe dire che questa è una disposizione a favore del nemico, ma è, indubbiamente anche a favore dell’animale del nemico. Inoltre troviamo: “Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero che sta entro le tue porte [...]” (Dt 5,13-14; cf. Es 20, 10).
“Quando nascerà un vitello o un agnello o un capretto, starà sette giorni sotto la madre; dall’ottavo giorno in poi, sarà gradito come vittima da consumare con il fuoco per il Signore” (Lv 22,26-27; cf. Es 22, 28-29).
“Non scannerete vacca o pecora lo stesso giorno con il suo piccolo” (Lv 22, 28).
“Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre” (Es23, 19; cf. Es 34, 26; Dt 14, 21).
“Non devi arare con un bue e con un asino aggiogati insieme” (Dt 22, 10).
“Non metterai la museruola al bue, mentre sta trebbiando”Dt 25, 4).
“Quando, cammin facendo, troverai sopra un albero o per terra un nido d’uccelli con uccellini o uova e la madre che sta a covare gli uccellini o le uova, non prenderai la madre sui figli; ma scacciandola, lascia andare via la madre e prendi per te i figli, perché tu sia felice e goda lunga vita” (letteralmente:
perché ti venga bene e tu allunghi i tuoi giorni) (Dt 22, 6-7).
Questa esplicita menzione della ricompensa all’osservanza di un precetto è fatta solo due volte nella Bibbia: in questo caso e nel Decalogo dove dice: “Onora tuo padre e tua madre come il Signore tuo Dio ti ha comandato, perché si allunghino i tuoi giorni e ti venga bene” (Dt 5, 16).
Che questo abbia ripercussione sulla teodicea lo dimostra la storia di Elisha’ ben Avujà, famoso maestro del II sec. E. V.; Elisha’ vide che un tale, in un giorno di sabato, salì su una palma, dove c’era un nido, prese gli uccellini, e anche la madre, scese e se ne andò incolume. Aveva contravvenuto due precetti e non gli era successo nulla. Un altro giorno (non di sabato), vide un uomo che, fedele al precetto deuteronomico, prese i piccoli dopo aver fatto volar via la madre; scese dall’albero, fu punto da un serpente e morì. Dunque, osservò Elisha’, la Torà mente, la promessa di lunga vita è falsa. “Non c’è giustizia e non c’è giudice”, disse Elisha’ e abiurò.
La tradizione postbiblica, sulla base di testi biblici, afferma che gli animali hanno l’anima (l’abbiamo già visto dal quesito del Qohelet), hanno l’angelo custode e pregano. Ecco per esempio quanto si legge nel salmo 104, 20-21: “Stendi le tenebre e viene la notte e vagano tutte le bestie della foresta: ruggiscono i leoncelli in cerca di preda e chiedono a Dio il loro cibo”. E’ certamente un’immagine poetica, ma effettivamente, come vedremo più oltre, c’è un certo modo in cui gli animali pregano; biblicamente si possono ritrovare le tracce di una religione degli animali. Gli esempi biblici sono numerosi. Mi limiterò a elencare soltanto alcune norme bibliche che si manifestano come gentilezza verso gli animali. Forse è opportuno premettere che certe disposizioni bibliche a favore degli animali talvolta sono spiegate, e a ragione, come dettate da tabù o da preoccupazione di non confondersi con altri popoli. Ma se è vero che esse non sono nate a favore degli animali, è altrettanto vero che hanno poi creato un costume e un’etica a loro favore.
Nell’anno sabatico, così come nell’anno giubilare, non si coltivano i campi, e i prodotti spontanei devono essere a disposizione di uomini e animali: “Ciò che la terra produrrà durante il suo riposo servirà di nutrimento a te, al tuo schiavo, alla tua schiava, al tuo bracciante e al forestiero che è presso di te; anche al tuo bestiame e agli animali che sono nel tuo paese servirà di nutrimento quanto essa produrrà” (Lv 25, 67).
“Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a sé stesso: mettiti con lui ad aiutarlo” (Es 23, 45; cf. Dt 22, 13): si potrebbe dire che questa è una disposizione a favore del nemico, ma è, indubbiamente anche a favore dell’animale del nemico. Inoltre troviamo: “Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero che sta entro le tue porte [...]” (Dt 5,13-14; cf. Es 20, 10).
“Quando nascerà un vitello o un agnello o un capretto, starà sette giorni sotto la madre; dall’ottavo giorno in poi, sarà gradito come vittima da consumare con il fuoco per il Signore” (Lv 22,26-27; cf. Es 22, 28-29).
“Non scannerete vacca o pecora lo stesso giorno con il suo piccolo” (Lv 22, 28).
“Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre” (Es23, 19; cf. Es 34, 26; Dt 14, 21).
“Non devi arare con un bue e con un asino aggiogati insieme” (Dt 22, 10).
“Non metterai la museruola al bue, mentre sta trebbiando”(Dt 25, 4).
“Quando, cammin facendo, troverai sopra un albero o per terra un nido d’uccelli con uccellini o uova e la madre che sta a covare gli uccellini o le uova, non prenderai la madre sui figli; ma scacciandola, lascia andare via la madre e prendi per te i figli, perché tu sia felice e goda lunga vita” (letteralmente: perché ti venga bene e tu allunghi i tuoi giorni) (Dt 22, 6-7).
Nello stesso salmo 104 troviamo (vv. 29-30) l’intervento paterno di Dio sul mondo animale (e al v. 16 anche su quello vegetale): “Se nascondi il tuo volto, vengono meno, togli loro il respiro, muoiono e ritornano nella loro polvere. Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra”. Vorrei citarvi solo una frase a proposito degli alberi. In una leggenda rabbinica si attribuisce a Dio una tale delicatezza verso i sentimenti degli alberi, che gli si mettono in bocca queste parole: “Io mi sforzo di non fare del male a nessuna delle mie creature, e non ho fatto perciò conoscere a nessun essere umano il nome dell’albero da cui mangiò Adamo, perché questo albero non debba arrossire di fronte agli uomini” (Tanchumà, Wajera,53a).
L’ermeneutica negativa, quella cioè in cui il “dominare” e l’“assoggettare” sono vissuti in modo autocratico e dittatoriale, ha avuto una fortuna enorme; basti per tutte la citazione di 1 Cor 9, 9-10 e l’episodio in cui si narra di Gesù che manda i diavoli nei porci che poi si gettano nel lago (Mt. 8, 28-34).
Passando a secoli più vicini a noi, si può ricordare che Tommaso D’Aquino condanna la crudeltà verso gli animali, ma solo perché potrebbe condurre alla crudeltà verso l’uomo, e che Pio IX rifiutò, quand’era ancora papa-re, il permesso che a Roma si costituisse una società per la protezione degli animali, sempre per paura che questo ridondasse a detrimento dell'uomo. Insomma, nella concezione di questi teologi, l’uomo è una realtà così cagionevole, così pericolante che basta mettergli di fronte un animale e, nella loro mentalità, l’uomo si dissolve. In realtà è solo una grande sfiducia nell’uomo quella di coloro che condannano lo za’ar ba’alè chajjim, la preoccupazione per i viventi. Nel commento alla Genesi (Bereshit Rabbà 79, 8) Giacobbe dice a Dio: “Come tu sei Dio in cielo io sono dio in terra”, frase che è tutta un programma, il potenziale programma della realizzazione dell’immagine e somiglianza di Dio: noi dobbiamo veramente essere per gli animali quello che Dio è per noi.
Nella tradizione rabbinica ci sono molti episodi che meriterebbero di essere ampiamente riferiti; ve ne riporto solamente due. Un midrash (Pesiqta’ Rabbati 56-57) racconta che un ebreo era diventato così povero, da dover vendere la sua giovenca da tiro. La comprò un pagano e la fece arare tutta la settimana. Al
sabato la portò fuori per arare, ma quella si gettò a terra sotto il giogo, e nonostante le percosse non volle muoversi. Allora il padrone andò dall’ebreo e gli disse: “Vieni a prenderti la giovenca, forse soffre per aver cambiato padrone, perché, sebbene io la batta, non si muove”. L’ebreo capì il motivo per cui la giovenca non voleva arare: era il sabato, giorno in cui era abituata a riposare secondo la legge del Decalogo. Perciò disse al pagano: “Verrò e te la farò alzare”. Venne, e bisbigliò all’orecchio dell’animale: “Giovenca, giovenca, tu sai bene che quando eri mia tu aravi tutta la settimana e riposavi al sabato; ma ora, per i miei peccati, tu sei passata a un padrone pagano. Ti prego alzati e ara”. La giovenca fece subito così. Il pagano allora gli disse: “Per favore portati via la mucca, perché io non posso farti sempre venire ad alzarla. Ma non ti lascerò partire finché non mi avrai detto che cosa le hai detto all'orecchio. Mi sono tanto affaticato con lei e l’ho battuta, ma non si è alzata”. Allora l’ebreo lo accontentò e gli disse: “Io non ho fatto né stregoneria né magia, ma le ho bisbigliato così e così e lei si è alzata e ha arato”. Subito il pagano fu colto da timore, e disse: “Se una giovenca, che non ha parola e raziocinio, può riconoscere il suo Creatore, non devo riconoscerlo io, che sono stato formato a sua immagine e a cui ha dato l'intelletto?” Immediatamente andò, e si convertì all’ebraismo. Studiò e acquistò il merito della Torà, e lo chiamavano “Jochanan figlio della giovenca” (perché era stato condotto sotto le ali della Shekhinà dalla giovenca) e i nostri maestri tramandano ancora le norme legali che egli espresse. Il Talmud palestinese narra (Demai I, 13) che dei briganti avevano rubato l’asino di Pinchas ben Jair. Lo nascosero, ma per tre giorni non volle mangiare. Allora decisero di restituirlo dicendo: “E’ meglio darlo indietro piuttosto che muoia qui e appesti la nostra caverna”. Lo lasciarono andare, e quello andò all’uscio del suo padrone e cominciò a ragliare. Egli disse: “Aprite la porta a questa povera bestia che non ha mangiato nulla da tre giorni”. Gli misero davanti dell’orzo, ma non volle mangiarlo. Lo dissero a rabbi Pinchas, ed egli chiese: “Avete ben setacciato l'orzo?”. Dissero: “Si”. Egli domandò: “Avete offerto la decima per quella parte dell'orzo che forse non era stata sottoposta a decima?”. Risposero: “No, perché tu ci hai insegnato che chi compra cereali per semina, o per nutrire le bestie, è esente dall’obbligo di offrire la decima nel dubbio che non sia stata già offerta”. Egli rispose: “Sì, ma questa povera bestia impone a sé stessa una regola più stretta”. Così prelevarono la decima, e l’asino mangiò.
Ora non è tanto interessante la storia dell’asino, pur graziosa, ma il fatto che nella tradizione rabbinica non è ritenuto sconveniente che un animale abbia sentimenti religiosi e osservi la Torà e il fatto che questo venga riferito in senso positivo e non negativo. Non c’è da stupire quindi se nella tradizione ci si pongano domande del genere: “Se gli animali non hanno peccato, perché sono travolti dalla punizione dell’uomo?”, oppure: “Se gli animali sono innocenti, perché vengono immolati nel tempio?”. Le risposte sono tante. Una di esse afferma che c’è un’identità tra uomo e animale: infatti l’animale era immolato perché (secondo un’interpretazione del sacrificio non da tutti accettata) era il sostituto dell’uomo o almeno il suo “delegato” e tale motivazione è in certo senso egualitaria, anche se non fa troppo piacere all’animale.
Avviandomi alla conclusione, vorrei dire qualcosa sulla “religione degli animali”, ossia sul fatto che, come abbiamo visto, l’animale è presentato come orante. Damien fa un’osservazione molto giusta: “Un dato essenziale del cristianesimo è questo: se l’animale non ha la nozione di Dio, ha però la nozione dell’uomo, e nella Bibbia, che cosa è l'uomo se non l’immagine di Dio? [...] Poiché questa dimensione religiosa dell’animale può essere definita come un contatto della creatura, in quello che ha di più intimo, con una realtà di un ordine radicalmente superiore, è molto più difficile per il cristiano sostenere che l’animale non ha un senso religioso [...] L’attaccamento dell’animale all’uomo non è l’attaccamento di una creatura verso un’altra qualunque creatura. Il servizio che l’animale dà all’uomo, l’obbedienza, la fiducia, il rispetto, ’amore spinto a volte fino a una sorta di adorazione e spesso fino al sacrificio totale, sono fatti che rivestono un significato teologico nuovo se si considera questo punto fondamentale del cristianesimo [...] Si può affermare che l’animale manifesta a volte un comportamento oscuramente ma innegabilmente religioso nei nostri riguardi. Il nostro concetto di Dio, diverso e infinito, è del resto più preciso di quello che l’animale ha dei motivi del nostro comportamento?”
E’ ciò che diceva Giacobbe a Dio: io sono il dio degli animali, e l’animale ha verso di me un atteggiamento religioso. La religione degli animali, non sembri un paradosso, è superiore a quella dell’uomo, perché l’animale ha un atteggiamento religioso anche verso il suo padrone malvagio, mentre l’uomo non potrebbe avere un sentimento religioso verso un dio che gli si configurasse malvagio. Tutti conoscono l’episodio dell'asina del profeta Balaam, che mentre portava in groppa il suo padrone si blocca su un sentiero perché ha visto “l’angelo del Signore”, ovvero Dio, mentre il suo padrone, anche se profeta, non aveva visto nulla.
Oggi il problema che abbiamo delineato prende l’aspetto di una domanda che solo apparentemente può sembrare ingenua. Qual è la ricompensa dell’animale? Se la credibilità di Dio è sfidata dalla cattiva situazione del mondo, allora cosa pensare del futuro degli animali? Non si può pensare se non a una vita del mondo che verrà anche per gli animali. A tale proposito si può ricordare l’episodio di Paolo VI che a un bambino che piangeva perché gli era morto il cagnolino disse: “Non piangere, perché lo ritroverai nella luce del Signore”. André Frossard, scrittore francese non sempre teologicamente condivisibile, si rappresenta il paradiso come un luogo in cui oltre agli uomini e alle donne c’è un gran numero di bestie: anatre, conigli, pavoni (ecco il pavone del cardinale Palazzini!), e lo dice commentando un mosaico di Ravenna in cui il Paradiso è rappresentato proprio in tal modo, con uomini, donne e tanti animali. Forse qualcuno ci accuserà di inventarci idee che la Bibbia e la tradizione ignorano. In realtà, oggi ci accorgiamo che una tradizione sotterranea già esiste in tal senso; colpiti da vere e proprie consonanze, scopriamo che alcuni santi hanno composto delle preghiere per gli animali. Per esempio un santo inglese, Riccardo di Chichester, osserva: “Piccole, innocenti, povere creature destinate al macello, povere creature: se voi foste esseri ragionevoli e poteste parlare ci maledireste, perché noi siamo la causa della vostra morte, e che cosa avete
fatto voi per meritarla?”
San Basilio ha formulato una bellissima preghiera: “O Signore, noi ti preghiamo per gli umili animali che portano con noi il peso e il calore del giorno e offrono le loro vite smarrite per il benessere dell’uomo, e ti preghiamo per le creature selvatiche che tu hai creato sagge, forti e bellissime: noi preghiamo per loro e supplichiamo la tua grande tenerezza di cuore perché tu hai promesso di salvare uomo e bestia e hai concesso la tua amorevolezza a loro, o Signore salvatore del mondo” Si può aggiungere che il diluvio finì perché “Dio si ricordò di Noè, di tutte le fiere e di tutti gli animali domestici che erano con lui nell’arca” (Gen 8, 1): si ricordò di loro – spiega Rashi, il grande commentatore ebreo medioevale – perché gli animali, nell’arca, erano stati osservanti e non si erano mescolati; e gli uomini dell’arca, la piccola famiglia di Noè, era stata in continua agitazione tutto il tempo del diluvio per nutrire tutti gli animali, ciascuno all’ora sua; tutti quindi, animali, Noè e la sua famiglia, hanno meritato insieme che il diluvio finisse. E dopo il diluvio Dio fa un’alleanza universale con gli uomini, con gli animali, con tutti gli esseri viventi. Il testo di Genesi 9, 9-11 è, in un certo senso, la base negletta (che oggi si va riscoprendo) di una teologia animale: “Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi; con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e bestie selvatiche, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio, né più il diluvio devasterà la terra”.
La stessa frase è ripresa dal profeta Osea: “In quel tempo farò per loro un’alleanza con le bestie della terra e gli uccelli del cielo e con i rettili del suolo; arco e spada e guerra eliminerò dal paese; e li farò riposare tranquilli” (Os 2, 20).
L’alleanza che Dio ha fatto con gli animali è destinata a diventare alleanza escatologica: questo è il destino degli animali! E questo è, in certo senso, anticipato dallo Shabbat, dal sabato; il sabato è il giorno in cui uomini e animali non lavorano, cessano di farlo per lasciare spazio a Dio. L’osservanza del sabato, in fondo, è il vero culto che secondo il Decalogo, prestano a Dio l’uomo e l’animale, cioè i partner di un’alleanza che non è mai stata revocata. Questa è la mia conclusione. Nella tradizione occidentale non biblica vi sono però dei modelli che non vanno dimenticati. Pensiamo al cane di Ulisse che dopo tanti anni riconosce il padrone: pieno di zecche e di acciacchi, abbassa le orecchie, muove la coda e muore. Ulisse piange. Pensiamo all’asinaio di Sterne che piange sul basto dell'asino perduto; all’asinello Platero di Jiménez, o al cavallo Gulsary del breve romanzo di Cingiz Ajtmatov che narra l’ultimo cammino di un cavallo e del suo padrone.
Dopo questi esempi che io includerei nella religiosità degli animali, vorrei lasciarvi con un’immagine quasi in dissolvenza: guardiamo in silenzio tre esseri che partono per un viaggio guidati dal Signore: il giovane Tobia, l'angelo e il cane che, dice la Bibbia, “andò con loro” (Tb 6, 1).

Bibliografia

Etica, religione e animali, in Il Regno/attualità 10/89,
In difesa degli animali, Lucarini, Roma 1987.
Michel Damien, Gli animali, l’uomo e Dio, Piemme, Casale
Monferrato 1987,
Salomon Maimon, Storia della mia vita, ed. e/o, Roma
1989,
Concilium 3/1989
Helmut Gollwitzer, Il poema biblico dell’amore tra
uomo e donna. Cantico dei Cantici, Claudiana, Torino 1979,
I.B. Singer, Lo schiavo, Longanesi, Milano 1964,
A.J. Heschel, Dio alla rcerca dell’uomo, Borla, Torino 1969,
Karl Barth, L’epistola ai romani, Feltrinelli, Milano 1962,
Andrew Linzey e Tom Regan, a cura di, Compassion for
animals, SPCK, Londra 1988,
Addio Gulsary, Mursia, Milano 1987.

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