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MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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ASPA - ACCADEMIA DEI GEORGOFILI - AIA
CONVEGNO:

“ACQUISIZIONI DELLA GENETICA E PROSPETTIVE DELLA SELEZIONE ANIMALE ”

‘Genomica e proteomica funzionali’ *

Donato Matassino (1) (2), C.M.A. Barone(3) , A. Di Luccia (4), C. Incoronato (2), F. Inglese(2), D. Marletta (5), M. Occidente (2), P. Roncada(6)

Firenze, 27 gennaio 2006 Sommario

1. Introduzione. 2. Complessità del sistema vivente. 2.1. Pleiotropia. 3. Integrazione ‘genotipo-fenotipo’. 3.1. Epigenetica. 4. Genomica. 4.1. Genomica ‘strutturale’. 4.2. Genomica ‘comparativa’. 4.3. Genomica ‘funzionale’. 4.3.1. Regolazione ‘pre-trascrizionale’. 4.3.2. Regolazione ‘post-trascrizionale’. 4.3.2.1. RNA ‘regolativo’. 4.3.3. Trascrittoma. 4.3.4. Prospettive della genomica ‘funzionale’. 4.4. Integrazione ‘genomica–proteomica’. 5. Proteomica. 5.1. Proteomica ‘strutturale’. 5.2. Proteomica ‘comparativa’. 5.3. Proteomica ‘funzionale’. 5.3.1. Cenni sul ‘Proteoma’ della ‘carne’. 5.3.2. Cenni sul ‘Proteoma’ del ‘latte’. 6. Conclusioni. 7. Bibliografia. (1) Cattedra di Zootecnica generale e Miglioramento genetico - Dipartimento di Scienze biologiche e ambientali - Università degli Studi del Sannio – via Porta Arsa, 11 – 82100 Benevento – Italia - Tel.: +39 0824 305147; email: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. (2) ConSDABI - National Focal Point italiano della FAO (NFP.I - FAO) per la tutela del germoplasma animale in via di estinzione nell’ambito della Strategia Globale FAO per la gestione della risorsa genetica animale (GS-AnGR, Global Strategy for the Management of Farm Animal Genetic Resources) – Centro di Scienza Omica per la Qualità e per l’Eccellenza nutrizionali - Centro di Ricerca sulle Risorse Genetiche Animali di Interesse Zootecnico - Centro Produzione Sperma ed Embrioni - Contrada Piano Cappelle - 82100 Benevento – Italia - Tel.: +39 0824 334300; tf.: +39 0824 334046; email: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.; Internet: www.consdabi.org (3) Dipartimento di Scienze del suolo, delle piante, dell’ambiente e delle produzioni animali (Sezione T.M. Bettini) – Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’-via Università 100 – 80055 Portici (NA) - Tel.: +39 081 2539287; tf.: +39 081 7762886; email: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. (4) Dipartimento di Progettazione e di Gestione dei Sistemi Agro-Zootecnici e Forestali (PRO.GE.SA)– Università degli Studi di Bari - Via G. Amendola, 165/A - 70126 Bari – Tel./tf: +39 080 5442942; email: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. (5) Dipartimento di Scienze agronomiche, agrochimiche e delle produzioni animali (DACPA) (Sezione Scienze delle produzioni animali) - Università degli Studi di Catania – via Valdisavoja, 5 – 95123 Catania - Tel. : +39 095 234478; email: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. (6) Istituto Sperimentale Italiano ‘Lazzaro Spallanzani’- Laboratorio di Proteomica presso Dipartimento di Scienze cliniche veterinarie (Sezione Clinica medica) – Via Celoria, 10– 20133 Milano – Tel.: +39 02 50318138; tf.: +39 02 50318171; email: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. * Il testo della relazione è parzialmente aggiornato a gennaio 2007.

1. Introduzione
L’evidente importanza che rivestono la genomica e la proteomica nella complessa funzionalità di un qualsiasi essere vivente richiede, ad avviso degli Autori, una visione di conoscenze, la quale mira continuamente a incrementare il bagaglio di un allevatore. Il miglioramento genetico di una biopoiesi non può prescindere dal progredire di tali conoscenze, specialmente se viene implicato l’ ‘aspetto fenotipico’ della ‘qualità’ del prodotto, considerata nei suoi molteplici e innumerevoli effetti sul ‘benessere del consumatore’. Questi effetti dipendono dal ruolo che i componenti ‘nutrizionali’, ‘extranutrizionali’ e ‘salutistici’ del prodotto di origine animale svolgono una volta ingeriti. L’uomo non può essere considerato un’entità biologica ‘invariante’ nel tempo e nello spazio, ma un ‘essere vivente’ che richiede, lungo l’arco della sua vita (dall’embrione al feto al bambino all’adolescente all’adulto all’ultrasessantenne all’ultraottantenne all’ultracentenario), un ‘regime alimentare’ diversificato al quale il ‘sistema allevatoriale’ deve rispondere con oculatezza, con competenza e con convinzione; la risposta del ‘sistema allevatoriale’ è ancora piú impegnativa se si considera che il regime alimentare varia anche in relazione ad alcune funzioni ‘biologiche’ (gravidanza, allattamento, attività agonistica, ecc.) e ‘intellettuali’ esplicate quotidianamente (Matassino et al. 1991; Matassino, 1992a; Matassino e Cappuccio, 1998; Casabianca e Matassino, 2006; Matassino et al., 2006d e e). In questo ‘continuum’ coacervo di vita relazionale, il futuro del ‘miglioramento genetico degli animali in produzione zootecnica’ (MGAPZ) non può prescindere da una ‘visione sistemica’ (Needham, 1936; Von Bertalanffy, 1940, 1971; Bettini, 1969, 1972; Matassino, 1978, 1984, 1992b). Solo un percorso basato su una ‘visione sistemica’ potrà soddisfare l’esigenza di fornire risposte concrete, costruttive e previsionali alla domanda tesa a disporre di strumenti capaci di indicare nella dimensione ‘spazio-temporale’ livelli ottimali delle prestazioni degli animali in produzione zootecnica (Matassino 1984, 1986, 1988).
Una disamina arguta del MGAPZ non obsolescente per diverse riflessioni espresse si deve a: Aleandri (1989); Bufano (1989); Casu (1989); Cavalchini e Cerolini (1989); Cicogna (1989); Damiani et al. (1989); Fabbri (1989); Geri (1989); Lucifero (1989); Masina et al. (1989); Masoero (1989); Matassino (1989a e b); Pagnacco (1989); Pilla (1989a e b); Russo (1989); Scardella (1989); Silvestrelli (1989). Inoltre la tematica era stata trattata in: Bettini (1955); Bettini e Matassino (1961); Bettini (1963); Bettini e Matassino (1963); Bettini (1972); Cunningham (1974); Hanset (1974); Henderson (1975); Matassino e Pilla (1976); Matassino (1978); Cartwright (1982); Cartwright et al. (1982); Matassino (1984, 1985, 1988); Gahne e Juneja (1988); Russo e Fontanesi (2001); Pilla (2002); Pagnacco (2004).
Nella ‘Presentazione’ della suddetta disamina si riportano alcune considerazioni che direttamente e/o indirettamente interferiscono con il MGAPZ e che sono raggruppabili in:
(a) economiche, le quali impongono obiettivi diversi e non facilmente conciliabili cioè obiettivi di ‘qualità’ e di ‘competitività’; obiettivi, che non si escludono a vicenda ma che si integrano nel senso che bisogna produrre ‘qualità’ in un mercato ‘competitivo’;
(b) tecniche, le quali comprendono una serie di condizioni caratterizzanti l’ambiente di allevamento (alimentazione, sistema di tenuta, strutturistica aziendale, ecc.);
(c) genetiche, le quali rappresentano elementi basilari; sarebbe un grave errore considerare esaustive le due precedenti considerazioni in quanto alla base di tutto esiste il ‘fattore genetico’, la cui importanza si è accresciuta proprio per l’acuirsi della competizione economica e per l’aumentato, sempre piú sofisticato, livello di tecnica.
L’evoluzione della conoscenza del genoma, del trascrittoma, del proteoma, dell’aromoma, del glicoma, del lipidoma e del metaboloma, sollecita, in modo cogente, una visione del MGAPZ in un quadro d’insieme, ove gli aspetti abiologici, biologici e umani siano fortemente incorporati dal ‘sistema allevatoriale’; quest’ultimo, deve considerare l’evoluzione cognitiva di tipo ‘costruttivo’ nel senso che, passando da una conoscenza abiotica a quella biotica, l’autocoscienza dell’allevatore diventi sempre piú elemento fondante per incrementare la sua capacità sia di conoscenza che di trasferimento operativo.
L’ ‘arsenale molecolare’ dell’animale in produzione zootecnica è la ‘dote’ e l’input affinché l’animale, evidenziando un’immensa ‘plasticità fenotipica’, partecipi attivamente e con pieno diritto al ‘costruttivismo’ del ‘nuovo’ che si può identificare con il suo ‘epigenoma’; la conoscenza di quest’ultimo è la base per raggiungere ‘traguardi biopoietici innovativi e utili’ specialmente per l’aspetto salutistico del consumatore che deve essere considerato un vero e proprio ‘ co-produttore’.
Il ‘sistema allevatoriale’ e/o il ‘singolo allevatore’, operando secondo questa strategia, partecipa/ano pienamente all’ ‘evoluzione costruttiva’ dell’intero ‘sistema’, la cui parte fondante è, senza dubbio, la sua evoluzione ‘culturale’ che conduce a un ‘paradigma costruttivo’ dell’attività biopoietica della sua impresa, senza trascurare quello sia ‘teleologico’ che ‘teleonomico’.
Le conoscenze sul tema da trattare sono documentate da una ‘vasta letteratura’, in cui spesso sperimentazioni ‘diverse’, talvolta ‘contrastanti’ per ‘impostazione’ e per ‘risultati’, forniscono un ‘coacervo di acquisizioni’ che di norma rimodellano concetti biologici e comportamentali ritenuti invarianti. L’argomento è di viva attualità, di notevole valenza scientifica e operativa, nonché molto futuristico, emblematico e complesso (Matassino et al., 2006d).
Le nuove conoscenze evidenziano che i meccanismi molecolari alla base della vita sono integrati in sistemi complessi che funzionano ‘olisticamente’. Pertanto, la biologia del ‘2000’ mostra un ‘volto’ nuovo che si va configurando con una ‘biologia olistica’ o ‘integrata’ o ‘biologia dei sistemi’. Questa biologia è indiscutibilmente diversa da quella del suo fondatore: Aristotele.
Il nuovo approccio si sta qualificando principalmente come settore ‘biologico-molecolare’, ove la conoscenza di un ‘carattere’ o ‘manifestazione fenotipica’ nella sua ‘struttura’ e nella sua ‘funzione’ è fondamentale se non indiscussa. Il ‘carattere’ è funzione degli effetti di diversi piani organizzativi: submolecolare, molecolare, cellulare, tissutale, organico, organismico, biocenotico, ecosistemico; ogni piano è caratterizzato da norme proprie e da norme di vita di relazione con altri piani. A ogni successivo livello di organizzazione la complessità strutturale e funzionale aumenta, arricchendosi ‘epigeneticamente’; pertanto, si ha un aumento continuo, temporalmente e spazialmente, della quantità di informazioni necessarie a descrivere questo sistema (Bettini, 1969, 1972; Matassino, 1978; Matassino, 1984).
La utilizzazione della biologia molecolare sta diventando, sempre di piú, ‘fonte notevole di innovazione’ dei sistemi produttivi interessati alla ‘biopoiesi’ (Matassino et al., 2006a).
Questa innovazione si basa su una ‘genomica’ ove non sono piú i soli segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ (cosiddetti ‘geni’) gli ‘unici protagonisti’ del processo ereditario ma anche le ‘reti regolatrici’ che ne governano l’espressione; espressione, che si concretizza in una ‘manifestazione fenotipica’, la quale altro non è se non il prodotto di una attività sistemica del DNA.
L’approccio classico allo studio dei fenomeni biologici è sempre stato quello di affrontare le problematiche in maniera indipendente: studio del singolo segmento di DNA codificante ‘polipeptide/i’ e studio del singolo ‘polipeptide’; in realtà, è sempre piú documentato come il comportamento di queste macromolecole sia collegato e sia integrato a quello di numerosi altri fattori nel contesto delle ‘complesse reti biologiche’. ‘Segmenti di DNA’ e ‘proteine’ vanno, quindi, considerati come componenti insostituibili di una vera e propria ‘rete cibernetica di informazione’.
L’importanza che si attribuisce ai segnali dell’ambiente ‘interno’ ed ‘esterno’ all’organismo nella regolazione di un meccanismo ‘molecolare-cellulare-biologico’ evidenzia che l’’ambiente’ e l’’organismo’ costituiscono un’ ‘unità sempre meno inscindibile’, ove il ruolo fondamentale svolto dalle interazioni rende poco significativo lo studio delle singole entità. Pertanto, alla luce dell’impostazione sistemica, qualsiasi essere vivente può essere considerato un organismo ‘cibernetico’ identificabile con un vero e proprio ‘sistema biologico, aperto, dinamico, vincolato, neghentropico’ (Von Bertalanffy, 1940; Bettini, 1970; Matassino, 1978, 1984, 1989c; Sarà, 2002).
I progressi acquisiti in biologia molecolare, sempre in evoluzione, hanno condotto a una notevole espansione della cosiddetta scienza ‘omica’[1]; questa indica l’approccio analitico che tende a studiare le macromolecole non piú ‘singolarmente’ ma in modo ‘olistico’, quali componenti di una complessa ‘rete biologica’
La ‘biomica’, parte della scienza ‘omica’, comprende, a oggi, varie branche che si integrano tra loro: genomica, trascrittomica, proteomica, aromomica, glicomica, lipidomica, metabolomica, ecc. (Matassino et al., 2006a).
In questa sede diviene importante sia evidenziare alcuni risultati delle sperimentazioni sia sottolineare alcuni concetti ‘basilari’ e ‘semantici’ della problematica scaturente dalla crescente ‘complessità’ dell’argomento, essendo velleitario fornire risposte esaurienti.
La trattazione della genomica e della proteomica funzionali non può prescindere da un ‘microriferimento’ alla ‘irriducibile complessità’ del sistema vivente. In tale contesto, si è ritenuto altresí opportuno riportare alcuni cenni relativi allo stato dell’arte delle conoscenze sul genoma umano; quest’ultimo, infatti, oltre a rendere testimonianza della ‘complessità’ del vivente, rappresenta uno dei campi nel quale lo ‘status’ delle acquisizioni progredisce istante per istante.
Non è semplice condensare, oltre certi limiti, una materia cosí vasta e i relativi necessari approfondimenti, per cui è inevitabile che la trattazione presenti omissioni. Altresí, si è consapevoli del probabile ‘rischio’ che il testo, in alcuni punti, risulti eccessivamente ‘concettuale’ per meglio interpretare il funzionamento ‘genomico-proteomico’ di un organismo vivente, quindi dell’animale in produzione zootecnica; pertanto, la presente, probabilmente, se non certamente, solleverà piú problemi di quanti ne possa chiarire, ma il sollevare problemi ‘rende inquieti’ e, concordando con lo scrittore francese J. Green, “Finché si è inquieti, si può stare tranquilli”. 2. ‘Complessità’ del sistema vivente
La parola ‘complessità’ è un ‘continuum’ oggetto di discussioni e di teorie; fra gli altri, ne hanno ampiamente trattato: G. Bateson (1904÷1980), A. Einstein (1879÷1955), N. Luhmann (1927÷1979), E. Morin (1921÷), V. Pareto (1848÷1923), T. Parsone (1902÷1979), I. Prigogine (1917÷2004), H. Spencer (1820÷1903), F.J. Varela (1946÷2000), H. von Foerster (1911÷2002) i quali hanno evidenziato la limitatezza e l'unilateralità delle concezioni razionali in chiave lineare e meccanicistica. In sintesi (Matassino, 2001a), le diverse teorie considerano che la 'complessità' sociale è caratterizzata da una specie di parallelismo fra:
(a) progresso, conoscenza, vita, umanità, evoluzione
e
(b) caos, perturbazioni, disordine, instabilità, squilibrio, turbolenza, non linearità, marginalità e frattalismo.
La ‘complessità’, come evidenziato da Matassino (2001a), è un vero e proprio ‘sistema complesso’, in quanto:
(a) è da delimitare, di volta in volta, nei suoi confini;
(b) è da conoscere nelle sue componenti qualitative e quantitative nonché nelle loro interrelazioni;
(c) è flessibile ed è variabile ‘spazialmente’ e ‘temporalmente’ perché strutturalmente instabile;
(d) ha ‘capacità al costruttivismo’ differenziata per effetto del grado di informazione del tempo e dello spazio;
(e) è fortemente ‘autoregolatore’, ‘omeostatico’, per cui può produrre nuove combinazioni fra le parti costituenti che possono dare origine a dinamici peculiari 'status' le cui regole di funzionamento possono mutare nel tempo e nello spazio come, si verifica, a esempio, per il sistema 'genoma' per effetto delle continue e nuove combinazioni di segmenti di DNA;
(f) non è un modello lineare per l’assenza di proporzione tra causa ed effetto;
(g) è ‘imprevedibile’, nel senso che esso, alla luce delle precedenti considerazioni, non è totalmente ‘computabile’, perché può essere considerato una vera e propria 'struttura caotica deterministica’;
(h) ha una sua 'singolarità', quale 'universo soggettivo' non riducibile a mero oggetto di riduzionismo ma discernibile e con una sua propria ‘alterità’;
(i) ha una sua specifica pertinenza per la capacità di 'dialogare' tra le parti componenti.
Come già detto, qualsiasi essere vivente va studiato e interpretato a differenti ‘livelli organizzativi’; in particolare, quello molecolare (‘DNA’ e suoi ‘prodotti’) va prima di tutto conosciuto a livello di ‘singola cellula’ e, successivamente, nei rapporti tra le ‘cellule costituenti l’organismo’ nonché tra quest’ultimo e il ‘microambiente’ in cui esso organismo è inserito.
Le proteine, tra le macromolecole, rappresentano quelle maggiormente coinvolte nella manifestazione di un dato ‘fenotipo’ cioè quelle che, piú verosimilmente, riflettono le differenze nell’espressione dei segmenti di DNA. Piace a questo proposito ricordare la metafora del Nobel Renato Dulbecco (2002), il quale paragona il DNA al ‘nastro di un registratore’ e le proteine ai ‘meccanismi che fanno muovere il nastro’: senza i suddetti meccanismi, non si produrrebbe il ‘suono’; il ‘genoma’ è, dunque, da considerare il ‘progetto della vita’ che viene realizzato dalle proteine.
Un ‘vertice’ nel fenomeno della ‘complessità’ della vita può essere considerato il sistema nervoso. Si stima che l’encefalo umano sia costituito da 100 miliardi di cellule (neuroni), di cui una trentina di miliardi costituisce la sola corteccia; ciascuna cellula è collegata alle altre da migliaia di sinapsi, cioè da migliaia di interazioni da cui dipende il suo funzionamento. Indagini sull’evoluzione della ‘mente’ evidenzierebbero sempre piú chiaramente l’‘unicità’ dell’encefalo umano che potrebbe essere spiegata dalla sua ‘lateralizzazione’ associata alla specializzazione emisferica[2] (Hutsler et al., 1999; Gazzaniga, 2006).
Anche il numero di cellule che costituirebbe l’organizzazione complessiva di un mammifero, quale l’uomo, è sconvolgente: 100.000 miliardi (1014); valore che supera le attuali stime del numero di galassie dell’universo, circa 125 miliardi, pur restando, però, inferiore a quello delle stelle che è stimato dell’ordine di 1021.
Concordando con Behe (1996): “La ricerca ha provato che il fondamento della vita, la cellula, è gestita da una complessa e sofisticata macchina molecolare. Ci sono, letteralmente, piccoli camion e piccoli autobus molecolari che lavorano nella cellula e piccoli motori fuoribordo che le permettono di muoversi”.
L’informazione contenuta nel singolo genoma è ‘unica’ del ‘portatore’ ed è normalmente ‘irripetibile’; considerando i 46 cromosomi, il genoma di un vivente umano è il risultato di circa 70 mila miliardi di combinazioni diverse, mentre il genoma di un bovino (2n= 60) è una di …1.152.921.504.606.850.000 (!!!) di combinazioni.
L’uomo, nella scala dei viventi, può essere considerato il vertice della complessità; tale complessità va intesa come ‘tipo’ di cellule e di molecole e quindi come ‘maggiore varietà di funzioni’ che possono essere eseguite.
La comprensione della ‘genesi’ della complessità di un organismo pluricellulare richiede la considerazione di due tipi di processi:
(a) ‘ontogenetico’ o di ‘sviluppo’, realmente prodotto nel senso che da una singola cellula (lo zigote) si forma un organismo di piú cellule fra loro differenziate che producono tessuti e organi in modo da poter sopravvivere, riprodursi, relazionarsi con altri organismi e con l’ambiente;
(b) ‘filogenetico’ o ‘evolutivo’, desumibile da una documentazione basata su fossili nel senso che da forme ipotetiche di vita sembrano derivare i primi batteri che avrebbero dato origine agli eucarioti unicellulari, i quali, a loro volta, avrebbero dato origine a quelli pluricellulari.
Secondo Sarà (2005), la ‘complessità’ dei fenomeni della vita, osservata nella sua attualità, si esplica mediante una ‘struttura gerarchica’ (o ‘gerarchia economica’) che trova la sua massima espressione nell’ambito del pensiero ‘olistico’; struttura gerarchica, costituita da diversi livelli ‘emergenti’[3] contenuti gli uni negli altri e interconnessi da rapporti ‘istantanei’.
Già Bettini (1969) aveva intuito l’importanza delle produzioni animali su base molecolare in un contesto sistemico ove il piano organizzativo molecolare rappresenta il primo elemento dell’impostazione ‘atomistica’ di un sistema ‘produttivistico’; in tale contesto, Egli propose tra gli insegnamenti universitari ‘complementari’ quello della ‘zootecnica molecolare’.
La singola cellula non funziona, normalmente, come un semplice ‘sistema a cascata’ (dal ‘genotipo’[4] al ‘fenotipo’[5]), ma come un ‘sistema complesso’.
Il meccanismo responsabile dell’aumento di ‘complessità’ di un sistema biologico opera mediante interazioni tra i costituenti a qualsiasi livello con rapporti per lo piú costruttivi i quali, implicando scambi di energia e di informazione tra le entità interagenti, cooperano per la formazione di un sistema piú ampio. Affinché tale sistema non assuma la rigidità della ‘non vita’, è necessario che le interazioni ‘positive’ o ‘costruttive’ siano accompagnate da quelle ‘negative’ o ‘demolitive’ e che quindi all’ ‘attrazione’ si contrapponga la ‘repulsione’ (Sarà, 2005).
Complessivamente, l’ontogenesi mostra che nel bilancio la fase ‘costruttiva’ prevale su quella ‘distruttiva’: l’albero dei viventi, pur presentando molti rami estinti, si è espanso e si è diversificato con la costruzione di organizzazioni sempre piú autonome e piú complesse; fase ‘costruttiva’, identificabile con la ‘capacità al costruttivismo’ [6] di un organismo (Matassino, 1989c, 1992b; Lewontin, 1993, 2004).
Con particolare riferimento agli aspetti funzionali del genoma, la rete di messaggi molecolari in un organismo, complicata da fenomeni quali la biforcazione dei segnali, la retroazione (feedback) e la diafonia (cross talk)[7], può essere paragonata a un ‘sistema di circuiti’ in cui i segmenti di DNA con funzione regolativa agiscono da ‘commutatori’ o da ‘interruttori’ (switch) che ‘accendono’ o ‘spengono’ l’attività trascrizionale. Questi interruttori ricevono messaggi di ingresso (input) dall’ambiente extra e intracellulare e rispondono con messaggi di uscita (output) che si concretizzano nell’espressione del segmento di DNA interessato. Nel batterio Escherichia coli, Jacob e Monod (1961) hanno caratterizzato il primo ‘commutatore’ genetico: il ‘repressore del segmento di DNA codificante la beta-galattosidasi; enzima la cui sintesi è sottoposta a un doppio controllo: ‘positivo’ o ‘negativo’ in rapporto, rispettivamente, all’assenza di glucosio e alla presenza di lattosio (lac-operon)’[8]. Successivamente, sono stati proposti veri e propri modelli di circuiti molecolari, quali rappresentazione della ‘logica’ e dei meccanismi di attivazione dei segmenti di DNA di un genoma; un esempio di modellizzazione è quello proposto da Kauffman (1969; 1974) basato sulla rete booleana[9] in cui migliaia di segmenti di DNA sono rappresentati come elementi che sono nello stato ‘on’ (acceso, stato ‘1’) o ‘off’ (spento, stato ‘0’) e lo stato on/off di alcuni elementi determina lo stato di altri. La rete booleana non costituisce la rappresentazione reale del comportamento dei segmenti di DNA, in quanto questo comportamento non è identificabile con un semplice on/off, ma piuttosto con ‘differenti livelli di espressione’ entro determinati intervalli identificabili con un continuum di cascate di segmenti di DNA organizzato in reti complesse, come a esempio si verifica per lo ‘sviluppo’ [10] e per l’ ‘accrescimento’[11]; binomio, questo, largamente usato da Darwin per chiarire un concetto biologico fondamentale: differenza fra ‘crescita’ e ‘sviluppo’; infatti, Egli oppone l’adulto all’embrione nel senso che ogni essere vivente può continuare a crescere pur avendo cessato di svilupparsi. I componenti del genoma opererebbero, quindi, attraverso cascate di segmenti di DNA codificanti organizzate in reti (‘network’) molto complesse. In tale sistema i segmenti di DNA ‘strutturali’ agirebbero sulla base delle istruzioni fornite dai segmenti di DNA ‘regolatori’ disposti a differenti livelli, tenendo presente che uno stesso segmento di DNA può assolvere sia la funzione ‘regolatrice’ che quella ‘strutturale’. Al vertice di ciascuna cascata si troverebbero i segmenti di DNA ‘master’, capaci di influenzare in modo determinante il successivo svolgersi dell’ ‘attività della cascata’. Un esempio di segmenti ‘master’ è rappresentato da quelli ‘hox’[12] presenti in tutti gli animali ‘bilateri’, invertebrati e vertebrati, ove svolgono un ruolo determinante nell’organizzazione antero-posteriore del soma; gli stessi segmenti sono presenti anche nel lievito e in alcuni invertebrati primitivi ove, però, svolgono funzioni che, sebbene non ancora ben note, sono sicuramente diverse da quelle dei bilateri; ciò dimostra, se vi fosse ancora bisogno, l’importanza del ‘contesto’ in cui questi segmenti operano nel determinismo della struttura dell’organismo.
Rollo (1994), pur riconoscendo l’importanza del modello ‘funzionale complesso’, propone il cosiddetto modello ‘misto’ in cui si attribuisce una peculiare autonomia alle ‘cascate’.
Una ‘rete complessa’ può assolvere nuove funzioni o modificare la specificità molecolare entro il programma previsto o in altri programmi (Eizinger et al., 1999). Questo interplay (intergioco) fra conservazione e cambio di specificità di azione di singoli segmenti di DNA o di loro ‘reti’ può anche essere utile per l’interpretazione dei cambiamenti nel tempo (cronogenetica).
La complessità della rete è da valutare ancora maggiore alla luce della funzione autocatalitica dell’RNA (self splicing) (Cech et al., 1981) nonché di quella del DNA (‘depurinazione spontanea’) [13] (Amosova et al., 2006). Il predetto RNA è stato definito ‘ribozima’; termine, quest’ultimo, usato per indicare una molecola che è ‘strutturalmente’ costituita da RNA ed è ‘funzionalmente’ in grado di comportarsi anche da ‘enzima’. La funzione ‘autocatalitica’ del DNA potrebbe svolgere un ruolo ‘utile’ in quanto, modificando le proprietà ‘conformazionali’ della doppia elica, potrebbe facilitare la formazione di complessi aperti ‘DNA-proteina’ e/o giocare un ruolo nell’ ‘impacchettamento’ del DNA e/o facilitare eventi di ‘ricombinazione tra segmenti di DNA’.
Altri modelli di ‘reti’ di segmenti di DNA sono:
(a) il modello bayesiano[14], in cui i livelli di espressione sono definiti da probabilità bayesiane;
(b) il modello ‘fuzzy’[15], in cui i livelli di espressione assumono valori continui nell’intervallo ‘0÷1’; in genetica quantitativa un esempio potrebbe essere identificato nel ‘coefficiente di ereditabilità’, in cui la frazione ‘ambientale’ o quella ‘ereditabile’ della ‘varianza fenotipica totale’ può assumere un valore compreso fra ‘0’ e ‘1’.
La complessità degli esseri viventi richiede un approccio ‘sistemico’; approccio identificabile con la ‘teoria generale dei sistemi’, resa ufficiale da L. von Bertalanffy nel 1945 e già espressa da Needham nel 1936. Secondo Needham, il sistema vivente è necessariamente ‘policromatico’, è una ‘complessità variegata’ che si esprime in una essenza ‘singola’; pertanto, l’‘interezza’ dell’organismo è fondamentale nella biocomunicazione.
Bettini (1972) definí il sistema come ‘un insieme di processi interagenti caratterizzati da un numero piú o meno grande di mutue relazioni funzionali’ o, se si preferisce, ‘un complesso di eventi o di fenomeni di vita reale contrassegnati da scambievoli legami funzionali’ (Matassino, 1978, 1984).
La ‘dinamica del fenomeno della complessità’, legata anche alle continue acquisizioni della genomica e della proteomica, nel loro significato piú ‘lato’, evidenzia l’esigenza di una visione sempre piú integrata ‘genotipo –fenotipo’ nel funzionamento di qualsiasi ‘entità biologica’; funzionamento che potrebbe essere considerato, come nel ‘mandala’ (Matassino, 1992b), il risultato delle interazioni di diversi sottosistemi (figura 1). 2.1. Pleiotropia
La dinamicità temporale e spaziale rappresenta una delle principali caratteristiche dell’’attività funzionale’ di un segmento di DNA; attività di per sé complessa e di non semplice definizione in quanto un ‘segmento di DNA codificante ‘polipeptide/i’ rarissimamente funziona da solo e/o possiede una singola funzione.
Le modalità grazie alle quali il genotipo ‘costruisce’ il ‘fenotipo’ sono fortemente complesse e ancora in gran parte sconosciute; l’esistenza di un numero sempre maggiore di segmenti di DNA a effetto ‘pleiotropico’ evidenzia la difficoltà di definire la funzione specifica di un segmento di DNA.
La pleiotropia è un ‘fenomeno genetico’ per il quale un unico segmento di DNA è in grado di influenzare ‘aspetti multipli’ e ‘strettamente correlati’ del ‘fenotipo’ di un essere vivente. La prima osservazione di tale ‘fenomeno genetico’ venne fatta da G. Mendel (1865) il quale notò come il ‘medesimo fattore ereditario’ influenzasse sia il colore dei fiori sia quello del tegumento dei semi. H. Nilsson (1905) osservò che nell’avena vi era una stretta correlazione fra la pelosità dei culmi e la forma delle ariste. La dimostrazione della pleiotropia è complessa in quanto richiede che i ‘caratteri correlati’ non solo manifestino dissociazione nella discendenza ma abbiano sempre una stessa percentuale di scambio con i segmenti di DNA noti. Sebbene nel ‘settore zootecnico’ gli effetti pleiotropici siano stati spesso ipotizzati e siano stati oggetto di modelli sperimentali (Bettini, 1972), a oggi, sono ancora molto esigue le conoscenze relative al complesso biochimismo responsabile degli ‘effetti multipli’.
È acclarato che il ‘comportamento pleiotropico’ può essere:
(a) ‘modulare’ (‘modular’ pleiotropy), quando le diverse ‘manifestazioni fenotipiche’, quali espressione di un’unica mutazione, sono funzionalmente correlate, nel senso che singole ‘unità funzionali’ vengono influenzate distintamente dalla mutazione unica (Cheverud, 1996; Wagner, 1996; Wagner e Altenberg, 1996; Hansen, 2003; Welch e Waxman, 2003);
(b) ‘ubiquitario’ (‘ubiquitous’ pleiotropy), quando le diverse ‘manifestazioni fenotipiche’, quali espressione di un’unica mutazione, non sono funzionalmente correlate, nel senso che cambiamenti interessanti una data manifestazione fenotipica sono indipendenti da quelli di un’altra manifestazione fenotipica (Wright, 1968, 1980; Lande, 1980).
La pleiotropia potrebbe dipendere sia da linkage tra ‘segmenti’ di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ che da presenza di una correlazione genetica tra questi ‘segmenti’. Quando l’effetto pleiotropico è ‘bilanciato’ (uguale a 0), perché l’assetto allelico determina il sorgere di correlazione/i di ugual valore (sia in senso positivo che in senso negativo), si ha il fenomeno della pleiotropia ‘criptica’ o ‘nascosta’ (‘hidden’ pleiotropy) (Cheverud, 1984; Baatz e Wagner, 1997).
Attualmente, si ritiene che la maggioranza di questi ‘segmenti’ a comportamento ‘pleiotropico’ interessi soprattutto quelli coinvolti nello sviluppo e nelle risposte ormonali.
A esempio, la conservazione nel genoma di programmi ‘suicidi’ che predispongono alla senescenza viene associata a un effetto ‘pleiotropico’; il complesso processo di ‘remodelling’ (‘rimodellamento’) che l’organismo attua in tarda età, realizzando soluzioni di compromesso differenti da quelle che risultano ottimali in età giovanile, si concretizza in un ‘pleiotropismo all’inverso’. Pertanto, gli stessi ‘segmenti’ sarebbero responsabili di elevati livelli di efficienza nella fase giovanile, favorendo una forte sopravvivenza degli individui ‘portatori’, quindi di una loro ‘affermazione riproduttiva’, e sarebbero responsabili di una scarsa attività di ‘compromesso’ (remodelling) nella fase ‘post-riproduttiva’ con conseguente accelerazione dell’invecchiamento. Sembrerebbe, quindi, che l’accesso a un’età centenaria dipenderebbe da segmenti di DNA che si comporterebbero in modo diametralmente opposto in relazione all’età dell’individuo; detti ‘segmenti’ favorirebbero un maggiore rischio di mortalità nell’età ‘giovanile’ e consentirebbero un piú proficuo ‘compromesso biologico’ nell’età ‘senile’ (Bartoletti e Terranova, 2002).
La sequenza temporale di attivazione dei vari segmenti di DNA è, indiscutibilmente, legata alla ‘stabilità’ dell’informazione che decade universalmente e progressivamente nel tempo, poiché il tempo ‘biologico’ viene consumato e non sostituito; ciò comporta come ‘effetto finale’ un esaurimento dell’arsenale di cui l’individuo è in possesso.
Altro esempio dell’effetto di ‘compromesso biologico’ è quello che regola l’attività di proteine cosiddette ‘bifronti’, ampiamente presenti in natura, quale, a esempio, la proteina Id2 [16] del tessuto nervoso; questa proteina, dopo aver svolto l’attività fisiologica di induzione della divisione cellulare durante lo sviluppo embrionale del sistema nervoso, può assumere una duplice funzione:
(a) ‘negativa’, nel promuovere la proliferazione di tumori del sistema nervoso in età pediatrica;
(b) ‘positiva’, nel favorire la rigenerazione degli assoni nel neurone.
Questo ‘compromesso funzionale’ sarebbe assicurato dal complesso enzimatico APC[17] che, attivando la degradazione della proteina Id2, ne impedisce l’accumulo; la riduzione di Id2 promuoverebbe l’azione di fattori di trascrizione di un cluster di segmenti di DNA, tra i quali quello codificante il recettore Nogo, elemento chiave nell’inibizione dello ‘sviluppo’ degli assoni; l’accumulo della proteina Id2 nel ‘neurone’ reprimerebbe l’azione dei suddetti fattori di trascrizione promuovendo lo sviluppo dell’assone (Lasorella et al., 2006).
Nel campo umano, una base genetica pleiotropica viene riconosciuta a molte malattie. Come riportato da Matassino (2005b), un esempio è rappresentato dalla sindrome di Hutchinson-Gilford o ‘progeria infantile’ [18]; responsabile della malattia è una mutazione puntiforme nel segmento di DNA codificante le proteine della membrana nucleare: ‘lamina A’ e ‘lamina C’ [19]. La mutazione comporta l’attivazione di un sito di ‘splicing non corretto’ che si traduce nella delezione di 50 aminoacidi nella regione carbossilica terminale della proteina ‘lamina A’, comportante la presenza di una ‘lamina A’ ‘imperfetta o difettosa’. Scaffidi e Misteli (2005) hanno sintetizzato un breve segmento di DNA modificato avente come bersaglio il sito di ‘splicing errato’ sul pre-mRNA codificante la proteina ‘lamina A’; quest’oligonucleotide fungerebbe da ‘cerotto molecolare’ in grado di favorire il ‘nascondimento’ del ‘sito non corretto’ dall’azione di splicing (‘taglio’) evitando cosí la sintesi della proteina ‘lamina A’ difettosa.
Nel ‘ceppo selvatico SM’ [20] del batterio Pseudomonas Fluorescens SBW 25 sono stati caratterizzati effetti ‘pleiotropici’ di una mutazione puntiforme a carico della regione codificante del segmento di DNA wspF ; mutazione che rende il ‘ceppo mutato LSWS’[21] in grado di colonizzare un nuovo microambiente (Knight et al., 2006). Tale mutazione ‘adattativa’[22], o meglio partecipativa al ‘costruttivismo’, determina effetti ‘pleiotropici’ che si estrinsecano anche in differenze di natura quantitativa (P<0,05) tra il ceppo ‘SM’ e quello ‘LSWS’. Questo ‘pleiotropismo’ si concretizza, a oggi, nella sintesi di ben 52 proteine che, in vario grado, vengono coinvolte nel metabolismo del singolo ‘ceppo’.
Una mutazione può riguardare anche una semplice regione ‘regolatrice’ di un segmento di DNA ‘pleiotropico’. Prud’homme et al. (2006), in Drosophila, hanno evidenziato che mutazioni differenti nella regione ‘regolatrice’ del ‘segmento pleiotropico yellow’ [23] sarebbero responsabili della ‘presenza’ o dell’‘assenza’ della ‘macchia scura puntiforme sull’ala del maschio’ a seconda della specie. L’ ‘ipoespressione’ del ‘segmento’ di DNA determina una colorazione uniformemente grigia sull’ala del maschio di Drosophila melanogaster mentre l’ ‘iperespressione’ è responsabile di una ‘macula’ scura in posizione distale nella parte anteriore dell’ala nel maschio di Drosophila biarmipes. Questa categoria di mutazioni potrebbe fornire una qualche spiegazione all’ipotesi di ‘evoluzione convergente’[24]. Gli Autori hanno ipotizzato che la succitata ‘ipoespressione’ potrebbe essere spiegata dalla presenza di una mutazione a carico di un ‘elemento regolatore’ responsabile della disattivazione del segmento di DNA ‘yellow’, nonostante che la Drosophila melanogaster e la biarmipes abbiano un antenato comune caratterizzato da ala ‘maculata’. Nelle specie Drosophila biarmipes e tristis la macula si sarebbe formata indipendentemente grazie all’azione di due diversi ‘elementi regolatori’. Sarebbero stati gli ‘elementi regolatori’ a far variare e a determinare l’espressione del ‘segmento pleiotropico yellow’ e quindi la comparsa di nuove manifestazioni fenotipiche.
Nel ‘campo zootecnico’, un esempio di ‘pleiotropia’ è fornito, nel pollo, dal segmento di DNA recessivo autosomico ‘psp’ (polidattilia-sindattilia-ptilopodia) che, nella condizione di omozigosi recessiva, è responsabile del fenotipo ‘dita soprannumerarie e fuse con tarsi impiumati’. Altra manifestazione fenotipica con base ‘pleiotropica’ è la ‘doppia muscolatura’ o ‘doppia groppa’. Nella specie bovina, responsabili di tale fenotipo sono mutazioni a carico del segmento di DNA codificante la miostatina; dette mutazioni causerebbero ‘effetti multipli’ a carico del tessuto muscolare e di quello adiposo. La base ‘pleiotropica’ di tale fenotipo evidenzia l’importanza di verificare gli effetti fenotipici multipli quando si intraprendono programmi di selezione tendenti al miglioramento del rapporto ‘massa muscolare’/ ‘grasso’ affinché non siano compromessi altri aspetti produttivi e/o riproduttivi influenzati dalla pleiotropia (Short et al., 2002).
Nell’era post genomica, diventa sempre piú importante spostare l’attenzione dall’ ‘identità dei segmenti di DNA’ alla ‘loro espressione’ e al contesto in cui essi operano al fine di ridurre lo ‘iato’ fra il ‘genotipo’ e il ‘fenotipo’ . 3. Integrazione ‘genotipo - fenotipo’
Il dualismo ‘genotipo-fenotipo’, teoricamente, inizia con la riscoperta delle leggi di Mendel (inizi 1900) (scoperte nel 1865), nonché con la disputa del dualismo ‘somatico-germinale’ di Weissman (1883, 1885). Successivamente, fondamentali sono stati i concetti elaborati da Waddington (1942, 1953, 1957), su base sperimentale e teorica, come quelli di:
(a) ‘paesaggio epigenetico’[25];
(b) ‘canalizzazione dello sviluppo’[26];
(c) ‘assimilazione genetica’[27].
Nel 1949 Schmalhausen ha introdotto il concetto di ‘norma di reazione’ che non va considerata “espressione statica del cambiamento di un ‘carattere’” (o ‘manifestazione fenotipica’) ma, come evidenziato anche da Bettini (1972) e da Matassino (1978), “fenomeno dinamico che si verifica in un determinato contesto microambientale sotto l’azione del ‘genoma’”. Stimoli ambientali possono portare alla espressione di una ‘variabilità genetica latente’ e i fenotipi relativi, sortiti dall’ambiente dopo lo ‘screening’ effettuato dalla selezione naturale, possono essere ‘assimilati geneticamente’. A esempio, in Drosophila, quando la proteina da shock termico Hsp90 non è manifesta o per mutazione o per inibizione da farmaci o da shock termico si rivela una variabilità genetica ‘criptica’ che viene espressa nella generazione successiva (fenomeno della ‘capacitazione’[28]) (Rutherford e Lindqvist, 1998).
L’‘assimilazione genetica’ e la ‘capacitazione’ sono indicative della importanza di mantenere elevato il livello di biodiversità quale strumento principe che permette alla natura di sincronizzarsi alla velocità dei cambiamenti ambientali; pertanto, la biodiversità è da considerarsi sia anello di congiunzione con il passato sia base del divenire biologico. E' merito della diversità biologica il continuo miglioramento qualitativo dell'informazione, quindi del grado di fitness o successo biologico di un dato tipo genetico al variare delle condizioni ambientali. Pertanto, la eventuale riduzione della variabilità genetica comporterebbe una diminuzione sia della capacità di ‘autoregolazione’ che della propensione al ‘costruttivismo’ dei sistemi biologici (Matassino, 1989c, 1990, 1992b, 1996, 2001a, 2004a, 2005a). La principale causa di ‘biodiversità’ risiede nell’eterogeneità dei sistemi viventi; l’eterogenità è la norma e, in biologia, vengono selezionati negativamente i meccanismi che tendono a limitare la variabilità genetica; ogni essere vivente possiede una propria individualità che viene ‘codificata’ nel proprio ‘genoma’ e viene ‘costruita epigeneticamente’ (Matassino, 2004a). I 'canoni etici’ che scaturiscono dalle profonde e articolate riflessioni sulla ‘complessità del vivente’ inducono a ipotizzare un 'federalismo biologico' in grado di ‘riconferire’ importanza e dignità alla 'biodiversità antica autoctona’ considerata come parte integrante di un ‘bioterritorio’ (Matassino, 2005a). Questo 'federalismo biologico’ configura ‘un nuovo soggetto nel mondo del diritto per la contestuale presenza di quegli elementi che determinano la rilevanza giuridica di un bene e che consentono di riconoscerne la giuridicità’ (Mazziotta e Gennaro, 2002).
Qualunque ‘filiera produttiva’ basata sulla utilizzazione dell’animale in produzione zootecnica ha le sue fondamenta sulla relazione tra ‘biologia’ e ‘poiesi’. La ‘biopoiesi’ dovendo soddisfare, primariamente, esigenze dell’uomo ‘nutrizionali’, ‘extranutrizionali’ e ‘salutistiche’, variabili nel ‘tempo’ e nello ‘spazio’, affonda le sue radici nell’incommensurabile terreno della ‘biodiversità’. La conoscenza delle interazioni tra le caratteristiche molecolari ‘peculiari’ dei tipi genetici autoctoni, specialmente antichi (TGAA) e le caratteristiche del bioterritorio in cui essi sono inseriti è fondamentale per il continuo miglioramento quali-quantitativo di una ‘biopoiesi’.
Pertanto, l’ottimizzazione delle funzioni dell’‘animale allevato ai fini produttivi’ deve scaturire dalla conoscenza dello stesso sotto il profilo genomico, trascrittomico, proteomico, aromomico, glicomico, lipidomico e metabolomico in un contesto bioterritoriale in senso ‘lato’. L’integrazione tra questi suddetti profili potrebbe contribuire alla conoscenza dei diversi fattori che influenzano la variabilità delle caratteristiche qualitative delle produzioni animali; fattori che agiscono infra vitam e post mortem nei diversi momenti della filiera produttiva (Matassino, 2006b; Matassino et al., 2006d e e).
Nel 1972 Bettini ha introdotto il concetto di ‘attributo di un oggetto del sistema animale a qualsiasi livello di organizzazione’ in sostituzione del termine ‘carattere’ o ‘manifestazione fenotipica’. Conseguentemente, il tipo di variazione della ‘manifestazione fenotipica’ diventa una funzione parametrica dell’attributo, per cui si passerebbe a una genetica:
(a) informatica propria degli acidi nucleici, del codice genetico e della sua trascrizione;
(b) cibernetica rispetto al canale interno o genetica dello sviluppo o fisiologia del segmento di DNA;
(c) cibernetica di campo nel senso di dinamica della variazione come risultato delle interazioni ‘genoma-ambiente’ entro e fra gli individui.
La complessità della manifestazione fenotipica ‘produttività’ suggerisce una revisione nel modo di considerare il ‘fenotipo’ in un piano di miglioramento delle prestazioni degli animali in produzione zootecnica; in tale contesto, il ‘carattere’ va inteso come espressione di un particolare aspetto del fenotipo visto anche sotto un profilo ‘tecnologico’ e, pertanto, non solo ‘biologico’ (Bettini, 1988; Matassino, 1988).
Il codice genetico è protetto da sistemi di informazione, di controllo e di retroazione. Già a livello individuale, le retroazioni (biochimiche, fisiologiche e comportamentali) sono piuttosto complesse; a livello di popolazione sono estremamente ancora piú complesse e difficili da interpretare (Bettini, 1972). Infatti, la ‘costruzione’ di un ‘fenotipo’ si realizza secondo 3 diversi livelli di retroazione ‘positiva’ e ‘negativa’:
(a) interazione intra DNA codificante ‘polipeptide/i’ (fenomeno della dominanza e della epistasi);
(b) interazione fra proteine, RNA e DNA (fenomeni di feedback grazie alla ‘trascrizione’ e alla ‘traduzione’);
(c) interazione fra proteine e altre molecole a livello sia intracellulare che intercellulare.
I suddetti tre livelli sono fortemente influenzati da fenomeni epigenetici dovuti a fattori sia esogeni che endogeni responsabili di un vero e proprio ‘epigenotipo’, nel significato proposto da Waddington (1957), in base al quale l’individuo non sarebbe un semplice mosaico di caratteri controllati dai segmenti di DNA codificanti ‘polieptide/i’, ma un sistema caratterizzato da mutue interazioni e da equilibri tra forze opposte.
Sul piano descrittivo, probabilmente, sarebbe possibile definire fenotipicamente una popolazione rispetto a un elevato numero di ‘caratteri’ (biochimici, comportamentali, fisiologici, immunitari, somatici, ecc.) con qualsiasi grado di approssimazione desiderabile; tuttavia, resterebbe da stabilire quale significato è da attribuire alle differenze osservate nella manifestazione di un carattere, metrico o comunque, a effetto visibile e misurabile, nel senso di ripartire le suddette differenze in quelle di natura ‘ambientale’ e in quelle di natura ‘genetica’ (Bettini, 1972; Matassino, 1978).
Questi concetti evidenziano che l’espressione dei segmenti di DNA è influenzata da interazioni tra citoplasma e nucleo, le quali impediscono l’esistenza di una corrispondenza univoca fra ‘genotipo’ e ‘fenotipo’, nel senso che lo stesso ‘genotipo’ può esprimere diversi ‘fenotipi’ e che lo stesso ‘fenotipo’ può essere la manifestazione dell’espressione di ‘genotipi’ diversi.
Negli anni ’70 e ’80 sono stati introdotti i concetti di ‘coniugazione della filogenesi e della ontogenesi’ e di ‘constraint’ ; a partire dal 1999, il concetto di coniugazione ‘filogenesi-ontogenesi’ è stato espresso come EVO-DEVO[29].
Constraint. Il termine ‘constraint’ [30](vincolo), nel significato piú accettato, può essere identificato in ‘ciò che dirige altri tipi di cambiamenti o che impedisce quei cambiamenti che sarebbero operati dalla selezione’; in senso lato, il ‘constraint’ è ‘un fattore che costringe o canalizza i cambiamenti fenotipici in una direzione stabilita dalla storia passata o dalla struttura formale, anziché dal corrente adattamento’ (Gould, 1989).
E’ possibile individuare le seguenti categorie di constraint:
(a) strutturale;
(b) di sviluppo;
(c) filogenetica;
(d) genetica;
(e) epigenetica;
(f) comportamentale;
(g) ecologica o ambientale;
(h) selettiva.
Uno dei piú importanti aspetti potrebbe identificarsi con il meccanismo di ‘assimilazione genetica’ (27), processo fondamentale della biologia epigenetica dello sviluppo, che Waddington (1957, 1975) ha evidenziato in Drosophila. La produzione di un nuovo assetto genetico, dovuto all’ ‘assimilazione genetica’ del nuovo fenotipo, è favorita dalla cosiddetta ‘selezione naturale’ nel corso dell’evoluzione ma, come nel caso dell’affine effetto Baldwin[31] (1986), il fenomeno è ‘canalizzato’ cioè guidato da precisi stimoli ambientali (Sarà, 2002).
Un fenomeno collegato all’ ‘assimilazione genetica’ può essere considerato quello dell’esistenza di fenocopie (Kauffman, 1993).
Sarà (1993), considerando l’influenza dei constraint ‘interni’ ed ‘esterni’ sul ‘fenotipo’, ha proposto di ripartire il ‘processo evolutivo’ in due fasi:
(a)‘costruttiva- epigenetica’ che si verifica a livello di singolo organismo;
(b) ‘selettiva’ che si verifica a livello di popolazione.
E’ noto che i vari ‘caratteri’ o ‘manifestazioni fenotipiche’ (comprese quelle comportamentali) di un organismo vivente sono ampiamente sottoposti all’effetto di una diversificata serie di ‘vincoli’ che, indubbiamente, interagiscono con la ‘selezione’ , sia essa naturale che zootecnica. In una visione ‘organismica’ si parla di ‘constraint ecosistemici’. D’accordo con Sarà (1998), la relazione tra ‘selezione’ e ‘constraint’ è ‘reciproca’ ; questa ‘reciprocità’ può condurre al sorgere di nuovi ‘fenotipi ereditabili’, nel senso che questi fenotipi sono il risultato sia dell’ ‘estrinsecazione’ del loro genoma sia del loro ‘epigenoma’. Olisticamente, l’essere vivente va considerato come un ‘intero biologico’ e non come un ‘semplice montaggio’ di parti separate. Una esemplificazione di questo complesso ‘processo funzionale’ può essere quello riportato nella figura 2 che si riferisce alla rappresentazione della ‘rete di vincoli’ e del probabile ‘sistema operativo’; sistema comprendente sia la fase di ‘capacità al costruttivismo’ (Matassino, 1989c, 1992b; Lewontin, 1993, 2004) del singolo organismo che quella ‘selettivo-stocastica’ operativa a livello popolazionistico. Dall’esame della figura 2 si evidenzia come alcuni ‘constraint’ (genetici e filogenetici) e la fase di ottenimento genotipo/fenotipo sono compresi nell’area di ‘transvariazione’ fra le due fasi: organistico ‘costruttiva’ e popolazionistico ‘selettivo-stocastica’. Certamente, in questo contesto non avrebbe semanticità un approfondimento del meccanismo biologico comprendente l’effetto dei ‘constraint’ (vincolo).
Ribotipo. Nella realizzazione del fenotipo, grande importanza assume il concetto di ‘ribotipo’ introdotto da Barbieri (1981) quale sistema intermedio tra il ‘genotipo’ e il ‘fenotipo’; tale concetto è stato ripreso da Herbert e Ritch (1999), i quali hanno definito il ‘ribotipo’ come ‘l’insieme della sequenza nucleotidica dell’RNA di un individuo’, sottolineando l’importanza della sua funzione negli organismi eucarioti.
In accordo con Sarà (2002), il DNA sarebbe solo un genoma ‘virtuale’ nel senso che esso non specificherebbe ‘direttamente’ il fenotipo, ma solo il ‘possibile’ fenotipo attraverso gli RNA . Si ritiene che l’RNA, coniugando capacità catalitica e informativa, abbia svolto una funzione fondamentale per l’origine della vita (cosiddetto ‘mondo a RNA’). Successivamente, si sarebbe evoluta la triade ‘DNA-RNA-proteine’ in cui l’RNA eserciterebbe una funzione fondamentale di ‘raccordo’. Fondamentale per la formulazione dell’ipotesi dell’RNA quale molecola ‘primordiale’ è stata la ‘scoperta’ della funzione ‘autocatalitica’ o di ‘self splicing’ dell’RNA (ribozima); il ribozima, quale traccia determinante del passato conservata nella biochimica delle cellule attuali, può essere quindi considerato un ‘fossile molecolare’ (Cech et al., 1981).
Kun et al. (2005) hanno evidenziato che i ribozimi tollererebbero positivamente eventi di mutazione ‘multipla’[32], anche con una frequenza di errore pari a 1 nucleotide[33] ogni 1000, senza un’alterazione della propria funzionalità; la possibilità di conservazione di detta funzionalità sarebbe assicurata dalle seguenti condizioni:
(a) mantenimento della struttura secondaria quale fattore chiave per l’attività enzimatica;
(b) conservazione di regioni ‘critiche’ nella molecola a livello delle quali la natura della base azotata presente è fondamentale.
Sulla base di simulazioni informatiche si è stimato che i ribozimi potrebbero raggiungere lunghezze di 7000÷8000 nucleotidi pari a circa 50÷100 segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’; valore, quest’ultimo, che non si discosterebbe molto dal numero minimo di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ ritenuto essenziale per garantire la vita a un organismo semplice quale un batterio. Ciò supporterebbe l’ipotesi dell’ ‘autonomia primordiale’ dell’RNA.
Il ‘ribotipo’ avrebbe un ruolo centrale nel processo evolutivo. Secondo Herbert e Rich (1999), i differenti ‘ribotipi’ potrebbero essere sottoposti a selezione naturale in base ai fenotipi prodotti anche se questa selezione implica la necessità di ereditare i fenotipi ‘di successo’.
L’importanza del ribotipo come ‘agente intermediativo ed evolutivo’ nella cellula è stata evidenziata da Barbieri (1998) sulla base dell’esistenza di codici legati all’RNA:
(a) codice genetico che si esprime nella formazione del trascritto primario (pre-mRNA);
(b) codice che regola una ‘prima tappa’ epigenetica post-trascrizionale (splicing[34] ed editing[35] del pre-mRNA);
(c) codice che regola una ‘seconda tappa’ epigenetica post-trascrizionale (traduzione dell’mRNA in polipeptide).
Attraverso questi tre codici, con particolare riferimento agli ultimi due (‘plurimi’[36] e ‘dinamici’), l’informazione passa da un tipo di molecola a un altro con un concomitante ‘salto di significato’ del messaggio iniziale rendendo il fenotipo ‘dinamico’ e ‘creativo’. L’ipotesi dei ‘codici plurimi’, ognuno dei quali rappresenta una ‘finestra’ aperta agli ‘stimoli periferici’ esogeni ed endogeni, conferisce una visione ‘organismica’ dell’integrazione ‘genotipo’-‘fenotipo’ con un aumento dei ‘gradi di libertà’ del sistema, considerando che ogni codice corrisponderebbe a un grado di libertà (Sarà, 2002). 3.1. Epigenetica
Il ‘codice genetico’ può essere ritenuto il ‘prototipo’ di infiniti sistemi di vita fortemente flessibili grazie all’influenza dei fattori epigenetici (Matassino, 1992b).
Le recenti acquisizioni scientifiche evidenziano in modo sempre piú incontrovertibile l’importanza dell’epigenetica che, in senso lato, può essere intesa come: ‘modificazioni temporanee o permanenti dell’attività dei segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ dovute all’effetto dei fattori ambientali (Matassino, 1999).
L’epigenetica è stata definita da Wolffe e Matzke (1999), in senso stretto come: ‘lo studio dei cambiamenti ereditari nell’espressione del DNA senza il verificarsi di un cambiamento nella sequenza dello stesso’.
Tenendo conto delle suddette due definizioni saranno presi in esame:
(a) epimutazione;
(b) paramutazione;
(c) polifenismo;
(d) ‘impronta genitoriale’ (‘parental imprinting’) con riferimento, segnatamente, alla manifestazione fenotipica ‘callipige’ .
Inoltre, particolare enfasi sarà data alla cronogenetica e alla cronobiologia, fenomeni biologici che possono essere considerati l’effetto di un compromesso tra l’‘orologio biologico’ interno e gli agenti ‘sincronizzatori’ esterni.
Il ‘sistema epigenetico’ regola l’ espressione dei segmenti di DNA nella fase sia pre-trascrizionale sia post-trascrizionale e, di conseguenza, regola i processi di differenziamento cellulare e la morfogenesi. In primo luogo, il ‘sistema epigenetico’ influenza l’espressione di segmenti di DNA in base alle informazioni che provengono a questo DNA dal ‘sistema sensitivo’ che, essendo costituito da recettori e da trasduttori (signalling = trasduzione dei segnali), gioca un ruolo notevole nel ‘dialogo molecolare’. Dunque, il ‘sistema epigenetico’ fungerebbe da raccordo tra il ‘sistema genetico’ e il ‘sistema sensitivo’; questo raccordo è costituito da tutte le interazioni molecolari, fisiche e chimiche che si verificano nel biochimismo cellulare. L’epigenetica costituisce quella che potrebbe essere definita una ‘onnipervasiva collaborazione tra genotipo e fenotipo’ (Sarà, 2002).
Landman (1991) ha proposto la distinzione dei ‘meccanismi epigenetici’ in:
(a) nucleici: caratterizzati da ‘perdita’ di DNA e di RNA non essenziale o da ‘acquisizione’ di nuovi segmenti di DNA mediante trasposizione;
(b) epinucleici: caratterizzati dall’’ereditarietà’ di modificazioni conformazionali del DNA dovute a:
(i) ‘metilazione’[37] della base azotata ‘citosina’ con conseguente effetto di ‘silenziamento’ o di ‘spegnimento’ dell’espressione di un segmento di DNA;
(ii) ‘acetilazione’[38] degli istoni legati ai complessi regolatori della trascrizione con conseguente effetto di ‘attivazione’ o di ‘accensione’ dell’espressione di un segmento di DNA;
(iii) attivazione di promoter alternativi di uno stesso segmento di DNA che ne modulano l’espressione in rapporto alle condizioni ambientali;
(c) extranucleici: caratterizzati dall’ereditarietà di un pattern morfogenetico prodotto da una espressione di segmenti di DNA codificanti stabilizzata da fattori citoplasmatici.
L’esistenza dei processi epigenetici è stata convalidata da risultati di ricerche finalizzate all’ottenimento di organismi transgenici (OT), comunemente detti organismi geneticamente modificati (OGM); infatti, sebbene i segmenti di DNA introdotti s’integrassero come ‘copie multiple’ o fossero ‘identici’ alla sequenza ‘endogena’, l’effetto si concretizza, contrariamente alle aspettative, non in un aumento di espressione, ma in un vero e proprio ‘silenziamento trascrizionale’ di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’.
Secondo Jablonka e Lamb (1989, 1995) uno ‘stato epigenetico’ può essere trasmesso ai discendenti anche se con ereditarietà diversa da quella mendeliana (EIS, epigenetic inheritance system = sistema di ereditarietà epigenetica); normalmente esso viene annullato al momento della riproduzione sessuale. Nei mammiferi, un particolare tipo di ‘eredità epigenetica’ è riscontrabile nelle ‘proteine prioniche’, le quali dipendono dal codice genetico solo per la forma ‘normale’ (PrPc, cellular prion protein); quest’ultima è responsabile di isoforme (PrPSc, scrapie prion protein) che trasmettono il loro stato alterato ad altre proteine normali. Nelle divisioni cellulari, questo fenotipo ‘prionico’ viene trasmesso ereditariamente da una generazione cellulare alla successiva (Pagel e Krakauer, 1996). Trattasi di una trasmissione ‘molecolare fenetica’ piuttosto diffusa, cioè di una eredità basata sulla ‘conformazione proteica’.
Gli effetti epigenetici ereditabili possono influenzare la dinamica di popolazione e quindi l’evoluzione dei ‘caratteri’ (Rossiter, 1996). Casi in cui gli ‘stati epigenetici’ vengono ereditati stabilmente sono quelli che si possono identificare, a oggi, con le ‘epimutazioni’ e con le ‘paramutazioni’, entrambe scoperte per la prima volta nel regno vegetale.
Epimutazione. Essa consiste in una alterazione dei normali meccanismi epigenetici; nel regno vegetale, la maggiore frequenza di epimutazione può essere attribuita all’assenza di separazione precoce tra soma e germe e alla possibilità di una sua trasmissione per via ‘agamica’. Cubas et al. (1999), nel valutare una variazione naturale nella simmetria del fiore Linaria vulgaris, hanno osservato che il fenotipo mutato dovuto a metilazione del DNA (‘silenziamento trascrizionale’) tende a ‘revertire’ durante lo sviluppo somatico come conseguenza della sua minore stabilità. Tuttavia, una ‘epimutazione’ può essere stabile con l’aumentare di mutazioni nel DNA metilato. Recentemente, sono state riscontrate epimutazioni in Drosophila e in alcuni mammiferi nonostante che in essi la differenziazione fra linea ‘somatica’ e ‘germinale’ sia precoce (Balter, 2000).
Nel topo, Morgan (1999) ha evidenziato che il colore della pelliccia può essere ereditato in modo stabile grazie a una epimutazione del segmento di DNA ‘agouti’ lasciando intravvedere, quindi, una certa labilità della barriera ‘somatico-germinale’.
Paramutazione. Essa è stata definita da Wolffe e Matzke (1999) come fenomeno che ‘trasgredisce’ la prima legge di Mendel (segregazione immutata nella progenie) e che coinvolgerebbe interazioni ‘fisiche’ trasmettenti uno stato o di ‘attività’ o di ‘silenziamento’ di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ siti nello stesso locus; a esempio, l’allele ‘paramutato’ ‘silenzia’ l’espressione dell’allele ‘normale’. Nella genesi della ‘paramutazione’, secondo Alleman et al. (2006), vi è assenza di interazioni fisiche tra gli alleli interessati; infatti, nel mais, questi Autori hanno evidenziato che la paramutazione è genetica in quanto mediata dal segmento di DNA mop1[39] codificante una RNA polimerasi RNA dipendente la quale sarebbe responsabile della sintesi di ‘RNA d’interferenza’ in grado, nelle generazioni successive, di mantenere invariato lo status della cromatina associato alla paramutazione; status che può rappresentare un meccanismo epigenetico di regolazione pre-trascrizionale. Rassoulzadegan et al. (2006) hanno riferito sull’esistenza di ‘paramutazione’ nel topo, evidenziando una trasmissione anomala del fenotipo ‘Kit’ mediata da piccole molecole di RNA (snRNA). Infatti, negli individui ‘paramutati’ si osservano:
(a) livelli dimezzati di mRNA codificante il recettore Kit al pari dei genitori portatori ‘eterozigoti’ dell’allele Kittm1Aif [40];
(b) accumulo di piccole molecole di RNA (snRNA) assenti nei genitori portatori ‘eterozigoti’ dell’allele Kittm1Aif; questi snRNA permetterebbero ai figli privi dell’allele Kittm1Aif di manifestare il fenotipo caratterizzato da estremità bianca alla coda e agli arti, fenotipo tipico dei soggetti portatori di tale allele. Interessante è il riscontro che dall’accoppiamento di genitori ‘eterozigoti’ rispetto all’allele Kittm1Aif si ha una elevata mortalità prenatale nella progenie ‘eterozigote’ a dimostrazione che la ‘paramutazione’ può avere un effetto parzialmente negativo.
Polifenismo. Fenomeno biologico dovuto agli effetti delle interazioni ‘genoma-ambiente’ sui processi di sviluppo degli organismi. Si parla di polifenismo quando la variabilità è ‘agenetica’ (Mayr, 1963) e può essere a distribuzione o discreta o continua, che, a sua volta, può essere o gaussiana o bi o plurimodale.
E’ importante definire i limiti entro cui un attributo’ è ‘fenico’[41], cioè quale è la misura di variazione di un dato ‘genotipo’ al variare delle componenti ambientali. In natura, il polifenismo è particolarmente presente negli insetti organizzati in apposite ‘società’ (api, formiche, termiti, ecc.). Questo polifenismo non dipenderebbe da differenze interessanti la base nucleotidica del DNA, ma dall’espressione differenziale di gruppi di segmenti di DNA coinvolti nello sviluppo larvale.
La comunità delle api, un’organizzazione sociale tra le piú ammirevoli, si basa sulla suddivisione in tre caste: ape ‘regina’, ape ‘operaia’ e ‘fuco’, che si aiutano e si integrano a vicenda per la sopravvivenza della comunità, sebbene esplichino funzioni ben differenziate[42.
Il fenomeno della differenziazione in ‘regine’ o ‘operaie’ sarebbe da attribuire all’‘accensione’ o allo ‘spegnimento’ di particolari gruppi di segmenti di DNA durante lo sviluppo larvale nelle due ‘caste’ di api. In particolare, i risultati principali ottenuti da Evans e Wheeler (2000) hanno evidenziato che:
(a) fino al secondo stadio larvale i profili di espressione di questi segmenti sono simili nelle larve destinate a diventare ‘regine’ e in quelle destinate a diventare ‘operaie’; le uniche differenze si evidenziano a carico di quei segmenti codificanti enzimi coinvolti nella disattivazione degli ormoni steroidei, con valori di attività di espressione piú elevati nelle larve destinate a diventare ‘operaie’;
(b) a partire dal terzo stadio larvale le differenze di espressione dei segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ tra ‘regine’ e ‘operaie’ interessano un numero maggiore di segmenti con particolare riguardo a quelli coinvolti nell’accumulo di sostanze nutritive (aminoacidi) e nel metabolismo;
(c)durante l’ultimo stadio larvale la ‘regina’, in coincidenza con il maggiore tasso di accrescimento, presenta, rispetto alle ‘operaie’, livelli di espressione piú elevati per un gruppo di segmenti di DNA codificanti proteine cuticolari.
In generale, le larve destinate a diventare ‘regine’ sembrerebbero attivare un insieme di segmenti di DNA distinto, legato alla ‘casta’, mentre le api destinate a diventare ‘operaie’ continuerebbero a esprimere quei segmenti tipici della fase giovanile di larva. Tali differenze di espressione sarebbero dovute, tra l’altro, all’alimentazione (determinismo trofogenetico delle caste): le future operaie sono nutrite con la ‘pappa reale’ solo nei primi 2 giorni di vita, mentre la futura regina è sempre alimentata con tale ‘pappa’.
Impronta genitoriale. E’ stata rilevata la possibilità che alcuni ‘stati epigenetici’ possano essere ereditati anche meioticamente. L’‘imprinting genomico o parentale’, fenomeno non mendeliano caratterizzato da trasmissione ‘polare’ del carattere, è un esempio di metilazione ‘alternata’ che, pur passando attraverso il gamete, necessita di essere ristabilita a ogni generazione; nell’imprinting, alleli identici a un determinato locus sono espressi differentemente (resi funzionalmente diversi) a seconda che l’informazione contenuta nel DNA sia trasmessa dal gamete maschile o da quello femminile. Un esempio è dato dal carattere ‘Callipige’ che è una manifestazione evidenziata negli ovini da Cockett et al. (1994). Trattasi di un’altra trasmissione ereditaria che fa eccezione alle leggi mendeliane e che è stata chiamata ‘superdominanza polare’ in quanto solo i soggetti ‘eterozigoti’ che hanno ereditato l’allele ‘mutato’ dal padre presentano il ‘fenotipo caratteristico’[43]. Alcuni risultati nella progenie in funzione della diversità genetica e fenotipica dei genitori sono riportati in Matassino (2004b).
Secondo Bidwell et al. (2004), questo comportamento può essere considerato il risultato contemporaneo di ‘tre eventi biologici’ quali:
(a) mutazione in una regione del DNA non codificante polipeptide (‘intergenica’) appartenente a un cluster di segmenti di DNA localizzato all’estremità distale del cromosoma 18 e sottoposto a imprinting; tale mutazione consiste in una transizione AàG;
(b) imprinting parentale (polarità della mutazione): l’individuo nella condizione di ‘eterozigosi’ manifesta il fenotipo ‘callipige’ per aver ricevuto l’informazione responsabile dal ‘padre’; la condizione fenotipica ‘callipige’ potrebbe non manifestarsi indicando una condizione di deviazione dall’imprinting parentale; condizione che interesserebbe circa il 5% dei nati;
(c) superdominaza’: l’individuo nella condizione di ‘omozigosi’ non manifesta il fenotipo ‘callipige’ per l’esistenza di ‘RNA attivo’ (microRNA e snRNA) codificato da segmenti di DNA posti sul ‘cromosoma materno’ avente, probabilmente, funzione di ‘spegnimento’ dell’allele mutato trasmesso dal ‘padre’; pertanto, le forme di ‘RNA attivo’ o ‘regolativo’ conferirebbero all’informazione genetica una ‘dotazione’ aggiuntiva di ‘informazioni epigenetiche endogene’ trasmissibili e in grado di contribuire alla variabilità delle manifestazioni fenotipiche.
Cronogenetica e Cronobiologia. Il termine ‘cronogenetica’ è stato introdotto da Gedda e Brenci (1973) per indicare il ‘tempo ereditario originale’ in quanto trasmesso ereditariamente e soggetto alla variabilità genetica; quindi, trattasi di un tempo primitivamente ‘biologico’, ossia ‘endogeno’, scandito dall’organismo vivente come effetto del fenomeno vita. La ‘cronogenetica’, dunque, interessando grandezze temporali endogene, si esprime come ‘tempo-durata’ e va distinta dalla ‘cronobiologia’[44] la quale, invece, coinvolgendo relazioni fra ‘tempo fisico’ e ‘tempo biologico’, si esprime come ‘tempo reattivo’ .
L’importanza della ‘cronogenetica’ è legata fondamentalmente al comportamento ‘temporale’ sia qualitativo che quantitativo di ogni segmento di DNA codificante. Pertanto, tale ‘segmento’ possiede anche una ‘quarta dimensione’ che caratterizza la ‘durata’ della sua informazione; conseguentemente, nella variabilità della genetica formale, è da considerare anche quella ‘temporale’.
Le fluttuazioni ritmiche di origine esterna sono epifenomeni che il segmento di DNA ‘riceve’, ‘trasmette’ e ‘consuma’. Il tempo ‘esogeno’ è quindi un tempo ritmico di sollecitazione di fenomeni vitali sostenuti dal tempo ‘primitivamente biologico’. Questa sollecitazione riguarda soltanto i ‘meccanismi operativi’ del genoma. Il tempo ‘astrale’ influenzerebbe un segmento di DNA ‘operatore’; quest’ultimo attiverebbe un segmento di DNA codificante ‘polipeptide/i’ e lo manterrebbe in ‘funzione’ (‘acceso’) fino al momento in cui lo ‘stimolo temporale esogeno’ ritorna al di sotto della ‘soglia operativa’ del segmento di DNA ‘regolatore’.
Una dimostrazione di ‘cronogenetica’ ante litteram è stata offerta da C. Linneo nel 1735, quindi molto prima che G. Mendel scoprisse le leggi dell’ereditarietà (1865), ed è identificabile con l’’horologius florae’.
In conclusione, la ‘individualità biologica’ non può identificarsi solo con la ‘qualità’ e con la ‘quantità’ dell’informazione di un segmento di DNA codificante ‘polipeptide/i’ e ‘non’, ma deve tener conto anche della ‘sua temporalità’; temporalità che è funzione della cosiddetta ‘stabilità’ di un segmento di DNA definita ‘ergon’. Secondo Gedda e Brenci (1973), i principali fattori di stabilità andrebbero identificati con:
(a) ‘sinonimia’ o ‘stabilità molecolare’;
(b) ‘ridondanza’ o ‘stabilità da ripetizione dell’informazione’;
(c) ‘repair’ o ‘stabilità da riparazione del DNA’.
Il segmento di DNA va studiato e conosciuto nei suoi effetti informativi interessanti diversi momenti, fortemente connessi tra di loro, quindi a livello di qualità, di stabilità (‘ergon’) e di durata (‘chronon’).
Il rapporto ‘ergon-chronon’, fondamentalmente, rappresenta un sistema insostituibile per il funzionamento di qualsiasi entità biologica inserita in un determinato microambiente; questo microambiente ‘esterno’, oltre logicamente a quello ‘interno’, influenzerebbe la ‘dimensione temporale’ della ‘fisiologia’ e del ‘funzionamento’ di un segmento di DNA, tra cui la velocità di erogazione (output) della informazione.
Come esiste una filogenesi dei ‘caratteri’ ereditati, vi è una filogenesi del ‘chronon’.
Le suddette due variabili (‘ergon’ e ‘chronon’) sono interdipendenti nel senso che a una data stabilità di un segmento di DNA in un determinato microambiente corrisponde una ‘speranza di vita’ dell’informazione (‘chronon’). Questo complesso fenomeno biologico evidenzia ancor piú l’importanza dell’epigenetica, quindi dell’ ‘epigenoma’.
Nel corso dell’evoluzione, i vari segmenti di DNA hanno incorporato il tempo (o potranno incorporare un chronon), per cui a livello sia ‘individuale’ che ‘popolazionistico’ si verificano manifestazioni ripetitive molto vicine temporalmente entro una ‘famiglia’ (gruppo etnico legato da un certo grado di parentela) che possono essere definite, secondo Bettini (1977), ‘isocronismo familiare’; pertanto, l’‘unità ereditaria responsabile’ ha in sé una ‘misura temporale dell’informazione’ in termini sia di sua ‘attività’ che di sua ‘estinzione’.
Alcuni effetti di segmenti di DNA quali dominanza, recessività, intermedianza ed epistasi rappresentano modelli comportamentali dinamici influenzati anche dal tempo.
La cronogenetica si evidenzia ai diversi livelli di organizzazione di un sistema biotico: submolecolare, molecolare, cellulare, tissutale, organico, organismico, biocenotico, ecosistemico.
Il ‘ritmo’ o meglio il ‘bioritmo[45]’ è rilevabile nei processi ‘biochimici’, ‘enzimatici’, ‘fisiologici’, ‘elettrochimici’, ‘comportamentali’ (emotività, ecc.), ‘intellettuali’ di qualsiasi essere vivente.
La ritmicità dei fenomeni biologici è influenzata da fattori sia ‘interni’ (periodicità endogena) che ‘esterni’ (sincronizzatori[46]); pertanto, le variazioni ritmiche sono regolate e coordinate da ‘orologi biologici’ (rilascio ormonale, sonno-veglia, ecc.), ma, contemporaneamente, sono influenzate da fattori epigenetici. In altre parole, l’ ‘orologio biologico interno’ è in grado di prevedere i cambiamenti regolari del corso dei ‘sincronizzatori esterni’. Qualsiasi ‘bioritmo’ viene condizionato nel suo andamento da un ‘sincronizzatore primario’. Qualsiasi essere vivente è caratterizzato dal possedere particolari strutture che lo rendono in grado di percepire la variazione nel valore di un ‘sincronizzatore primario’ per poi procedere a conciliare il proprio ‘bioritmo’ con quello del microambiente in cui è inserito. L’eliminazione o una forte riduzione dell’effetto di un ‘sincronizzatore esterno’ comporta una profonda variazione nei bioritmi dell’organismo o della popolazione sino a giungere a un bioritmo a ‘corsa libera’ (free running).
Per quanto a oggi è dato di conoscere, i bioritmi degli animali posti a un gradino superiore della scala tassonomica sono sottoposti al controllo e al coordinamento di sistemi informativi molto peculiari, quali il sistema nervoso e quello endocrino: grazie a una serie di meccanismi recettivi dei messaggi ambientali e di quelli integrativi specifici dei sincronizzatori si realizzano condizioni di armonia ottimale fra la struttura temporale e le variazioni delle condizioni in cui tale struttura è inserita. In questo contesto, agli inizi degli anni ’80, R. Wever e J. Aschoff hanno proposto la teoria del ‘multioscillatore’, secondo la quale è possibile parlare di una vera e propria ‘organizzazione gerarchica’ degli oscillatori (‘pacemakers’), per cui gli ‘oscillatori primari’ condizionano ‘oscillatori secondari’ e questi quelli di ‘terzo ordine’ e cosí via di seguito; ciascun livello gode di una sua autonomia ‘decisionale’ ed è in grado di comunicare con i livelli gerarchici superiori e/o inferiori, instaurandosi cosí un sistema di meccanismi di retroazione o di ‘feed-back’ e quindi di vere e proprie ‘reti cibernetiche’. In altre parole, si tratta di un vero e proprio sistema di controllo ‘automatico’ e di trattamento dell’informazione con ritorno di segnale che permette a ciascuna unità di governo di individuare deformazioni comportamentali e di provvedere alla loro riduzione o eliminazione. Nell’organizzazione ‘gerarchica’ integrata i ‘ripristinatori di fase’ (‘phase resetters’) ‘encefalici’ (epifisi o ghiandola pineale e sistema ipotalamico-ipofisario) svolgono un ruolo fondamentale nello:
(a) interpretare i messaggi dei ‘sincronizzatori’ esterni;
(b) elaborarare la risposta;
(c) informare altre strutture organiche al fine di mantenere entro limiti fisiologici l’andamento di una variazione ritmica.
Pertanto, il bioritmo, considerato quale risultante armonica di ‘sottosistemi’ cooperativi e interagenti tra loro, ha un notevole significato in termini di ‘capacità al costruttivismo’ e di ‘autoregolazione’ o di ‘omeostasi’[47] di un sistema vivente al variare delle condizioni ambientali. Questa ‘omeostasi’, a seconda del grado di organizzazione sociale del gruppo tassonomico, investe la sfera ‘biologica’ e/o quella ‘psichica’.
Di esempi di cronogenetica e di cronobiologia vi è un’immensa ricchezza anche nel settore zootecnico. I vari ‘modelli di funzione biologica’, rappresentabili in chiave matematica, costituiscono esempi notevoli; si ricordano le diverse biopoiesi:‘accrescimento’, ‘ciclo riproduttivo’, ‘galattopoiesi’ individuale e/o di popolazione, ‘ovodeposizione’, ‘sviluppo’, ecc..
Un sistema complesso regolatore del ritmo temporale è quello ‘serotonina-melatonina’; il livello di melatonina ha un evidente ‘ritmo circadiano’ e si ritiene che il processo di trasformazione della ‘serotonina’ in ‘melatonina’ venga attivato dal buio; questo processo esercita una fondamentale influenza sul ritmo ‘sonno-veglia’ che, a sua volta, esplica un’azione positiva sul benessere degli animali. Per quanto è dato di sapere, la durata di un ciclo di sonno, comprensiva delle sequenze di sonno a ‘onde lente’ e di ‘sonno paradosso’[48], è negli animali inferiore ai 20 min mentre nell’uomo è pari a circa 90 min.
Tra le specie d’interesse zootecnico, quella equina è caratterizzata dalla piú elevata percentuale di veglia (80%), seguita da quella ovina (66,5%), bovina (52,3) e suina (46,3 %); in quest’ultima il sonno ‘paradosso’ ha la maggiore incidenza (7,3 %); il contrario si verifica nella specie ovina in cui il sonno ‘paradosso’ incide solo il 2,4 %. Il ritmo ‘sonno-veglia’ è influenzato da fattori ‘fisiologici’, ‘alimentari’, ‘climatici’; a esempio, nei ruminanti, un’alimentazione ricca in azoto minerale determina un incremento delle ore di sonno (Ruckebusch e Gaujoux, 1976).
Alla nascita le modificazioni del ritmo ‘sonno-veglia’ sono molto graduali e ciò a ragione dell’ambiente molto protettivo in cui il feto vive; a esempio, l’agnello neonato, se posto in un box assieme alla madre, rimane per 24 ÷ 48 ore indifferente all’alternanza del ritmo ‘giorno-notte’ con piccoli incrementi del tempo di veglia e soltanto a partire dal 4. giorno successivo alla nascita manifesta percentuali di tempo di veglia piú alte durante il giorno (rispetto alla notte).
Un aspetto di particolare importanza legato al ritmo ‘sonno-veglia’ è quello della crescita corporea che viene stimolata dalla liberazione dell’ormone della crescita che si verifica durante il ‘sonno paradosso’; a esempio, un suinetto sarà in grado di raddoppiare il proprio peso corporeo entro qualche giorno quando potrà dormire per almeno il 70% della giornata (Ruckebusch, 1983).
Nelle condizioni di latitudine della penisola italiana, è stato dimostrato che nelle vacche, su centinaia di migliaia di lattazioni, la produzione lattea giornaliera individuale media a livello di popolazione e in condizioni di ‘omeostasi demografica’[49] tende a variare nell’anno raggiungendo il valore massimo alla ‘fine dell’inverno- inizio primavera’ e quello minimo alla ‘fine dell’estate- inizio autunno’ secondo una funzione ‘armonica’; si è ipotizzato che tale ‘biopoiesi’ si comporterebbe secondo un ‘oscillatore biologico’ trainato da un ‘oscillatore fisico’, che è il ‘fotoperiodo’ (Bettini et al., 1968, 1969, 1970; Matassino et al., 1969, 1972, 1974).
Sempre ai livelli di latitudine italiana, in una grande popolazione ovina è stata ipotizzata da Matassino et al. (1975, 1982) l’importanza del fotoperiodo nel determinare un ‘ritmo circannuale’ per l’attività di alcuni enzimi legati a:
(a) metabolismo proteico ed eliminazione dell’azoto amminico [glutammico-ossalacetico transaminasi (GOT) o aspartato–aminotransferasi (AST), glutammato-piruvato transaminasi (GPT) o alanina-aminotransferasi (ALT)];
(b) produzione di composti ad alto contenuto energetico (creatinfosfochinasi, CPK);
(c) catabolismo di molti composti fosfatici (fosfatasi alcalina, ALP);
(d) glicolisi [lattico deidrogenasi (LDH) e suoi isoenzimi (LDH1, LDH2, LDH3, LDH4, LDH5)].
L’andamento circannuale di questi enzimi e isoenzimi non risulta significativamente influenzato dallo ‘stato fisiologico’ della pecora: ‘gravida all’estro indotto’, ‘gravida all’estro fisiologico’, ‘non gravida’; inoltre, l’andamento ritmico ha messo in evidenza come i soggetti aventi attività piú elevata per un determinato enzima tendono significativamente ad averla per tutti gli altri enzimi indagati; ciò non è privo di notevole importanza nella stima della ‘capacità al costruttivismo’ del ‘singolo’. Sempre sui soggetti dello stesso allevamento, è stato studiato anche il profilo ematico [quadro sieroproteico (proteina totale, % di albumine, % di gamma globuline); sideremia; emogramma (eritrociti, leucociti, emoglobina, ematocrito)] (Rubino (Rubino et al., 1975; Matassino et al., 1982); anche in questo caso si rileva un andamento ‘circannuale’ indipendente dallo ‘status’ fisiologico della pecora; andamento che sarebbe funzione dell‘oscillatore fisico’: ‘fotoperiodo’.
Probabilmente, il problema piú complesso da risolvere nella cronobiologia e nella cronogenetica sarà quello della individuazione della normalità dei valori degli ‘indicatori biologici’ che permettono di definire il ‘modello ordinario’ di un bioritmo. L’uso del ‘cronodesmo’[50] per ciascun indicatore biologico a variazione ritmica potrebbe fornire elementi semantici quali-quantitativi al fine di permettere di discernere uno stato ‘normale’ da uno ‘non normale’.
A conclusione dell’importanza della ‘epigenetica’, si può dire che la comprensione dei ‘meccanismi molecolari’ che regolano l’espressione del DNA al variare del microambiente in cui questo DNA opera, al pari di altri importanti fenomeni genetici (dominanza, epistasi, pleiotropia), presenta ancora molti lati oscuri.
Per indagare questi meccanismi si rende sempre piú non dilazionabile una ‘integrazione’ tra la ‘genetica formale’ e la ‘genetica molecolare’, specialmente per una migliore conoscenza della ‘plasticità fenotipica’ e di una sua utilizzazione nel trasferimento operativo.
Un approccio ‘omico’ potrà contribuire alla comprensione degli innumerevoli meccanismi utilizzati dal ‘genotipo’ per ‘costruire’ il ‘fenotipo’.
4. Genomica
La genomica si occupa dell’identificazione, quindi della caratterizzazione del genoma: insieme delle informazioni e delle loro interazioni di ‘natura genetica’ presenti in un individuo. Alla luce del ruolo che le differenti condizioni epigenetiche esplicano nella modulazione del genoma, oggi si tende, sempre piú, a dare importanza anche al concetto di ‘epigenoma’.
Il termine ‘genoma’ fu coniato nel 1920 da H. Wincler nella versione tedesca ‘genom’, quale combinazione dei termini ‘GENe’ e ‘chromosOME’, inteso come ‘insieme quantitativo dei cromosomi’ . Oggi, per genoma si intende l’ ‘intero corredo di DNA’ di un individuo.
Una definizione ‘in senso lato’ di genoma umano è quella contenuta nella ‘Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti umani’, adottata nel 1997 dalla Conferenza generale dell’UNESCO e, nel 1998, dall’assemblea generale dell’ONU; in tale documento, il genoma umano è inteso, simbolicamente, come “patrimonio comune o ricchezza ereditata dell’umanità”, quale memoria storica di tutti i segmenti di DNA codificanti che, discendendo per generazioni, sono giunti ai miliardi di individui che compongono la specie umana.
Questa definizione, a livello del singolo essere umano, dovrebbe recitare: “Il genoma di ogni individuo è il risultato anche di mutazioni avvenute nella storia evolutiva dei suoi antenati. Le potenzialità genetiche di ciascun individuo, determinate da segmenti di DNA, possono esprimersi in modo diverso a seconda dell’ambiente, dell’educazione e delle condizioni di vita” (Matassino, 2002).
Relativamente ai microrganismi è stato introdotto il termine ‘pan-genoma’ per indicare che il loro genoma presenta, oltre a un nucleo di segmenti comune ai diversi ceppi, anche un nucleo di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ differente a seconda del ceppo (cioè segmenti ‘ceppo-specifici’) (Tettelin et al., 2005). Un modello matematico ha previsto che nuovi segmenti di DNA continueranno a essere identificati, a esempio, per Streptococcus agalactiae, anche dopo aver sequenziato centinaia di ceppi dello stesso microrganismo; concetto, quest’ultimo, definito dagli stessi Autori ‘pan-genoma aperto’ per distinguerlo dal ‘pan-genoma chiuso’ caratteristico di quei microrganismi, quali a esempio il Bacillus anthracis, per i quali il sequenziamento di altri ceppi non apporterebbe altri nuovi segmenti di DNA. Queste scoperte evidenziano, ancora una volta, la grande variabilità di comportamento degli esseri viventi. I progressi tecnici degli anni ’80, anni a cui risalgono le prime iniziative per il sequenziamento di interi genomi su larga scala, hanno contribuito alla rapida crescita della genomica e, pertanto, si è indotti a far coincidere la data di nascita di questo campo di ricerca con quella del sequenziamento completo del primo genoma: virus batteriofago -X174 (F. Sanger, 1980).
La genomica, rappresentando una branca della cosiddetta scienza ‘omica’, nel suo significato di approccio ‘sistemico’, si differenzia dalla genetica classica che invece tende a studiare il ‘segmento di DNA codificante ‘polipeptide/i’ ‘singolarmente’ nonché a definirne le modalità di trasmissione da una generazione alla successiva.
Oggi, gli studi di genomica non sono piú limitati alla determinazione della sequenza del DNA, ma si estendono all’analisi:
(a) dell’espressione dei segmenti di DNA in RNA e in ‘polipeptide/i’;
(b) delle relazioni evolutive tra i genomi;
(c) delle funzioni dei segmenti del DNA.
Pertanto, la genomica può essere suddivisa in:
(a) strutturale, che permette di decifrare il messaggio del genoma, o meglio, di definire la:
(i) sua sequenza;
(ii) sua struttura;
(iii) localizzazione di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ o non sui cromosomi;
(b) comparativa, che permette di stabilire le relazioni evolutive tra segmenti di DNA sia all’interno del genoma di un determinato organismo [a esempio identificazione di famiglie di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ (o cosiddette ‘famiglie geniche’)], sia tra genomi di specie diverse;
(c) funzionale, che consente di definire la ‘funzione probabile’ di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’.
La genomica si avvale sempre piú dell’integrazione della bioinformatica e della biologia computazionale: discipline ambedue necessarie per un’interpretazione dei risultati in chiave ‘sistemica’.
Nella presente relazione maggiore attenzione sarà dedicata alla genomica ‘funzionale’, anche se si farà spesso riferimento a quella ‘strutturale’ e a quella ‘comparativa’; ambedue propedeutiche a quella ‘funzionale’ e integranti la stessa.
4.1. Genomica ‘strutturale’
Per una migliore comprensione della complessità della ‘genomica strutturale’, in senso lato, si ritiene opportuno dare maggiore enfasi alle recenti acquisizioni sul genoma umano. Questo genoma è quello meglio conosciuto e caratterizzato strutturalmente. Poiché il ‘funzionamento del DNA’ può essere considerato di tipo ‘universale’, specialmente per quanto riguarda gli eucarioti, i meccanismi di genomica ‘strutturale’ e ‘funzionale’ scoperti nell’uomo rappresentano un ‘modello estensibile’ quasi certamente agli animali in produzione zootecnica, con particolare riguardo a quelli che occupano un gradino piú elevato nella scala tassonomica.
Il sequenziamento del genoma umano, a oggi ancora incompleto[51], evidenzia la notevole complessità dello stesso (schema 1 e tabella 1). In particolare, lo schema 1 fornisce una breve descrizione di alcune caratteristiche strutturali dei costituenti il genoma umano, nonché alcuni cenni sulle caratteristiche funzionali degli stessi. I componenti, il cui ruolo è ritenuto rilevante nella regolazione dell’ espressione di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’, saranno oggetto di approfondimento nel capitolo di ‘Genomica funzionale’.
Le tabelle 2 e 3 evidenziano la rapidità con cui variano le conoscenze in merito ai dati genomici. Dall’esame della tabella 3 è possibile rilevare un minore progresso di conoscenza sul sequenziamento del genoma delle specie di interesse zootecnico rispetto all’uomo: per esempio, dei 23.231 segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ a oggi sequenziati nel bovino, ben 17.441 (76,37 %) sono ‘desunti’[52] e soltanto 5.790 (24,92 %) sono ‘noti’[53]; viceversa, nell’uomo dei 22.656 segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ , ben 21.372 (94,33 %) sono ‘noti’ e appena 1.878 (8,08 %) sono ‘desunti’.
Dal sequenziamento del genoma umano e dal continuo aggiornamento dei dati scaturiscono molti piú interrogativi di quelli a cui si pensava di poter trovare una risposta, tra i quali:
(a) dimensione del genoma in Mbp assolutamente indipendente dalla complessità di un organismo nel senso che la dimensione del genoma umano sequenziato, pari a circa 3.080 miliardi di coppie di basi (+ 4.000.000, pari a +0,12 % rispetto al dicembre 2005), è simile a quella di molti anfibi, rettili e crostacei; una relazione positiva tra dimensione del genoma e complessità somato-funzionale dell’organismo si osserva nei procarioti e ancor piú nel passaggio dai procarioti agli eucarioti unicellulari, quali il lievito (Saccharomyces cerevisiae);
(b) paradosso del numero e della densità [54] dei segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ nel senso che non esiste alcuna relazione fra complessità, numero e densità; pur essendo stimati 100.000 miliardi di cellule, l’uomo ha un numero di segmenti di DNA [22.656 (dicembre 2006) con una variazione percentuale pari a +2,93 rispetto al dicembre 2005] che si discosta di poco da quello riscontrato nel nematode Caenorhabditis Elegans [20.060 (dicembre 2006) con una variazione percentuale pari a +1,71 rispetto al dicembre 2005] costituito da solo 959 cellule (tabella 3);
(c) numero di pseudogeni (~19.000 nel genoma umano) non proporzionale né alle dimensioni del genoma, né al numero dei segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’;
(d) percentuale di DNA (esonico) codificante proteina pari a solo l’1,4 (schema 1); frazione di DNA ‘non codificante’ o ‘regolativo’[55], da ritenere un vero e proprio tesoro di informazioni e non DNA ‘spazzatura’ , DNA ‘non funzionale’, DNA ‘ignorante’, DNA ‘parassita’, DNA ‘inutile’ o genoma ‘invisibile’, pari a ben 98,6 % (schema 1); entro la frazione del DNA ‘regolativo’ è da sottolineare la presenza di:
(i) ‘introni’, il cui numero complessivo sarebbe proporzionale al grado di ‘complessità’ dei viventi: il genoma degli organismi che occupano gradini inferiori della scala tassonomica sarebbe caratterizzato da un numero di ‘introni’ inferiore a quello degli organismi piú complessi; a esempio, nell’anellide Platynereis dumerilii, senza dubbio meno complesso dell’uomo, Raible et al. (2005), solo limitatamente a 30 segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ omologhi rispetto all’uomo, hanno evidenziato un numero medio di ‘introni’ per segmento di DNA pari a circa 7,8; valore, quest’ultimo, non molto dissimile da quello riscontrato nella specie umana (circa 8,4); il Platynereis dumerilii, per il fatto di possedere ‘elementi ancestrali omologhi’ rispetto all’uomo pur appartenendo al phylum degli Anellidi, organismi già presenti poco prima del Cambriano[56], può essere considerato un ‘fossile vivente’[57];
(ii) elementi trasponibili, la cui percentuale è superiore nel genoma umano (39,1 %) rispetto a quella di altri organismi, quali: Drosophila melanogaster (3,1 %), Caenorhabditis elegans (6,5 %) e Arabidopsis Thaliana (10,5%) e la cui ‘densità’ nel genoma umano varia con la localizzazione cromosomica[58] . 4.2. Genomica ‘comparativa’
La genomica comparativa utilizza le informazioni note sul contenuto e sull’organizzazione dei genomi e della loro espressione, relative a specie differenti, per stabilire le eventuali relazioni filogenetiche tra gli organismi. Questa comparazione che può estendersi anche alla ‘proteomica’ si basa su due concetti fondamentali:
(a) omologia[59];
(b) analogia[60].
Il confronto fra i genomi, a oggi sequenziati, sta evidenziando che organismi differenti condividono per lo piú gli stessi segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’. A esempio, l’80% dei segmenti di DNA dell’uomo ha un corrispettivo nel topo in termini di omologia.
Una condizione degna di nota è rappresentata dal pesce palla (Takifugu Rubripes) che ha un genoma di 393.296.343 paia di basi (tabella 2) ma possiede ben 22.008 segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’, numero non dissimile da quello stimato per l’uomo (22.656) (tabella 3); pertanto, il genoma del pesce palla è caratterizzato dalla quasi assenza di sequenze non codificanti ‘polipeptide/i’. Una peculiarità del ‘genoma del pesce palla’ è la grande ‘omologia’ (circa 85%) con il ‘genoma umano’ relativamente alla frazione codificante ‘polipeptide/i’ pur essendo ‘uomo’ e ‘pesce palla’ due organismi la cui divergenza evolutiva risalirebbe a circa 400 milioni di anni fa. Questa conservazione interspecie coinvolge anche l’Ascidia, Cordato invertebrato, che condivide circa metà del suo patrimonio di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ con i vertebrati.
I genomi dell’uomo e dello scimpanzé (Pan Troglodytes) sono ancora piú conservati. La comparazione del genoma umano con quello di scimpanzé (The Chimpancee Sequencing and Analysis Consortium, 2005) ha evidenziato che le due specie condividerebbero circa il 96 % del genoma; le differenze tra il genoma umano e quello di scimpanzè pari a circa il 4 % sarebbero cosí ripartite:
(a) differenze dovute a mutazioni puntiformi (1,2%);
(b) differenze dovute a inserzione, delezione, duplicazione di interi segmenti di DNA (2,8 %).
Anche gli pseudogeni (schema 1) possono far luce sulla storia evolutiva delle forme di vita oggi piú comuni.
Si ritiene che lo pseudogene non sia sottoposto a selezione naturale; esso possiede una maggiore tendenza ad accumulare mutazioni rispetto al segmento di DNA ‘funzionale’; pertanto, esso può essere considerato una specie di ‘orologio molecolare’: dal confronto del numero degli pseudogeni tra due specie, è possibile ottenere informazioni sulle dinamiche evolutive.
Gilad et al. (2003, 2004), hanno evidenziato che il numero di pseudogeni per i recettori olfattivi diminuisce procedendo dall’uomo allo scimpanzé e da quest’ultimo al topo e al cane. Da analisi comparative, Webb et al. (2004) hanno messo in luce che il segmento di DNA TRP2 (tRNA proline 2), indispensabile per il funzionamento dell’organo vomero-nasale (organo sensibile ai ferormoni), era ancora attivo nell’antenato comune delle scimmie del Vecchio e del Nuovo mondo, mentre era già uno pseudogene prima della separazione tra le scimmie Catarrine e gli ominidi. Ciò dimostra che la maggiore disattivazione dei segmenti di DNA codificanti i recettori olfattivi si sarebbe verificata nelle scimmie del Nuovo mondo (Platirrine), nelle scimmie antropomorfe del Vecchio mondo (Catarrine) e nella scimmia urlatrice (Alouatta), le quali, però, hanno sviluppato una visione dei colori di tipo tricromatico a scapito dell’olfatto.
La notevole divergenza in termini di omologia nella sequenza degli pseudogeni tra uomo e topo evidenzia la distanza evolutiva tra le due specie (circa 75 milioni di anni fa); tale distanza non risulta altrettanto evidente dal confronto tra le due specie per i segmenti di DNA ‘veri’ (‘geni veri’), la cui omologia, invece, è elevata. A esempio, il segmento di DNA codificante un enzima che catalizza la sintesi della vitamina C è attivo nel topo, mentre è diventato ‘non funzionale’ (‘pseudogene’) nell’uomo e nei Primati; pertanto, sia l’uomo che i Primati debbono assumere la vitamina C con l’alimentazione.
La genomica comparativa può contribuire alla comprensione della evoluzione di importanti funzioni biologiche, quali a esempio il linguaggio nell’uomo. Enard et al. (2002) hanno ipotizzato che il segmento di DNA FOXP2[61] avrebbe giocato un ruolo importante nello sviluppo del linguaggio. Questo segmento è presente nell’uomo, nel topo e nello scimpanzé, ma nell’uomo presenta due mutazioni[62] che conferirebbero alla proteina un’attività differente da quella presente negli altri due organismi; differenza di attività che nell’uomo si concretizza in elevati livelli di espressione che, temporalmente, coinciderebbero con lo sviluppo dei ‘centri del linguaggio’; infatti, questa espressione determinerebbe l’attivazione di segmenti di DNA bersaglio coinvolti nella sintesi di neurotrasmettitori importanti per la formazione dei ‘centri del linguaggio’. Al contrario, nello scimpanzé, al momento dello sviluppo dei ‘centri del linguaggio’, il suddetto ‘segmento’ di DNA potrebbe non essere espresso a livelli ottimali nelle regioni appropriate del cervello oppure, anche se espresso a livelli ottimali, potrebbe comportarsi da attivatore piú ‘debole’ di quei ‘segmenti’ di DNA coinvolti nella sintesi dei neurotrasmettitori per effetto delle due mutazioni, determinando una forma piú primitiva di linguaggio.
Gilad et al. (2006), impiegando un approccio ‘DNA microarray – multispecie’ [Homo sapiens sapiens (uomo), Pan Troglodytes (scimpanzé), Macacus mulatta (macaco), Pongo pygmaeus (orango)], hanno evidenziato che, limitatamente al tessuto epatico, la maggior parte dei segmenti di DNA che presenta differenti livelli di espressione tra ‘uomo’ e ‘scimpanzé’ è identificabile con quelli codificanti i ‘fattori di trascrizione’; questo diverso comportamento rafforzerebbe l’ipotesi che la maggior parte delle differenze tra le specie risiede nei meccanismi di regolazione dell’espressione di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’; meccanismi che raggiungerebbero l’iceberg nell’uomo per la maggiore complessità della struttura stessa della molecola del DNA, ove, apparentemente, vi sarebbe piú ‘ridondanza’ .
La genomica comparativa sta altresí evidenziando che molti dei segmenti di DNA dei vertebrati deriverebbero dalla ‘duplicazione’ di ‘segmenti’ già presenti in organismi ancestrali.
I meccanismi con cui la duplicazione può generare nuovi segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ sono due:
(a) comparsa di mutazioni a livello delle regioni codificanti di copie multiple; tale meccanismo non produce segmenti di DNA con funzioni completamente ‘nuove’, ma genera segmenti di DNA codificanti ‘proteine piú o meno simili’ ma con ‘attività diversa’;
(b) acquisizione di nuove sequenze ‘regolatrici’ che consentono alle diverse copie di un segmento di DNA di essere espresse ‘differenzialmente’; a esempio, nella Drosophila melanogaster l’unico segmento FGF[63] presente si esprime negli organi respiratori mentre i 22 segmenti FGF presenti nei vertebrati si esprimono in un ampio spettro di distretti cellulari, compresi gli stessi arti.
Pertanto, gli ‘eventi di duplicazione’ di segmenti di DNA offrono la possibilità di espandere il ‘repertorio’ dei profili di espressione, quindi delle relative funzioni proteiche.
La duplicazione dei segmenti di DNA codificanti le globine può rappresentare un esempio del duplice effetto della origine di nuovi schemi di espressione e di attività proteica diversa. Infatti, nella specie umana, i 4 segmenti di DNA codificanti, rispettivamente, le globine , e ε, derivano da eventi di duplicazione di un segmento di DNA ancestrale ; le 4 globine hanno diversa affinità di legame per l’ossigeno, nel senso che le  e le ε globine legano l’ossigeno con maggiore affinità rispetto a quelle  e ; conseguentemente, le ‘prime’ sono utilizzate prevalentemente dal ‘feto’ e le ‘seconde’ dal ‘neonato’ e dall’ ‘adulto’ (Griffiths et al., 2000).
L’elevato grado di omologia esistente tra i genomi lascerebbe supporre che ‘manifestazioni fenotipiche’ anche molto complesse, proprie degli organismi che occupano un gradino elevato nella scala evolutiva, dipenderebbero non tanto dalla comparsa di ‘nuovi’ segmenti di DNA, cioè di segmenti differenti per sequenza nucleotidica, ma, probabilmente, dalla diversità nelle funzioni che gli ‘stessi segmenti’ esplicano soprattutto nella dimensione ‘spazio-tempo’ entro la specie.
In ultima analisi, la genomica comparativa sta evidenziando che le ‘variazioni evolutive’ vanno considerate, essenzialmente, come un problema di ‘regolazione’ dell’espressione di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’; in tale contesto, oggetto di studio della genomica comparativa dovrà essere sempre piú l’identificazione delle variazioni dei profili di espressione dei segmenti di DNA omologhi nei diversi organismi, quale possibile percorso per la comprensione dei complessi meccanismi presumibilmente responsabili della diversità fenotipica esistente tra gli organismi. 4.3. Genomica ‘funzionale’
La conoscenza della struttura di un segmento di DNA e della sua localizzazione cromosomica rimane un aspetto fondamentale ma non esclusivo; il passo successivo è quello di conoscerne la funzione fortemente influenzata dalle molteplici interazioni. Queste interazioni fanno sí che il ‘repertorio’ di segmenti di DNA ‘attivi dal punto di vista trascrizionale’ in un dato tipo di cellula e in un dato momento del ciclo cellulare sia ‘limitato’ e ‘specifico’. Ne deriva che un ‘segmento di DNA’ può essere presente ma non necessariamente essere funzionalmente ‘attivo’, cioè essere ‘trascritto’ (pre-mRNA e RNAm) e un ‘trascritto’, a sua volta, può essere presente ma non necessariamente essere ‘tradotto’ in proteina. L’espressione di un segmento di DNA è finemente regolata affinché un organismo vivente possa rispondere ai cambiamenti ambientali impiegando un numero limitato di risorse nella sintesi di prodotti.
I meccanismi di regolazione dell’espressione di un segmento di DNA codificante ‘polipeptide/i’ sono attivi e sorprendenti già negli organismi inferiori sebbene nella cellula procariotica essi siano piú semplici per l’assenza di nucleo e quindi di separazione fra cromosoma e citoplasma.
Steunou et al. (2006), monitorando l’espressione di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ in un arco di tempo di 24 ore, hanno evidenziato che i sinecococchi[64] effettuano una separazione temporale dell’attività di espressione del DNA: i segmenti di DNA coinvolti nella sintesi degli enzimi necessari per la fotosintesi e per la respirazione sono ‘accesi’ di giorno e ‘spenti’ al tramonto, mentre quelli coinvolti nella sintesi dell’enzima nitrogenasi (responsabile della fissazione dell’azoto) e degli enzimi che intervengono nella fermentazione presentano un comportamento opposto. Questo sistema di regolazione consente ai sinecococchi di vivere una ‘doppia vita’: di giorno si comportano come ‘batteri fotosintetici’ e di notte come batteri ‘azoto-fissatori’.
Rispetto ai procarioti, la complessità della regolazione è superiore negli ‘eucarioti’ per la separazione fra ‘sito di trascrizione’ (a livello del nucleo) e ‘sito di traduzione’ (a livello del citoplasma) e per l’organizzazione dei segmenti di DNA che, non essendo strutturati in operoni, vengono raramente trascritti insieme in un’unica molecola di RNA messaggero; ciò evidenzia quanto sia grande la complessità, anche esaminando il solo momento della trascrizione senza considerare ‘ciò che precede’ e ‘ciò che segue’.
Negli eucarioti, i meccanismi di regolazione dell’espressione del segmento di DNA codificante ‘polipeptide/i’ sembrano presentare una ‘notevole specificità’ legata anche al ‘tipo genetico’. A esempio, in cellule mononucleate di sangue periferico di bovini Brown Swiss e Holstein sottoposte a stress termico cronico simulante condizioni di ipertermia, Lacetera et al. (2006) hanno rilevato i livelli di mRNA della proteina Hsp72[65] e hanno evidenziato che la risposta varia nei due tipi genetici esaminati. Infatti, l’incremento della temperatura determina un’aumentata attività trascrizionale soltanto nelle cellule isolate dal tipo genetico Brown; in particolare, il suddetto incremento è significativo a 41 °C (+ 53,2%, P<0,05) e a 43 °C (+80,4%, P<0,05) rispetto alla temperatura di 39 °C. La differenza di risposta rilevata tra i due tipi genetici indagati sarebbe soltanto di natura ‘molecolare’; pertanto, resta da approfondire il significato biologico in termini di capacità di reagire allo stress e di prestazione produttiva e riproduttiva. 4.3.1. Regolazione ‘pre-trascrizionale’
L’espressione comincia a essere regolata a monte della trascrizione attraverso meccanismi che stabiliscono quali sequenze siano disponibili per la trascrizione, quindi siano espresse, influenzando tra l’altro anche la velocità a cui queste sequenze vengono trascritte. Tali meccanismi si estrinsecano, essenzialmente, in:
(a) modificazioni influenzanti la struttura della cromatina[66]: l’‘architettura ‘DNA - istoni’ di per sé reprime l’espressione dei segmenti di DNA non consentendo ai fattori di trascrizione, agli attivatori e alla RNA polimerasi di esplicare il proprio ruolo; dunque, il DNA deve svolgersi dalle proteine istoniche prima che la trascrizione possa aver luogo;
(b) costituzione di complessi di attivazione e/o di repressione da parte di proteine regolatrici (repressori o attivatori)[67];
(c) ‘riarrangiamenti’ di segmenti di DNA (duplicazioni, inserzioni, delezioni, ecc.) che, nel loro complesso, modificando le ‘reti regolative’ del genoma, determinano grandi variazioni dell’espressione dei segmenti di DNA.
Modificazioni influenzanti la struttura della cromatina. Cambiamenti nella struttura della cromatina sono rappresentati principalmente da ‘condensazioni’ e da ‘decondensazioni’ dell’eucromatina.
I meccanismi influenzanti gli stati di ‘condensazione’ e di ‘decondensazione’ della cromatina sono principalmente imputabili a:
(a) acetilazione degli istoni[68] : ripristino dell’attività trascrizionale (‘accensione’);
(b) deacetilazione degli istoni[69]: inibizione dell’attività trascrizionale (‘spegnimento’);
(c) metilazione del DNA[70]: inibizione dell’attività trascrizionale (‘spegnimento’);
(d) demetilazione del DNA[71]: ripristino dell’attività trascrizionale (‘accensione’).
La condensazione dell’ ‘eucromatina’ in ‘eterocromatina’ è un ‘efficace’ meccanismo di repressione dell’espressione di segmenti di DNA negli eucarioti ed è bene esemplificata dal processo di ‘disattivazione del cromosoma X’. Considerando un mammifero, l’inattivazione del cromosoma X è regolata dalla ‘compensazione del dosaggio’[72]; l’inattivazione di uno dei due cromosomi X è casuale: probabilità pari al 50 % per il cromosoma di origine materna o di origine paterna; tuttavia, in un tessuto vi potrà essere la prevalenza di attivazione del cromosoma di origine paterna oppure di quello di origine materna. Questa diversità inizia già dalle cellule embrionali (stadio di circa 20 cellule nell’uomo) per poi proseguire con le successive replicazioni cellulari. Qualche effetto di questo meccanismo comportamentale è il seguente: la femmina ‘eterozigote’ per i loci siti sul cromosoma X presenta il cosiddetto ‘fenotipo a mosaico’, nel senso che alcune cellule esprimono solo un allele e altre l’altro allele come nel caso del ‘mosaicismo’ a carico del colore del mantello nel topo; fenomeno che nel 1961 ha indotto Lyon ad avanzare l’ipotesi della inattivazione di uno dei due cromosomi X presenti in una femmina mammifera. Altro esempio di ‘fenotipo a mosaico’ è il gatto ‘calico’[73] . Sempre nel mammifero, per effetto del meccanismo di non compensazione precisa del ‘dosaggio’, una malattia si può manifestare con un gradiente d’intensità: è il caso della femmina ‘eterozigote’ portatrice del segmento di DNA responsabile dell’emofilia che presenta concentrazioni molto variabili del fattore di coagulazione IX (dal 20 al 100% del normale). L’inattivazione di uno dei due cromosomi C nella ‘femmina mammifera’ è controllata dal segmento di DNA Xist[74], il cui prodotto di espressione è responsabile della ‘condensazione’ della eucromatina in eterocromatina e quindi del ‘silenziamento’ trascrizionale.
In alcuni batteri, spesso, il ‘silenziamento’ mediato dalla ‘metilazione’ della citosina è una vera e propria forma di difesa del genoma dai batteriofagi .
Probabilmente, anche in Drosophila (organismo che non metila il suo DNA) le modificazioni a carico della struttura della cromatina giocano un ruolo molto importante nella regolazione dell’espressione di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’[75] (Orlando, 1998).
Costituzione di complessi di ‘attivazione’ e/o di ‘repressione’ da parte di proteine regolatrici. La regolazione dell’inizio della trascrizione coinvolge proteine che interagiscono con i segnali regolativi[76] del segmento di DNA da controllare mediante loro regioni specifiche o ‘domini’. Una proteina regolatrice è definita attiva ‘in trans’ (trans acting) mentre il sito bersaglio è definito attivo ‘in cis’ (cis acting); questo meccanismo conformazionale è denominato regolazione ‘cis -trans’. Questi fattori ‘regolatori’ possono indurre cambiamenti nella struttura della cromatina oppure possono interagire con il ‘macchinario trascrizionale’ e o ‘avviare’ o ‘reprimere’ o ‘modulare’ la trascrizione dei segmenti di DNA a cui sono legati (Ji e Wong, 2006).
Fattori di trascrizione differenti possono avere ‘motivi di legame’[77] tra loro diversi, ma possono anche legarsi in modo cooperativo a un ‘cis-elemento’ che contiene differenti ‘motivi di legame’ tra loro strettamente associati. Questo legame combinatorio consente ad alcune centinaia di fattori di trascrizione di controllare i pattern di espressione ‘spazio-temporale’ di migliaia di segmenti di DNA. Gli elementi di regolazione in cis costituiscono la ‘logica di controllo’ obbligato (hardwired) del genoma. A esempio, lo sviluppo embrionale può essere considerato il risultato del programma trascrizionale codificato anche dai ‘cis-elementi’ (Davidson, 2001).
Nel topo, Scheller et al. (2006) hanno evidenziato l’importanza dei meccanismi di signalling (trasduzione del segnale) nell’attivazione dei segmenti di DNA coinvolti nell’adesione cellulare rilevando che segnali provenienti dall’ambiente esterno e interno della cellula influenzano anche la regolazione cis–trans; quindi l’epigenetica svolge un ruolo importante anche nell’attività trascrizionale del DNA.
‘Riarrangiamenti’ di segmenti di DNA. La disponibilità del DNA può essere regolata sia controllando l’ ‘accessibilità’ di determinate regioni del DNA per la trascrizione sia variando il numero di copie di segmenti di DNA ‘accessibili’. Questa strategia di ‘amplificazione’ coinvolge cicli di :
(a) trasposizione di sequenze mobili (TSM) (TMS, Transposition of Movable Sequences) che genera segmenti duplicati localizzati casualmente su cromosomi non omologhi grazie allo spostamento di un segmento di DNA da un sito a un altro del genoma;
(b) scambio cromatidico ineguale (SCI) (UCO, Unequal Crossing Over) che contribuisce all’ottenimento di sequenze ripetute in tandem grazie all’appaiamento ‘errato’ tra segmenti di DNA omologhi per struttura (segmenti identici), ma non occupanti la stessa posizione su loci corrispondenti di cromosomi omologhi.
Fra l’altro, questi dinamici meccanismi rappresenterebbero ‘constraint’ genetici (vincoli) che favorirebbero la dispersione degli elementi di un segmento di DNA ‘vantaggioso’ e quindi contribuirebbero al processo di ‘evoluzione concertata’ noto anche come ‘deriva molecolare’.
Un ‘riarrangiamento’ di segmenti di DNA si ha anche, probabilmente, per il verificarsi spontaneo del fenomeno della traslocazione robertsoniana; quella 1;29 (rob 1;29) [78], a oggi, sembrerebbe la piú frequente nel bovino. E’ acclarato che l’incidenza della traslocazione rob 1;29 è maggiore nelle razze bovine con prevalente attitudine alla produzione della carne che in quelle con prevalente attitudine alla produzione del latte, e può raggiungere, come è stato evidenziato in alcuni tipi genetici da carne non italiani, valori che oscillano tra il 40% e il 70% (Ranger-Figueiredo e Iannuzzi, 1993). Indagini citogenetiche effettuate su alcuni tipi genetici bovini italiani (Succi et al., 1980; Matassino et al., 1985) hanno evidenziato una frequenza della stessa traslocazione allo stato cosiddetto ‘eterozigote’ mediamente pari al 20,5 % nella Romagnola, al 18,7% nella Marchigiana, al 18,1% nella Podolica, al 9,5 % nella Chianina, al 6,4% nella Modicana e al 3,6% nell’Ottonese.
La maggiore incidenza della rob 1;29 nelle razze con prevalente attitudine alla produzione della carne indurrebbe a supporre l’esistenza di un’influenza positiva di tale ‘riarrangiamento’ cromosomico su alcuni aspetti della produzione ‘carne’. Infatti, alcuni autori (Darré et al., 1972; Falaschini et al., 1990) hanno rilevato una correlazione positiva tra la traslocazione rob 1;29 e l’estrinsecazione di alcune caratteristiche produttive, quali a esempio l’ ‘incremento ponderale giornaliero medio’ e la ‘conformazione delle masse muscolari’. Matassino et al. (1996, 1997) hanno evidenziato che il soggetto traslocato Marchigiana presenta:
(a) sul totale dei tagli della carcassa un’ incidenza percentuale significativamente
(i) minore dei tagli ‘adiposi’;
(ii) maggiore dei tagli ‘carnosi’;
(iii) minore del tessuto ‘scheletrico’;
(b) migliori caratteristiche ‘reologiche’ per alcuni tagli;
(c) valori piú elevati per alcune ‘misure somatiche’;
(d) migliori caratteristiche ‘morfometriche’ della ‘fibra muscolare’.
La ‘duplicazione di segmenti di DNA’ rappresenterebbe uno dei meccanismi piú importanti per l’evoluzione delle cosiddette ‘famiglie geniche’, le quali possono essere considerate il risultato dinamico di un vero e proprio processo di ‘conversione democratica di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’’, con funzione principe di ‘rete di mutazione’. Questa conversione rappresenta un esempio naturale, piú che brillante, del processo biologico definito ‘opportunismo evolutivo’ o ‘capacità al costruttivismo’ (Matassino, 1989c, 1992b; Lewontin, 1993, 2004).
Il verificarsi di ‘errori di copiatura’ compromettenti la funzionalità del segmento di DNA può condurre sia a un aumento della variabilità genetica, ed eventualmente fenotipica, sia alla formazione di ‘pseudogeni’.
Pseudogene. Lo pseudogene, considerato finora una vera e propria sorta di ‘fossile molecolare’ in quanto inteso ‘relitto distrutto da una mutazione e abbandonato dall’evoluzione’, a oggi, sta evidenziando un’attività funzionale che, sinteticamente, si concretizza:
(a) nel controllare, tramite l’RNA ‘attivo’ da esso prodotto, l’espressione del ‘segmento di DNA codificante ‘polipeptide/i’ ‘vero’ di cui imita la sequenza; nel topo, è stato evidenziato che la disattivazione dello pseudogene ‘Markorin p1’ causa l’alterazione dell’attività del corrispondente segmento di DNA ‘vero’ ‘Markorin 1’, importante regolatore dello sviluppo, pur non essendo stato quest’ultimo oggetto dell’intervento diretto di disattivazione (Hirotsune et al., 2003);
(b) nell’attivare la riparazione (funzione di back up o recupero) del ‘segmento di DNA codificante ‘polipeptide/i’.
E’ stata ‘verificata’ la presenza di cosiddetti ‘pseudogeni risorti’, cioè di segmenti di DNA inattivi, che per mutazione hanno ripreso la loro attività di codificare ‘polipeptide/i’. Infatti, nei lieviti, gli pseudogeni relativi ad alcune proteine presenti sulla superficie della cellula si riattivano in presenza di stress ambientali (Pinarbasi et al., 1996). Anche nei Bovidi è emerso che il segmento di DNA codificante una ribonucleasi seminale sarebbe stato per gran parte della sua storia evolutiva uno ‘pseudogene’ che si sarebbe riattivato solo di recente (Trabesinger-Ruef et al., 1996).
La formazione di pseudogeni sembrerebbe essere positivamente correlata all’intensità di espressione di un segmento di DNA: i segmenti di DNA codificanti le proteine ribosomiali sono maggiormente espressi e hanno maggiore occasione di dare origine a pseudogeni ‘processati’, essendo coinvolti in funzioni di manutenzione della cellula (Gerstein e Zheng, 2006).
Trasposoni.
Il cambiamento nella contiguità dei segmenti di DNA era noto già nella ‘genetica classica’ come ‘effetto di posizione’. Grande merito è da attribuire al Nobel (1983) B. McClintock per le ricerche sul mais (1940) che hanno condotto alla scoperta di elementi mobili di DNA: i cosiddetti segmenti di DNA ‘saltatori‘ o ‘ballerini’ (‘jumping’ gene) o ‘trasposoni’.
Oggi, è noto che detti elementi trasponibili sono presenti sia negli organismi procarioti che in quelli eucarioti.
I trasposoni stanno evidenziando un ruolo sempre piú importante nella dinamicità e nell’evoluzione del genoma in quanto fungono da veri e propri ‘modulatori’ dell’espressione di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ per la presenza di promoter, di enhancer e di silenziatore. Essi possono condurre al sorgere di nuove e dinamiche reti ‘cibernetiche’ a livello molecolare e di nuovi ‘modelli di sviluppo’ a livello di ‘manifestazione fenotipica’. I TGA, presenti solo in determinate aree geografiche isolate, possono subire effetti che, intensificando la dinamica dei trasposoni, aumentano la propria ‘capacità al costruttivismo’. Il genoma dei TGA può costituire un materiale biologico di elevato valore anche ai fini della individuazione di modelli evolutivi per ‘equilibri intermittenti’ (punctuated equilibria o ‘evoluzione a salti’), grazie ai quali la storia degli organismi viventi sarebbe caratterizzata dall’ alternarsi di periodi di stasi evolutiva a periodi di diversificazione rapida (Matassino, 1989c; 1992b). La teoria degli ‘equilibri intermittenti’ può essere considerata già in embrione in quella dell’‘equilibrio slittante’ (shifting balance)[79].
I trasposoni possono provocare la ‘metilazione’ del DNA come strategia ‘per nascondersi’ all’ospite e, quindi, come strategia per aumentare la loro presenza essendo ‘trasmessi’ da una generazione cellulare alla successiva senza essere eliminati (Wolffe e Matzke, 1999).
Come osservato da Girard e Freeling (1999), l’inserzione dei trasposoni può alterare sia il livello di espressione di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ che il pattern spaziale di espressione di detti ‘segmenti’ con effetti regolatori sia qualitativi che quantitativi.
Damiani et al. (2002), studiando la distribuzione degli elementi trasponibili in alcune specie appartenenti all’ordine dei Bovidi, hanno evidenziato la maggiore concentrazione di detti elementi nella regione promotrice o negli introni o all’estremità 3’ non tradotta di quei segmenti di DNA attivamente espressi e influenzanti la:
(a) comunicazione intercellulare;
(b) differenziazione cellulare;
(c) risposta immunitaria;
(d) produzione quali-quantitativa lattea attraverso il controllo dell’entità di prolattina e di lattoproteine sintetizzate. 4.3.2. Regolazione ‘ post-trascrizionale’
La base molecolare della regolazione ‘post-trascrizionale’ è meno ben compresa di quella ‘pre-trascrizionale’. Si ritiene che tutto il processo di espressione (trascrizione, maturazione del pre-mRNA, esportazione dell’RNA maturo ai ribosomi) sia legato a un unico sistema di controllo con una stretta rete di interazioni a cui prendono parte diversi meccanismi. A esempio, nel metabolismo dell’mRNA (trascrizione e maturazione dei trascritti primari) non è ancora ben chiaro quale sia il ruolo svolto dalla struttura ‘a cappuccio’ inserita all’estremità 5’(capping[80]). Tuttavia, è accertato che la presenza del ‘cappuccio’ è indispensabile per l’attacco dei ribosomi sull’RNA messaggero prima dell’inizio della traduzione; infatti, la sua rimozione impedisce la traduzione dell’mRNA in proteina.
Alcuni meccanismi regolativi operano anche a livello della:
(a) maturazione dell’RNA messaggero e sua stabilità;
(b) traduzione dell’mRNA in proteina.
Maturazione dell’RNA messaggero e sua stabilità. Il processo di maturazione del pre-mRNA, con particolare riferimento allo ‘splicing alternativo’ e all’editing, rappresenta un sistema finemente regolato che contribuisce a rendere piú ‘versatile’ e piú ‘sofisticato’ il genoma degli eucarioti; questi organismi vengono denominati anche ‘soft-wired’ organisms (organismi scarsamente ‘vincolati’), contrariamente ai procarioti che vengono definiti ‘hard-wired’ organisms (organismi profondamente ‘vincolati’) in quanto il loro RNA, dopo la sintesi, non subisce particolari processi di maturazione (Herbert e Rich, 1999). Vi sarebbe, dunque, una forte relazione positiva fra ‘ la complessità’ di un organismo e ‘numero’ di ‘splicing alternativo’. La genesi di nuovi siti di ’splicing alternativo’, quale conseguenza del fenomeno di ‘esonizzazione dell’introne mediata dai retrotrasposoni Alu’[81], contribuirebbe ad arricchire la riserva di informazioni per la sintesi di ulteriori proteine specifiche. L’aumentata attività di ‘splicing alternativo’ associata alla piú elevata presenza di Alu nel genoma umano rispetto a quello di altri Primati potrebbe spiegare la diversità quali-quantitativa di proteine nell’encefalo dell’uomo; in questa diversità quali-quantitativa potrebbe risiedere una delle possibili spiegazioni di diversità cognitive importanti fra uomo e scimpanzè[82] (Matassino, 2005b; Matassino et al., 2006a).
Il controllo della stabilità dell’ mRNA è particolarmente importante negli eucarioti. In questi organismi, il periodo di dimezzamento dell’mRNA varia nell’ambito di due ordini di grandezza; i trascritti a ‘vita lunga’ possono essere tradotti molte volte mentre quelli a ’vita breve’ non possono essere tradotti piú di una volta prima di essere ‘degradati’. La velocità di degradazione degli mRNA trascritti è direttamente correlata con l’espressione di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’. Un esempio di regolazione dovuta alla stabilità dell’mRNA è riscontrabile nella famiglia di segmenti di DNA codificanti gli istoni.[83] La richiesta di istoni aumenta durante la duplicazione del DNA dal momento che nuovi nucleosomi devono essere assemblati; rispetto al livello basale, all’inizio di tale duplicazione, si rileva un incremento da 20 a 40 volte della concentrazione di mRNA codificante gli istoni; tale incremento è imputabile a un:
(a) potenziamento dell’ attività trascrizionale;
(b) allungamento (da 8 a circa 40 minuti) del periodo di dimezzamento dell’mRNA.
Traduzione dell’mRNA in proteina. La concentrazione di una proteina non è correlata in maniera semplice all’attività trascrizionale del corrispondente segmento di DNA che la codifica in quanto la sua ‘sintesi’ è ‘ulteriormente regolata’ a livello del ‘meccanismo’ di traduzione, fra l’altro, dai seguenti fattori:
(a) frequenza con cui si svolge la traduzione;
(b) velocità di allungamento della catena polipeptidica;
(c) efficienza con cui inizia e si conclude la traduzione;
(d) rendimento con cui si svolgono le modificazioni successive alla traduzione.
Il controllo a livello dell’’inizio della traduzione’ è un meccanismo che sembra essere per lo piú utilizzato nella sintesi di proteine che si assemblano in complessi multimerici o di proteine essenziali per la vitalità della cellula. Un esempio di controllo dell’inizio della traduzione dell’mRNA in polipeptide è stato rilevato da Huttelmaier et al. (2005), i quali hanno evidenziato un meccanismo attraverso il quale l’mRNA codificante la beta–actina non viene ‘tradotto’ se non in corrispondenza del sito in cui l’actina svolge la propria funzione di componente del citoscheletro; la proteina, cosiddetta ‘gendarme’ ZBP1[84], si lega a tale mRNA e ne impedisce la traduzione in actina per cui il ‘complesso gendarme-mRNA’ si accumula all’estremità delle protrusioni della cellula ove l’actina esplica la sua funzione; in questo sito cellulare la fosforilazione della ZBP1 a opera di uno specifico enzima chinasi sarebbe responsabile del distacco della proteina ZBP1 dall’mRNA il quale può essere tradotto in beta – actina.
Nei virus e nei procarioti la sintesi di alcune proteine ‘meno essenziali’ viene regolata controllando la ‘fine della traduzione’.
I suddetti fenomeni rendono non semplice la determinazione di una relazione diretta univoca (positiva o negativa) tra numero di molecole di mRNA e proteine codificate.
Concludendo, l’espressione è regolata a valle del processo trascrizionale mediante un controllo delle modalità con le quali RNA, proteine, relative isoforme e loro frammenti sono modificati, protetti e trasportati. In queste fasi si inserisce l’azione dell’ ‘RNA intronico’ che conferisce informazioni genetiche aggiuntive.

4.3.2.1. RNA ‘regolativo’
Lo schema 2 mostra la probabile attività trascrizionale di un segmento di DNA evidenziando che il flusso dell’informazione genetica non è rappresentabile soltanto dalla sequenza ‘DNAà RNAà‘polipeptide/i’, ma può concretizzarsi nella sequenza ‘DNAà RNA’, dando origine a molecole di RNA non codificanti ‘polipeptide/i’ a partire o da ‘introni’ o da ‘esoni’ appartenenti a segmenti di DNA codificanti non ‘polipeptide/i’; questo RNA è anche noto come RNA ‘attivo’ o ‘regolativo’. Quest’ultima denominazione scaturisce dalle notevoli potenzialità, in termini di regolazione, che stanno emergendo per gli ‘RNA attivi’, che possono essere reversibili e variabili per l’assenza di codici standard di ‘avvio’ o di ‘arresto’ del processo di traduzione. L’RNA a lungo è stato considerato un mero traduttore dell’informazione contenuta nel DNA, cioè un intermediario nella sintesi di proteine; invece, esso sta evidenziando notevoli potenzialità in termini di ‘prestazioni cellulari’.
Un esempio di RNA ‘regolativo’ è rappresentato dal microRNA (schema 1).
Si stima che i microRNA controllino l’espressione di oltre il 30% dei segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ sia nella specie umana che in altri organismi (Berezikov et al., 2005). E’ ormai evidente il coinvolgimento dei microRNA in svariati processi fisiologici quali: lo sviluppo di organi e tessuti, l’apoptosi, il mantenimento dello stato di pluripotenza delle cellule staminali (ES, stem embryonic cells), ecc..
Il contributo dei microRNA allo sviluppo dei tessuti è stato evidenziato sia per la miogenesi in Xenopus laevis (Chen et al., 2005) che per l’adipogenesi nella specie umana (Kajimoto et al, 2006); in quest’utima sono stati osservati cambiamenti nel profilo di espressione (‘iperespressione’ o ‘ipoespressione’) di 21 microRNA nella fase di conversione del ‘pre-adipocita’ in ‘adipocita maturo’.
I microRNA svolgerebbero anche il ruolo di assicurare la ‘pluripotenza’[85] delle cellule ES come hanno evidenziato Houbavy et al. (2003), Suh et al. (2004) e Ge et al. (2006) nell’uomo e nel topo. La salvaguardia di questa ‘manifestazione fenotipica’ da parte dei microRNA è massima nella cellula ES indifferenziata per ridursi in modo significativo con il procedere della perdita del carattere di pluripotenza e scomparire negli organi ‘adulti’. I segmenti di DNA codificanti questi microRNA ‘ES-specifici’ sono spesso organizzati in cluster e le molecole di microRNA vengono trascritte come un unico pre-mRNA ‘policistronico’[86].
L’elevato grado di omologia tra i microRNA umani e murini suggerirebbe che tali RNA siano coinvolti in reti regolative ‘chiave’ altamente conservate nei mammiferi nel senso che i microRNA, contribuendo a rendere le ‘cellule staminali’ ‘insensibili’ ai segnali ambientali i quali normalmente inibiscono il ciclo cellulare, consentirebbero alle cellule di continuare a proliferare. Questa funzione dei microRNA potrebbe avere importanti implicazioni in medicina soprattutto ai fini della possibilità di inibizione della divisione in cellule cancerose attraverso l’ induzione della perdita di funzione di microRNA ‘chiave’ per l’attività proliferativa di queste cellule (Hatfield et al., 2005).
Il microRNA può contribuire all’instaurarsi di nuove manifestazioni fenotipiche. A esempio, nel tipo genetico ovino Texel, il fenotipo ‘ipertrofico’ sarebbe dovuto a una mutazione puntiforme (sostituzione GàA) sul segmento di DNA codificante il fattore di crescita GDF8[87]; da un’analisi in ‘silico’[88] è risultato che il segmento di DNA mutato corrisponderebbe a un sito di legame per due microRNA (miR-1 e miR-206) responsabili del silenziamento post-trascrizionale del segmento stesso con la conseguente inibizione della sintesi del suddetto fattore di crescita (miostatina); inibizione responsabile dell’ ipersviluppo della muscolatura (Clop et al., 2006).
Gli RNA ‘regolativi’, specialmente quelli d’interferenza’[89] (schema 1), stanno trovando sempre maggiore applicazione come ‘silenziatori mirati’ di segmenti di DNA responsabili di malattia (Paddison et al., 2002a e b; Carmell et al., 2003; Siolas et al., 2005); applicazione che si concretizza grazie alla possibilità di ‘veicolare’[90] nella cellula bersaglio piccole molecole di RNA a doppio filamento in grado di ‘antagonizzare’ l’mRNA trascritto dal segmento di DNA che si intende silenziare. La tecnica del ‘silenziamento mirato’ di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ ha ricevuto un notevole impulso grazie all’utilizzo di brevi RNA a forcina, denominati shRNA (short hairpin RNA) per innescare il fenomeno dell’ ‘interferenza’ quando veicolate in una cellula.
La realizzazione di librerie ‘murine’ e ‘umane’ di shRNA ‘silenziatori’ è oggetto di particolare interesse anche per una loro futura utilizzazione (Berns et al., 2004; Paddison et al., 2004). A oggi i segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ che possono essere silenziati sono circa 10.000.
Ivanova et al. (2006) hanno contribuito, mediante il silenziamento dell’espressione di segmenti di DNA, alla comprensione nei meccanismi molecolari responsabili della capacità di autorinnovamento (self renewal) delle cellule ES nel topo. L’RNA breve a forcina è stato impiegato per ‘spegnere’ (‘silenziare’ o ‘knocking – down’[91]) 65 segmenti di DNA coinvolti, probabilmente, nella regolazione del processo di autorinnovamento delle cellule staminali. Il silenziamento di 7 dei suddetti segmenti di DNA interferisce negativamente sul processo di autorinnovamento (pluripotenza) suggerendo che i fattori di trascrizione da essi codificati giocano un ruolo importante.
Questa strategia di silenziamento presenta potenzialità notevoli anche nel settore zootecnico, specialmente ai fini terapeutici. A esempio, Golding et al. (2006), in associazione o con la ‘clonazione somatica’[92] o con la fertilizzazione ‘in vitro’, hanno ‘silenziato’ l’espressione del segmento di DNA codificante la proteina prionica ‘normale’ nella specie ‘caprina’ e in quella ‘bovina’. Il risultato di questa ricerca consiste in una riduzione considerevole della sintesi della proteina prionica ‘normale’; quindi trattasi di un percorso conducente a una prevenzione della ‘encefalopatia spongiforme bovina’ (BSE, bovine spongiform encephalopathy) anche se non trascurabile è il limite nei meccanismi biologici implicati nella ‘clonazione somatica’ (Matassino, 1998, 1999). Questa possibilità potrebbe rappresentare una valida alternativa al metodo del ‘Knock out’ 83.
I vantaggi del silenziamento da ‘knock-down’ consistono, fra l’altro, nella possibilità di ripristinare l’attività del segmento di DNA ‘silenziato’ se questo intervento dovesse essere ritenuto utile per gli scopi da raggiungere in una ‘biopoiesi’.
Gli shRNA si sono rivelati, altresí, utili per la soppressione di virus esogeni e di retrovirus endogeni in specie d’interesse zootecnico (Karlas et al., 2004; de los Santos et al., 2005).
Richt et al. (2006) hanno ottenuto bovini ‘knock out’ allo stato ‘omozigote’ per il segmento di DNA codificante la proteina prionica normale con il sistema del ‘bersagliamento sequenziale di segmenti di DNA’ (sequential gene-targeting system) messo a punto da Kuroiwa et al. (2004). Su un totale di 85 embrioni ‘Knock out’ impiantati sono nati 12 soggetti (efficienza del 14 %), attualmente di 20 mesi di età. Questi soggetti sono stati valutati ‘normali’ dal punto di vista clinico, fisiologico, istopatologico e immunitario. Per quanto attiene all’aspetto riproduttivo, sono stati ottenuti 20 embrioni a partire da spermatozoi isolati dai soggetti ‘Knock out’ e utilizzati per la fertilizzazione ‘in vitro’ con oociti di soggetti cosiddetti ‘selvatici’ (non sottoposti a ‘Knock out’); questi embrioni allo stadio di blastocisti sono stati trasferiti in 8 bovine attualmente al 40. giorno di gestazione. Si resta in attesa di verificare gli effetti del ‘Knock out’ sui soggetti che si svilupperanno da questi embrioni, nonché sulla prole che si otterrà da detti soggetti. Inoltre, le ricerche di Richt et al. (2006) hanno evidenziato che confrontando il tessuto nervoso di bovini ‘normali’ con quello di soggetti ‘Knock out’ si ha assenza di propagazione della proteina prionica patogenetica nei secondi.
Questa tappa è un primo passo per poter intervenire antropicamente nel ridurre patie in animali d’interesse zootecnico. 4.3.3. Trascrittoma La determinazione del ‘potenziale di espressione’ o trascrittoma (RNAoma), in un dato momento del ciclo cellulare, è una strada da perseguire per esplorare la ‘complessa funzione’ di un segmento di DNA ‘codificante’ .
La conoscenza delle differenze quantitative delle varie ‘specie’ di RNA permetterà di ottenere ‘informazioni’ per la stima della ‘variabilità fenotipica’ totale e delle sue ‘componenti’ ; queste informazioni sono utilizzabili nella selezione o nella introgressione assistita dal molecolare (MAS, molecular assisted selection ; MAI, molecular assisted introgression).
Come evidenziare l’espressione del repertorio di segmenti di DNA ‘codificanti’ in una cellula, in un tessuto o in un individuo? A oggi, sono disponibili diverse metodiche:
(a) visualizzazione differenziale o impronta digitale dell’RNA (RNA-fingerprinting) [93] (Liang e Pardee, 1992); (b) analisi seriale dell’espressione genica[94] (Velculescu et al., 1995);
(c)
(d)
(e)
(f)
(g)

(c) ‘micromatrice’ di segmenti di DNA ‘codificanti’ ‘(DNA microarray’)
(h) [95] (Schena et al., 1995).
(i)
(j)
(k)
(l)
(m)
(n)
(o) (d) ibridazione sottrattiva di soppressione[96] (Diatchenko et al., 1996).
i.
(e)
(f)
(g)
(h)
(i)
(j)
Attualmente, l’analisi ‘microarray’ rappresenta la strategia piú perseguita nella conoscenza del trascrittoma nonostante che l’approccio ‘microarray’ implichi la necessità della validazione dei dati[97]. Tale esigenza è legata alle innumerevoli fonti di variabilità insite nella stessa metodica:
(a) disegno sperimentale;
(b) campionamento ed estrazione dell’RNA;
(c) protocollo di ibridazione e di marcatura;
(d) impostazione strumentale, con particolare riferimento all’analisi dell’immagine;
(e) elaborazione e normalizzazione del dato;
(f) interpretazione del dato.
Queste fonti di variazione possono accentuare o minimizzare la effettiva variazione biologica alla quale si è interessati (Jenssen et al., 2002; Kothapalli et al., 2002; Wittwer et al., 2002).
L’importanza di questa metodica e della sua problematica ha suggerito la costituzione di una Società scientifica: MGED (Microarray Gene Expression Data Society)[98] che, attualmente, persegue 6 principali progetti di standardizzazione [99]. A oggi, la conferma dei risultati ottenuti con l’approccio microarray viene effettuata con il sistema di ‘reazione a catena della polimerasi in tempo reale’ (real time PCR), che permette di quantificare in modo relativo o assoluto le variazioni di espressione di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’.
L’analisi microarray consente di visualizzare rapidamente e simultaneamente migliaia di identita’ e/o di differenze di espressione individuando segmenti di DNA ‘accesi’ o ‘spenti’ e di valutare l’entità di espressione relativa mediante un confronto a due a due (a esempio: stesso tessuto di due individui differenti oppure due tessuti differenti dello stesso individuo): a oggi, è possibile indagare l’ espressione simultanea di circa 100.000 segmenti di DNA ‘codificanti’ . Nel settore zootecnico, grazie a questa possibilità, la metodica microarray rappresenta sempre piú la base di numerose ricerche finalizzate alla comprensione dei meccanismi di importanti e complessi processi fisiologici (a esempio: sviluppo del tessuto muscolare e metabolismo del tessuto adiposo) per i quali è richiesto un approccio di tipo ‘sistemico’; approccio ben lontano dalle metodiche tradizionali (Northern blotting, ibridazione in situ, saggi di protezione da RNAasi), le quali consentono di esaminare i cambiamenti di espressione soltanto di pochi segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’, esperimento per esperimento. Tra l’altro, l’ approccio microarray permette di rilevare ‘simultaneamente’ a ‘livello individuale’ il ‘polimorfismo genetico’. Infatti, la ‘tipizzazione simultanea’ di piú loci consente di
individuare aplotipi e/o segmenti codificanti che operano contemporaneamente; ‘aplotipo’ identificabile con un’unità di trasmissione da genitore a figlio (Bettini, 1970; Pagnacco et al., 1983; Matassino et al., 1993; Zullo et al., 1994).
In ambito internazionale, le applicazioni della metodica microarray al settore zootecnico sono documentate da una recente e vasta letteratura (tabella 4); in ambito nazionale, il progetto FIRB (Fondo Investimenti per la Ricerca di Base) intitolato: “identificazione e analisi dell’ espressione dei geni nel suino per lo studio e il miglioramento della produzione e della qualità della carne” (2002÷2006) può essere, invece, considerato ‘pionieristico’.
Alcune ricerche in ambito internazionale. Nel bovino Jersey, Band et al. (2003) hanno analizzato le differenze dei profili di espressione di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ in 17 differenti tessuti campionati da un vitello di una settimana di età identificando 29 segmenti di DNA con espressione di ben 50 volte inferiore rispetto allo standard di riferimento; l’analisi dei cluster ha rivelato gruppi di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ comuni ai tessuti: gastrico, immunitario, muscolare e nervoso.
Di particolare rilevanza per quanto attiene all’accrescimento del muscolo sono quei segmenti di DNA la cui attività trascrizionale varia in condizioni di atrofia o di ipertrofia muscolare (Carson et al., 2001; Jagoe et al., 2002; Wittwer et al., 2002). A tal proposito i dati a oggi disponibili evidenziano che i cambiamenti nella massa muscolare sono accompagnati da variazioni dell’espressione di segmenti di DNA coinvolti nel ‘turnover’ proteico, nel ‘metabolismo’ e nella ‘trasmissione neuromuscolare’.
Suino.
Seo e Beever (2001) hanno comparato i cambiamenti di espressione di ‘segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ in 7 tessuti coinvolti nella regolazione del metabolismo e dell’accrescimento prelevati a 28, 56, 90 e 165 giorni di età da soggetti con basso e alto incremento ponderale; essi hanno rilevato che i segmenti di DNA codificanti la gamma-actina, la troponina e la tropomiosina sono iperespressi nei muscoli dei lombi e del prosciutto nel gruppo di suini con elevato tasso di accrescimento ponderale a tutte e quattro le età prese in considerazione.
Ernst et al. (2002) hanno costituito una ‘libreria normalizzata’a cDNA[100] di muscolo scheletrico proveniente dall’arto posteriore di soggetti a: 45 e 90 giorni di sviluppo fetale, nascita e 7 settimane di età; essi hanno evidenziato che ben 55 cloni presentavano un’entità di espressione due volte piú elevata nel muscolo scheletrico fetale rispetto a quello proveniente da soggetti di 7 settimane di età; non è stato identificato alcun clone iperespresso nel muscolo proveniente dai suini di 7 settimane di età.
Bai et al. (2003) in uno studio dei profili di espressione nei muscoli Psoas Major (PM) e Longissimus Dorsi (LD) di soggetti di 3 giorni di età hanno identificato 70 ‘segmenti’ di DNA maggiormente espressi nel PM e 40 maggiormente espressi nell’LD; questi segmenti di DNA finora inclusi nei database interessano principalmente quelli:
(a) codificanti ‘polipeptide/i’ mitocondriali;
(b) coinvolti nella gluconeogenesi o nella glicolisi;
(c) partecipanti alla ‘trascrizione’, alla ‘traduzione’ e alla ‘trasduzione’ di segnale;
(d) codificanti le proteine sarcomeriche strutturali .
Alcune ricerche in ambito nazionale. Nel suino, il progetto FIRB, coinvolgente 6 unità operative[101], si prefigge essenzialmente la:
(a) analisi dell’espressione differenziale con metodi ‘richiedenti’ e ‘non’ l’identificazione preliminare di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ ;
(b) individuazione di polimorfismi, il mappaggio di segmenti di DNA e l’analisi di associazione.
L’espressione differenziale di ‘segmenti’ di DNA ha interessato il confronto dei profili trascrizionali di tessuti (adiposo e muscolare) e di organi (fegato) tra:
(a) tipi genetici differenti [Duroc (Du), Large White (LW), Casertana (CT), Landrace (LA), Pietrain (P)];
(b) gruppi di soggetti divergenti, entro il tipo genetico, per alcune caratteristiche qualitative della carne (potenziale glicolitico, calo di prima salagione del prosciutto da stagionare);
(c) gruppi di soggetti sottoposti a diversi livelli di stress;
(d) gruppi di soggetti macellati a età diverse.
L’applicazione della SAGE ha permesso di studiare l’evoluzione dell’espressione di segmenti di DNA durante la crescita in soggetti di tipo genetico diverso fornendo interessanti risultati; nei tipi genetici Du e LW, a 3 e a 9 mesi, è stata rilevata complessivamente la presenza di:
(a) 55.222 ‘etichette’ (EST, segnale di sequenza espressa)86 ‘totali’ ;
(b) 18.063 ‘etichette’ ‘uniche’ (32,7 %);
(c) 580 ‘etichette’ ‘comuni’ (1,05 %);
(d) 108 ‘etichette’ ‘differenzialmente espresse’ (0,2 %).
Nei tipi genetici indagati, a 3 mesi, è stato individuato un numero maggiore di segmenti di DNA sottoregolati (coinvolti prevalentemente nei processi metabolici e fisiologici cellulari) rispetto a quello dei segmenti di DNA sovraregolati; all’età di 9 mesi, il numero di ‘segmenti’ ‘sottoregolati’ tende a equilibrarsi a quello dei ‘segmenti’ ‘sovraregolati’. Considerando contemporaneamente i tipi genetici indagati, la distribuzione dei segmenti di DNA espressi a 3 mesi evidenzierebbe una maggiore ‘discriminazione’ rispetto a quelli espressi a 9 mesi di età ove vi sarebbe una minore differenza tra i tipi genetici; in particolare, per quanto concerne le proteine ‘strutturali’ (miotilina[102], miozenina 1[103], miomesina[104]) tali differenze di espressione sono particolarmente evidenti nel muscolo LD; in piú, la ID3[105] riveste una particolare importanza differenziale alle diverse età considerate; queste differenze di espressione sarebbero identificabili nel differente accrescimento muscolare rilevato fra i tre tipi genetici presi in esame: CT < DU < LW (Stefanon et al., 2006).
Questa differenza nel comportamento tra i suddetti tipi genetici potrebbe risiedere nel dover considerare l’importanza del ruolo che riveste l’ ‘epigenoma’ e non solo quella del ‘genoma’ (Matassino, c.p. 2006).
Dal confronto dell’espressione di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ tra tipi genetici ‘estremi’ (CT e LW) sono stati individuati sia segmenti di DNA differenzialmente espressi sia l’esistenza di una elevata variabilità individuale di espressione; la conoscenza della ‘fisiologia dell’espressione’ di tali segmenti è ancora limitata. Inoltre, lo studio delle differenze di espressione dei segmenti di DNA ‘leptina’, ‘recettore 4 della melanocortina’, ‘adinopectina, ‘recettori 1 e 2 dell’adinopectina’ e ‘catepsina F’ ha consentito di rilevare che il ‘sistema adinopectina’ è differenzialmente espresso nei tipi genetici CT e LW (Pilla, 2006).
Nello studio dei profili di espressione di tipi genetici estremi (CT e LW) anche il fegato si è dimostrato un ‘sistema modello’. Il confronto tra i ‘pool’ media le differenze individuali con una ripetibilità degli esperimenti ‘medio-alta’ (0,63) (Ajmone Marsan, 2006).
L’ analisi di espressione differenziale in ‘cosce’ di soggetti LA e LW con caratteristiche estreme per sette manifestazioni fenotipiche ha consentito di individuare 400 segmenti di DNA differenzialmente espressi dei quali solo per 28 non è stata trovata alcuna descrizione in banca dati (Iacuaniello et al., 2006).
Per l’analisi delle differenze dei ‘profili di espressione’ del tessuto muscolo-scheletrico di soggetti ‘estremi’ per alcuni parametri qualitativi (potenziale glicolitico[106] e calo di prima salagione del prosciutto da stagionare), le metodiche SSH, DD RT-PCR e DNA microarray hanno consentito di (Russo et al., 2006):
(a) individuare segmenti di DNA coinvolti in importanti vie metaboliche per ciascuno dei due pool estremi (‘alto’ e ‘basso potenziale glicolitico’); a esempio, i segmenti di DNA codificanti enzimi coinvolti nella fosforilazione ossidativa sono molto espressi nel pool tester a ‘basso potenziale glicolitico’;
(b) definire il numero di segmenti di DNA ‘sovraespressi’ nei due pool estremi: 176 e 74 nei pool ‘basso’ e ‘alto potenziale glicolitico’, rispettivamente;
(c) identificare 10 segmenti di DNA ‘candidati’ per il ‘calo di prima salagione’.
Dal confronto fra soggetti ‘sottoposti’ e quelli ‘non sottoposti’ a diversi livelli di stress, Russo et al. (2006), con l’approccio microarray hanno evidenziato la:
(a) esistenza di un numero elevato di segmenti di DNA espressi in modo differenziale tra soggetti ‘stressati’ e ‘non stressati’ con interessanti differenze tra i tipi genetici;
(b) influenza dell’allele ‘n’ [107] del segmento di DNA ‘alotano’ sul numero di segmenti differenzialmente espressi (DE) : 766 sono i segmenti di DNA DE nei portatori del genotipo ‘Nn’ del tipo genetico Pietrain vs 288 nei portatori ‘NN’ dello stesso tipo genetico.
Una probabile spiegazione del diverso comportamento del genotipo ‘Nn’ rispetto a quello ‘NN’ potrebbe essere individuata nel fatto che l’allele ‘n’ attiverebbe un elevato numero di segmenti di DNA differenzialmente espressi, e quindi, sembrerebbe fungere da ‘gene master’ capace di influenzare in modo determinante lo svolgersi delle attività di ‘cascate’ di segmenti di DNA (Matassino, c.p. 2006). Infatti, secondo Webb et al. (1982) il segmento di DNA per la sensibilità all’alotano non influisce solo sulla qualità della carne, ma anche su altre caratteristiche importanti dal punto di vista economico, quali le prestazioni riproduttive, il grado di sopravvivenza post-svezzamento e il contenuto in carne magra.
L’identificazione di SNP in ‘geni candidati’ ha interessato segmenti di DNA espressi nel tessuto adiposo, epatico e muscolare. Complessivamente, sono stati analizzati 110 segmenti di DNA e sono state individuate 148 mutazioni includenti: ‘sostituzione’, ‘inserzione’ e ‘delezione’ puntiformi’. La valutazione dell’‘associazione’ tra SNP e caratteristiche qualitative della carne ha interessato soltanto 11 segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ riguardanti il potenziale glicolitico e alcune proteine lisosomiali (a esempio catepsine) o loro inibitori (a esempio cistatine)[108]; il risultato evidenzia che l’approccio del ‘gene candidato’ contribuirebbe, in associazione con l’approccio della ‘genomica funzionale’, alla identificazione di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ ‘utili’ per un loro impiego ai fini del miglioramento genetico della ‘qualità’ (in senso lato) della carne (Fontanesi, 2006).
A conferma di quanto riferito in precedenza (‘gene candidato’), l’uso di procedure innovative (luminometria) può rappresentare uno strumento utile per l’ ‘analisi funzionale’ di SNP in ‘regioni regolative’ di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ correlati alla qualità della carne suina. Relativamente al segmento di DNA codificante il recettore delle lipoproteine a bassa densità (LDLR)[109] sono state individuate mutazioni puntiformi originanti un aplotipo costituito da 2 ‘loci’: ‘LDLR 1-31’ e ‘LDLR 55-59’[110]. Queste mutazioni influenzerebbero l’efficienza trascrizionale del segmento di DNA ‘LDLR’ (Valentini e Crisà, 2006).
Mutazioni puntiformi e qualità della carne e del latte. Il dinamismo di scoperta di mutazioni puntiformi[111] è foriero di nuove acquisizioni di brevi segmenti di DNA con funzione sia regolatrice che codificante ‘polipeptide/i’ influenzante/i le diverse modalità di espressione e, conseguentemente, la variabilità nelle manifestazioni fenotipiche. In questo contesto, particolare valore semantico assume l’evoluzione molecolare intraspecifica nel provocare anche una ‘deriva casuale’ di segmenti di DNA che possono assumere un comportamento di ‘neutralità’; questo comportamento può provocare una dicotomia fra il paradigma ‘neutralista’ (Kimura, 1967, 1968a e b) e il paradigma ‘panselezionista’ che è ben rappresentata dall’espressione di Mayr (1963) “è estremamente improbabile che un qualsiasi gene (n.d.r. segmento di DNA codificante ‘polipeptide/i’) rimanga neutrale di fronte alla selezione per un tempo illimitato”. Indubbiamente questa ipotesi di Mayr è basata sostanzialmente su osservazioni a livello fenotipico, cioè a livello della forma e della funzione.
Oggi, è possibile indagare in modo piú intimo sulla fisiologia dei vari segmenti di DNA, quindi sulla sua complessa struttura grazie alla biologia molecolare.
Uno dei supporti teorici della ‘neutralità dell’evoluzione molecolare’ è offerto dall’uso delle equazioni differenziali parziali chiamate ‘equazioni di diffusione’[112].
La evoluzione molecolare è particolarmente evidente nell’ ‘infinito’ dinamismo del ‘proteoma’ che altro non è che il risultato del dinamismo funzionale dei componenti il DNA a partire dalla sostituzione di almeno una base nucleotidica. Quasi certamente molti polimorfismi proteici non hanno dato, non danno e non daranno origine a vistosi effetti fenotipici visibili e rilevabili (stante le attuali metodiche di indagine), però essi contribuiscono a favorire nuovi equilibri nell’immenso e prodigioso laboratorio biochimico della singola cellula. Questa teoria della neutralità attribuisce indubbiamente ai segmenti di DNA codificanti ‘neutrali’ una loro funzione nel senso che essi sono in grado di favorire e di contribuire alla ‘fitness’ di un individuo vivente.
Probabilmente, le strategie impiegate dal DNA sono diverse a seconda se si considera l’evoluzione molecolare e quella fenotipica; in questo contesto si può presumere che i vincoli (constraint) siano anch’essi differenti nel considerare l’aspetto sia ‘teonomico’ che ‘teleonomico’ della sostanza vivente entro un determinato microambiente.
Secondo Kimura (1980), un principio base dell’evoluzione molecolare è: “quanto piú debole è il vincolo funzionale su una molecola o su una parte di essa, tanto piú alta è la velocità evolutiva della sostituzione di mutanti”. Non bisogna dimenticare che il codice genetico è un codice ‘degenerato’, nel senso che triplette diverse possono dare origine alla formazione di uno stesso aminoacido (tranne che per la metionina e per il triptofano).
Il polimorfismo può essere considerato una fase dell’evoluzione molecolare e la ‘selezione bilanciatrice’, basata sulla superiorità della selezione ‘eterotica’ o ‘vantaggio dell’eterozigote’, non può spiegare la complessità delle continue variazioni genetiche a livello popolazionistico.
Modelli matematici in grado di studiare quantitativamente, sulla base della genetica di popolazione, la ‘produzione’ di mutanti sono stati messi a punto da Crow (1974), ma i risultati da trasferire in campo operativo sono lungi da una loro utilizzazione zootecnica.
Dato che l’allevamento è un’attività economica, il miglioramento della sua efficienza in termini di ‘economia fisiologica’ dovrebbe prevedere l’individuazione di quei genotipi che, a parità di prestazione, hanno un indice di conversione alimentare favorevole (Matassino, 1978).
Numerosi sono i segmenti di DNA in cui SNP interessanti ‘regioni regolative’ e ‘non’ assumono un ruolo chiave.
Un esempio di mutazione puntiforme influenzante alcune caratteristiche qualitative della carne suina e riguardante ‘regioni regolative’ è quello a carico del segmento di DNA ‘FABP3’ codificante la proteina H-FABP[113]; finora, per tale segmento di DNA sono state identificate tre mutazioni puntiformi di cui una a carico della ‘regione 5’ non tradotta’ e due a carico del ‘secondo introne’; a oggi, queste tre mutazioni sono caratterizzate da diallelismo (Gerbens et al., 1997). Questa scoperta è stata successivamente confermata da Gerbens et al. (1998, 2000), da Russo et al. (2000), da Urban (2002) e da Matassino et al. (2007a) in tipi genetici suini diversi.
Liu et al. (2003) hanno evidenziato la presenza del segmento di DNA ‘FABP3’ con struttura simile a quella dei mammiferi (4 esoni e 3 introni) nel pesce zebra (Danio Rerio); tuttavia, questo segmento di DNA si esprimerebbe solo nel fegato e nell’ovario, ma non nel cuore, nel muscolo e nella ghiandola mammaria.
Nel ‘suino’ sono state identificate tre SNP nel segmento di DNA codificante la miostatina localizzate nella ‘regione promotrice’, nel primo introne e nel terzo esone di detto segmento (Jiang, 2002); tali SNP sono associate a un maggiore incremento ponderale giornaliero. Sempre relativamente alla ‘miostatina’, nel bovino, sono state individuate mutazioni puntiformi a carico sia della ‘regione codificante’ che di quella ‘promotrice’ associate al fenotipo caratteristico ‘doppia muscolatura’ o ‘doppia groppa’; in particolare, nel tipo genetico Marchigiana sono state identificate una trasversione GàT sul terzo esone in posizione nucleotidica 871 (Marchitelli et al., 2003) e due trasversioni (TàA e GàC) nella ‘regione promotrice’ (Crisà et al., 2003); la trasversione GàT si estrinseca nella genesi di un codone di ‘stop’ responsabile della sintesi di una miostatina mancante di 6 delle 9 cisteine normalmente presenti nel ‘dominio’ carbossiterminale e, pertanto, di una ‘miostatina non attiva’. La funzione della miostatina è quella di impedire la crescita all’infinito del muscolo scheletrico attraverso 2 meccanismi (McPherron e Lee, 1997):
(a) inibizione della proliferazione cellulare;
(b) inibizione della specializzazione delle cellule satelliti in fibra muscolare matura.
Venendo a mancare l’azione limitante della miostatina, si manifesta il fenotipo caratteristico ‘doppia muscolatura’ o ‘doppia groppa’ quale effetto di ‘iperplasia’ durante la fase fetale e di ‘ipertrofia’ nella fase post-natale (Kobolak e Gocza, 2002); l’ ‘ipertrofia’ sarebbe dovuta soprattutto all’incremento in dimensione della fibra muscolare a metabolismo glicolitico e a contrazione veloce (FG, fast glycolytic fibre). La miostatina, pur influenzando in modo specifico il tessuto muscolare, esplicherebbe la propria attività anche sul tessuto adiposo (McPherron e Lee, 1997), deprimendo la conversione dei pre-adipociti in adipociti (Kim et al., 2001).
Alcune SNP del segmento di DNA codificante l’ enzima Stearoil-CoA Desaturasi (SCD)[114] localizzate nella ‘regione 5’ non tradotta’ influenzerebbero le caratteristiche qualitative della carne suina (Zhang, 2001); a oggi, queste mutazioni puntiformi in ‘regioni introniche’ o ‘promotrici’ non interesserebbero il bovino (Keating, 2005) mentre, considerando la regione ‘esonica’ di questo segmento, Medrano et al. (2003) hanno individuato nel bovino 3 SNP, di cui 2 ‘silenti’ e una ‘missenso’; tale SNP ‘missenso’ sarebbe responsabile di un gradiente nell’attività enzimatica. Conte et al. (2006), nella Frisona italiana, hanno evidenziato che questa SNP ‘missenso’ conferisce al latte una maggiore presenza quantitativa di acidi grassi monoinsaturi, con particolare riferimento all’acido miristoleico (C14:1). Tale SNP ‘missenso’ influenza anche la composizione acidica del grasso intramuscolare della carne bovina comportando un incremento degli acidi grassi monoinsaturi (Taniguchi et al., 2004). Pertanto, una SNP svolge lo stesso ruolo in 2 biopoiesi diverse (produzione della carne e produzione del latte) con possibilità di una sua utilizzazione in determinati piani di miglioramento genetico.
Il segmento di DNA codificante la leptina[115] nel suino presenta SNP nelle regioni ‘introniche’ influenzanti le ‘caratteristiche qualitative della carne’ (Kennes et al., 2001), mentre nel bovino alcune SNP interessanti sia la regione ‘promotrice’ che quella del 2. ‘esone’ influenzano diverse ‘manifestazioni fenotipiche’: la ‘fertilità’, il ‘bilancio energetico’, la percentuale di tagli adiposi e quella dei tagli carnosi, nonché il ‘contenuto proteico del latte’ (Crews et al., 2004; Nkrumah, 2005; Schenkel et al., 2005; Liefers et al., 2005).
In accordo con Minelli (1990), non si può procedere soltanto accumulando continue conoscenze empiriche, ma è necessario formulare le basi concettuali che debbono avallare il perché, il come, il quando del verificarsi dei fenomeni, anche se complessi, e delle norme che li sottendono. 4.3.4. Prospettive della ‘genomica funzionale’ L’analisi del genoma in chiave sistemica sta rendendo possibile una conoscenza innovativa dei fenomeni biologici interessati, a esempio, alla ‘scienza nutrizionale’, alla tossicologia e alla ‘farmacologia’, nonché uno sviluppo di nuove branche, quali, a esempio, la nutrigenomica e la nutrigenetica, la tossicogenomica, la farmacogenomica e la farmacogenetica .
Nutrigenomica e nutrigenetica. Solo una visione ‘globale’ (cioè ‘sistemica’) della problematica del rapporto ‘nutrizione–oma’ facente perno su una innovata visione - molto sofisticata - di un inedito capitolo biologico rende possibile una conoscenza dinamica dei fenomeni interessati alla ‘scienza nutrizionale’ (Matassino et al., 2006d e e).
Ribadendo quanto già sostenuto (Matassino et al., 1991; Matassino, 1992a), alla luce dell’incremento demografico dell'uomo e della sua variazione per categoria, si rende sempre piú indispensabile e auspicabile una visione che tenga conto di una alimentazione, o meglio di una nutrizione differenziata per esigenze nutrizionali (‘meta nutrizionale’) in base allo status fisiologico dell’individuo (fasi dell’accrescimento e dello sviluppo, gravidanza, allattamento, senescenza, ecc.), al fine di realizzare una ‘personalizzazione’ della nutrizione in termini di ‘nutrigenetica’ e di ‘nutrigenomica’.
La ‘nutrigenetica’ va intesa come variabilità della risposta individuale a un nutriente sulla base del patrimonio genetico dell’individuo stesso.
La ‘nutrigenomica’ va intesa come tipizzazione del genoma individuale quale fattore capace di influenzare la modalità di utilizzazione di biomolecole ‘nutrizionali’, ‘extranutrizionali’ e ‘salutistiche’ presenti nell’alimento in un determinato microambiente.
La ‘nutrigenomica’ ha come scopo lo studio delle interazioni tra i costituenti di un ‘regime alimentare’ e l’espressione di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’; interazioni che possono risolversi in ‘effetti benefici’ oppure ‘avversi’ per la salute umana o animale. L’obiettivo è quello di identificare ‘biomarcatori’ in grado di predire gli effetti di componenti di un regime alimentare. Di particolare attualità è la identificazione di effetti preventivi e protettivi di ‘biomolecole’ con funzione ‘nutrizionale’, ‘extranutrizionale’ e ‘salutistica’ contenute negli alimenti; identificazione che riveste particolare importanza nell’applicazione del Regolamento ‘Health and Nutrition Claims’[116].
Nel settore zootecnico, l’importanza della relazione tra genetica e nutrizione è stata intuita da T.M. Bettini, il quale già nel 1976 aveva formulato il concetto di ‘genetica nutrizionale’ evidenziando il ruolo fondamentale dell’interazione ‘genotipo-nutrizione’ in condizioni ambientali (fisiche e biotiche) omogenee ai fini applicativi nelle varie biopoiesi (galattopoiesi, miopoiesi, ovopoiesi, tricopoiesi, ecc.).
Qualsiasi produzione animale può essere considerata la risultante di un numero piú o meno grande di interferenze fra complessi biologici il cui ruolo può essere molteplice (innescatori, trasportatori, mediatori a diversi livelli, repressori, ecc.), ma dipendente dall’influenza di fattori genetici, ambientali e delle relative interazioni (Ferrando e Vaz Portugal, 1974).
Bettini (1977) auspicava che la genetica nutrizionale avesse una propria fisionomia di studio per la vastità dei problemi connessi che implicano il cointeressamento di altre discipline (la biochimica, la fisiologia, l’anatomia, l’istologia, le produzioni vegetali, la mangimistica, l’etolologia, ecc.).
D’accordo con Bettini (1977) e Pilla (1977), l’esistenza di differenze notevoli entro la specie, qualitativamente e quantitativamente, nei processi nutrizionali è la ragione principale che deve spingere ad ampliare gli studi allo scopo di individuare quei meccanismi a base genetica responsabili della loro quota parte della varianza fenotipica totale. Indubbiamente, la problematica relativa non è semplice, ma il tutto va risolto entro la specie e, entro questa, in relazione alla funzione produttiva considerata.
La risposta variabile a un dato regime alimentare in funzione del tipo genetico è nota (Selliers et al., 1974); infatti, aumentando il contenuto energetico della razione, l’adipogenesi tende a aumentare nella femmina suina ‘Landrace francese’, a restare invariante in quella ‘Landrace belga’ e a ridursi nella Piétrain.
Nel pollo, il rapporto ottimale ‘contenuto proteico/contenuto energetico’ della razione alimentare varia in relazione al tipo genetico (Komiyama et al., 1973).
La velocità di accrescimento e l’indice di conversione alimentare (ICA) nel pollo variano a seconda del ‘regime alimentare’ utilizzato (Bettini, 1976), infatti:
(a) il ‘tipo genetico 1930’ a 8 settimane raggiunge:
(i) circa 400 g di peso vivo (PV) con un ICA di 3,9 se alimentato secondo la ‘formulazione mangimistica 1930’;
(ii) circa 850 g di PV (piú del doppio) con un ICA di 2,2 (- 44%) se alimentato secondo la ‘formulazione mangimistica 1960’;
(b) il ‘tipo genetico 1960’ perviene a:
(i) 580 g di PV con un ICA pari a 4,3 se alimentato con la ‘formulazione mangimistica 1930’;
(ii) ben 1.280 g di PV con un ICA di 2,15 se alimentato con la ‘formulazione mangimistica 1960’.
La lunghezza dell’apparato digerente e dei suoi tratti ha effetto sul risultato produttivistico in quanto i fenomeni connessi con la fisiologia della digestione e dell'assorbimento sono fortemente variabili in relazione al tipo genetico e al sesso (Matassino, 1978).
L’importanza di una analisi piú approfondita per meglio conoscere e interpretare le differenze tra gli individui può dedursi dai risultati di ricerche sui profili metabolici. Questi, infatti, possono aiutare notevolmente a individuare il grado di idoneità dell’animale rispetto a una determinata attività produttiva in ben definite e note condizioni di allevamento e a suggerire le eventuali modifiche da attuare nelle tecniche di allevamento (sistema di tenuta, alimentazione, ecc.) per ottimizzare le condizioni in cui l’individuo deve produrre per rendere massimo il livello produttivistico aziendale. Nei limiti in cui l’idoneità è ereditabile, il miglioramento genetico sarebbe facilitato (Matassino, 1978).
In tale contesto, l’attuale/futura politica agroalimentare deve/dovrà individuare ‘mete nutrizionali’ peculiari basate non piú sui consumi medi nazionali ma piuttosto sui seguenti aspetti:
(a) variabilità nei comportamenti alimentari legata alla multiculturalità;
(b) diversità in esigenze in nutrienti in base allo stato fisiologico dell’individuo;
(c) grado di vulnerabilità di determinati gruppi di individui identificabili con quelli a ‘elevato rischio’.
Qualsiasi strategia agroalimentare deve conciliarsi anche con una realtà produttiva zootecnica tendente a tutelare i tipi genetici autoctoni, dal momento che questi ultimi rappresentano una fonte preziosa di variabilità indispensabile per implementare ‘regimi nutrizionali’ differenziati.
Tossicogenomica. Uno degli approcci piú promettenti da sviluppare nell’ambito dell’analisi del rischio per la ‘sicurezza alimentare’ è la ‘tossicogenomica’, che si propone di studiare la variazione dell’espressione di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ e ‘non’ in un tessuto dovuta a esposizione a una sostanza tossica.
Gli studi di tossicità ‘in vitro’ diventano sempre di piú una valida alternativa a quelli tradizionali permettendo di minimizzare il costo e il sacrificio che il modello animale comporta.
La ‘qualità igienico-sanitaria’ è un prerequisito indispensabile di ‘sicurezza alimentare’ e presuppone oltre all’assenza di ‘inquinanti biologici’ anche l’assenza di elementi sia ‘tossici’ che ‘nocivi’ al benessere dell’uomo.
Come ribadito da Nardone (1997), è fondamentale la distinzione tra ‘tossicità’ e ‘nocività’.
La ‘tossicità’ va intesa come caratteristica di una sostanza che, oltre alla sua natura primaria, durante l’attività metabolica (trasformazione) può interagire con altre sostanze diventando ‘tossica’, cioè determinando effetti biologici dannosi ‘immediati’ dopo la sua assunzione.
La ‘nocività’ va intesa come caratteristica di una sostanza che, oltre alla sua natura primaria, anche se assunta a dosi inferiori a quelle che inducono l’effetto ‘tossico’, può interagire con altre sostanze durante l’attività metabolica (trasformazione), determinando una risposta letale a distanza di tempo rispetto alla sua assunzione, quale conseguenza ultima di effetti biologici dannosi ‘cumulativi’.
La valutazione della ‘nocività’ assume un’importanza sempre crescente, con particolare riferimento alla ricerca negli alimenti di ‘eventuali tracce contaminanti’ dei cosiddetti ‘interferenti endocrini (IE)’. Questi ultimi costituiscono un gruppo di sostanze molto eterogeneo dal punto di vista chimico, comprendente contaminanti ambientali identificabili con un prodotto di sintesi (diossine, policlorobifenili, alchilfenoli, ecc.) e/o con un prodotto naturale di organismi viventi (micotossine e fitoestrogeni); caratteristica comune degli IE è quella di interferire con l’equilibrio endocrino o mediante interazione con i recettori estrogenici e androgenici o mediante alterazione del metabolismo ormonale (Tait et al., 2006). Gli IE rappresentano uno degli aspetti piú critici per l’analisi del rischio in sicurezza alimentare per le seguenti motivazioni:
(a) capacità di indurre effetti a lungo termine sullo sviluppo, quali sterilità e aumentata suscettibilità al cancro;
(b) possibilità di sinergismo tra IE legati a differenti componenti del ‘regime alimentare’;
(c) vulnerabilità in alcune condizioni fisiologiche dell’individuo (gravidanza), o in categorie demografiche (neonati, bambini, ecc.).
La ricerca dei ‘fattori di rischio’ legati all’esposizione da IE prevede l’individuazione di opportuni ‘biomarcatori’ che possano fungere da ‘traccia’ di eventi di varia natura (molecolare, genetica, immunitaria, biochimica, ecc.) quali conseguenza significativamente provata di un’alterazione fisiologica o di una variazione dell’ espressione di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide /i’. La individuazione dei suddetti ‘biomarcatori’, che possono essere di esposizione e/o di effetto e/o di suscettibilità, può trarre notevole vantaggio dall’impiego delle varie branche della scienza ‘omica’.
Uno degli elementi chiave dell’approccio della tossicogenomica è l’accertamento dell’effettivo significato biologico della modulazione nell’espressione di segmenti di DNA sulla base del cosiddetto ‘ancoraggio fenotipico’. Quest’ultimo si riferisce all’analisi della relazione tra il ‘profilo di espressione di segmenti di DNA’ e i ‘parametri’ ‘convenzionali’ di tossicità chimico–clinici e istopatologici (patie epatiche, livello di alcuni enzimi nel fegato o in altri tessuti o cellule) e/o altri indici ‘validati’ di risposta a sostanze tossiche. L’individuazione di questa relazione è una delle sfide principali della tossicogenomica.
In conclusione, sebbene i progressi cognitivi siano già interessanti, l’ impatto tossico è incerto nella maggior parte dei casi, per cui è necessario ampliare l’uso degli approcci biomolecolari per meglio comprendere il rischio di residui e di contaminanti degli alimenti destinati all’uomo e/o all’animale.
Farmacogenomica e Farmacogenetica. La problematica delle relazioni tra ‘farmaco’ e ‘segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ o ‘non’ va considerata in chiave di ‘farmacogenetica’ e di ‘farmacogenomica’ , le quali possono essere cosí intese:
(a) ‘farmacogenetica’: variabilità della risposta individuale a un farmaco in relazione al patrimonio genetico dell’individuo stesso;
(b) ‘farmacogenomica’: tipizzazione del genoma individuale quale fattore influenzante le diverse modalità di somministrazione di un farmaco.
La farmacogenetica si pone come interfaccia tra la genetica e la farmacologia nell’utilizzare l’informazione genetica di una popolazione o di un singolo individuo per prevedere l’efficacia e la sicurezza in termini di tossicità e/o di nocività di un determinato farmaco.
Un obiettivo a ‘lungo termine’ della farmacogenomica è quello di prevedere farmaci e regimi di dosaggio ‘genotipo specifici’ (Soria, 2006).
L’ importanza dei fattori genetici nell’influenzare la risposta ai farmaci è nota sin dagli anni ’50 (Hughes et al., 1954; Carson et al., 1956; Kalow, 1956), ma soltanto a partire dal 1980 si sta individuando l’importanza del polimorfismo del DNA tra le possibili cause della eterogeneità di risposta ai farmaci (Evans e Relling, 1999). Di particolare interesse è il polimorfismo di segmenti di DNA codificanti:
(a) enzimi coinvolti nel metabolismo e nella biodisponibilità del farmaco all’organismo;
(b) recettori dei farmaci;
(c) ‘carrier’ dei farmaci.
La determinazione del genotipo individuale o dell’aplotipo individuale a livello di un ‘locus’ o di loci coinvolto/i nel metabolismo di un farmaco potrà permettere di prevedere con maggiore attendibilità la risposta alla sua somministrazione. A esempio, la differente risposta alla terapia antidepressiva (ricaptazione della serotonina) è funzione dello status di un locus, nel senso che l’ ‘eterozigote’ risponde meglio dell’ ‘omozigote’ (Smeraldi et al., 1998); nella fattispecie è stato considerato il locus biallelico del ‘promotore’ del ‘segmento di DNA codificante la proteina di trasporto della serotonina’. Gli effetti dei farmaci sull’organismo sono quasi sempre il frutto di espressione di molteplici segmenti di DNA codificanti proteine coinvolte in reti metaboliche complesse e le perturbazioni rappresentate da un trattamento con farmaco possono propagarsi in piú direzioni. Pertanto, ciascuna reazione a un farmaco ha un caratteristico ‘profilo di espressione’ di segmenti di DNA che può essere monitorato piú facilmente con l’approccio microarray.
Un farmaco può indurre a livello cellulare una reazione di ‘compatibilità’ oppure di ‘idiosincrasia’; la ‘compatibilità’ comporta ‘effetti positivi’ in quanto il farmaco rientra nei programmi metabolici di ‘base’ della cellula, mentre la ‘idiosincrasia’ è responsabile di ‘effetti negativi’ perché non compatibile con il metabolismo cellulare.
Una problematica notevole della ‘farmacogenomica’ e della ‘farmacogenetica’ è rappresentata dal fatto che i ‘complessi di segmenti di DNA’ implicati nella risposta ai farmaci possono essere diversamente modificati (‘indotti’ o ‘repressi’) nelle loro attività da fattori esterni estremamente variabili connessi allo stile di vita, al regime alimentare, ecc.. La possibilità di prevedere la risposta a un farmaco, sia in termini di risultati terapeutici che di eventuali effetti collaterali, dipende dalla possibilità di comprendere e di quantificare per ogni individuo sia la sua capacità di risposta al farmaco, sia l’integrazione fra il suo genoma e i fattori microambientali in cui egli è inserito; pertanto, la risposta di un individuo al farmaco può essere considerata un effetto del suo ‘epigenoma’.
I concetti di ‘cronogenetica’ e di ‘cronobiologia’ potrebbero offrire le basi ai fini di una migliore comprensione della variabilità dell’effetto temporale dei farmaci fornendo un valido contributo alla farmacogenomica in termini di ‘temporalizzazione della somministrazione di un farmaco’ (‘cronofarmacogenomica’). 4.4. Integrazione ‘genomica – proteomica’
Nell’ era post-genomica, raccordare la genomica alla proteomica diviene sempre piú ‘cogente’, soprattutto alla luce della potenzialità che la stessa integrazione ‘genomica-proteomica’ è in grado di offrire:
(a) acquisire conoscenze che permettano di colmare lo iato tra ‘genomica funzionale’ e ‘biologia cellulare’; conoscenze, che rappresentano la ‘chiave di volta’ per la comprensione dei meccanismi d’azione del DNA nella realizzazione dello sviluppo e del funzionamento di un organismo;
(b) studiare i cambiamenti dei processi metabolici di animali, di microrganismi e di piante in risposta a differenti condizioni ambientali; l'analisi differenziale dell’espressione dei segmenti di DNA’ e del ‘proteoma’ permette di studiare quali proteine, relative isoforme multiple e loro frammenti siano presenti in determinate condizioni ambientali; queste informazioni, oltre a definire le ‘reti cellulari’ instaurate tra ‘segmenti di DNA’ e ‘proteine’ rispondenti a particolari stimoli, possono contribuire a identificare i ‘bersagli molecolari’ di particolari fattori ambientali;
(c) contribuire alla tipizzazione della biodiversità, consentendo l’identificazione e la caratterizzazione di biomarcatori molecolari di ‘unicità’ genetica (a livello di singolo individuo) e di ‘specificità’ (a livello di prodotto); biomarcatori, che sono alla base della conoscenza di effetti diversificati che possono interessare la qualità ‘nutrizionale’, ‘extranutrizionale’ e ‘salutistica’ di un alimento, nonché il ‘livello di sicurezza’ dello stesso;
(d) identificare proteine ‘nuove’:
(i) esogene, come quelle che vengono eventualmente a essere sintetizzate negli organismi transgenici (OT) (altrimenti detti organismi geneticamente modificati, OGM) e che non sono presenti nei corrispettivi ‘convenzionali’ (non transgenici) [117];
(ii) endogene, come quelle non ancora caratterizzate e quindi presenti in banca dati.
La possibilità di identificare una proteina attraverso la ricostruzione della sua sequenza nucleotidica avvalora l’importanza dell’ integrazione tra la ‘genomica’ e la ‘proteomica’; integrazione, che può essere ormai considerata un valido pilastro nelle future strategie del miglioramento genetico. 5. Proteomica
La proteomica, quale identificazione e caratterizzazione del ‘proteoma’, rappresenta un’importante pietra miliare dell’ era post-genomica (Matassino e Occidente, 2003). Il concetto di proteomica deriva, quindi, dall’acquisizione di conoscenze sul ‘proteoma’ che, quale ’insieme delle proteine nonché delle relative isoforme multiple e dei loro frammenti presenti in una cellula o in un organismo o in un sistema biologico in ogni istante del proprio ciclo vitale, rappresenta un sistema di informazione ‘altamente sofististicato’, al pari di quello del DNA che lo codifica.
Il termine ‘proteoma’ fu coniato nel 1994 da M.R. Wilkins[118] per definire ‘il complemento proteico codificato da un genoma’ anche se, come nozione, il termine era già apparso nella biologia moderna 13 anni prima, quando Anderson e Anderson (1981) proposero la costituzione di un ‘atlante delle proteine umane’. L’importanza della ‘proteomica’ è chiaramente intuibile alla luce delle seguenti riflessioni (Matassino e Occidente, 2003):
(a) l’assioma ‘un gene – una proteina’ non è sempre valido; infatti, da un unico segmento di DNA codificante ‘polipeptide/i’ si può generare un elevato numero di forme proteiche con differente funzione metabolica (anche di breve durata);
(b) la concentrazione di una proteina non è sempre correlata in maniera semplice all’attività trascrizionale del corrispondente segmento di DNA che, nella sua espressione, è ulteriormente regolata a livello dei meccanismi che determinano la stabilità e la compartimentalizzazione in complessi proteici; (c)
(c)
(d)
(e)
(f)
(g)
(h)
(i) l’azione dei segmenti di DNA con ‘effetto pleiotropico’ influenza molteplici manifestazioni fenotipiche, tra cui, a esempio, l’accrescimento e lo sviluppo muscolare;
(j)
(k)
(l)
(m)
(n)
(o)
(p)
(q) (d)
(a) l’analisi di un segmento di DNA codificante ‘polipeptide/i’ consente di determinare la sequenza aminoacidica della ‘proteina’, ma non la sua ‘struttura terziaria’ e/o ‘quaternaria’; (e) l’approccio di ‘genomica funzionale’ non riesce a fornire indicazioni sulle modificazioni che avvengono ‘a valle della trascrizione’, né suggerimenti sulle modifiche post- traduzionali che, invece, potrebbero avere un ruolo significativo nella definizione delle caratteristiche qualitative di un alimento. Sulla base delle precedenti considerazioni, si arguisce che una cellula non ha un ‘proteoma’ unico e costante nel ‘tempo’ e nello ‘spazio’; pertanto, sarebbe preferibile parlare di tanti ‘proteomi’ quante sono le differenti condizioni cellulari e le diversità cellulari; un ‘proteoma completo’ di un organismo andrebbe immaginato come un ‘insieme globale di tutti i proteomi cellulari’ in quell’istante in un determinato microambinete. ‘Mappa proteomica’ e ‘proteomica globale’ sono termini frequentemente impiegati che riflettono le iniziative per razionalizzare la tassonomia degli innumerevoli ‘proteomi’.
L’ ‘interazione genoma- ambiente interno e/o ambiente esterno’ è responsabile della genesi di un proteoma ‘dinamico’ e ‘complesso’.
La ‘dinamicità del proteoma’ è avvalorata, tra l’altro, anche dalla scoperta di un nuovo meccanismo regolante la ‘sintesi proteica’ che risiede nei ‘corpi P’ (Processing Body, corpi di riattivazione); meccanismo che contribuisce a rendere la cellula un’attenta ‘economa’. La riutilizzazione dell’ mRNA negli appositi ‘corpi P’ rappresenta, infatti, un buon ‘sistema di riciclaggio’ ; finora, i ‘corpi P’ venivano considerati strutture cellulari o ‘ cestini’ in cui gli mRNA, una volta tradotti in proteine, venivano modificati per essere distrutti; recenti ricerche, invece, hanno evidenziato che l’ mRNA nei ‘corpi P’ può essere riattivato e/o riutilizzato nella sintesi proteica; ‘riattivazione’ e/o ‘riutilizzazione’ che contribuisce/ono a rendere il ‘proteoma’ ancor piú ‘dinamico’ e ‘complesso’ (Brengues et al., 2005).
La complessità del ‘proteoma’ è imputabile, anche, alle diverse strategie attuate dalla cellula per eliminare proteine ‘mal assemblate’ o ‘non funzionali’ o, semplicemente, per abbassarne la loro concentrazione. Alcune strategie sono:
(a) degradazione enzimatica svolta dai lisosomi che, all’occorrenza, demoliscono molecole ‘inutilizzate’ attraverso alcuni enzimi (glicosidasi, idrolasi, lipasi, nucleasi, proteasi, ecc.) con il riciclo dei loro componenti;
(b) demolizione proteica citosolica operata da un complesso macromolecolare detto ‘proteasoma’ o ‘camera della morte’, considerato una sorta di ‘inceneritore’ o ‘spazzino cellulare’ in quanto capace di degradare ‘complessi’ di proteine purché ‘ubiquitina etichettate’.
La complessità di un ‘proteoma’ è chiaramente deducibile anche dall’esistenza delle ‘numerose modificazioni’ a cui vanno incontro i ‘segmenti di DNA codificanti’ e i ‘prodotti dell’espressione di tali segmenti’; infatti, ‘fenomeni microevolutivi’ a livello del DNA (mutazioni puntiformi, inserzioni e/o delezioni di sequenze nucleotidiche), ‘meccanismi di regolazione’ (editing, splicing, ecc..) a livello del pre-mRNA e dell’mRNA, nonché ‘modificazioni post-traduzionali’ a carico di polipeptidi giustificano sia la ‘presenza di un numero piú elevato di proteine’ rispetto al numero di segmenti di DNA codificanti sia l’ ‘eterogeneità delle stesse proteine’. Un esempio della complessità del ‘proteoma’ è rappresentato dallo splicing alternativo il quale è responsabile di diversi ‘coscritti’ di RNA originati da un unico segmento di DNA codificante; i ‘coscritti’ quando ‘espressi’ danno origine a un set di ‘proteine diverse solo nella dimensione molecolare’ o a ‘isoforme multiple’. A oggi, è stato individuato che una ‘tipica cellula’ di alcuni mammiferi contiene: 15.000 ÷ 23.000 segmenti di DNA codificanti polipeptide/i (23.154: cellula umana); ~ 50.000 molecole di mRNA rappresentative di 5.000 specie diverse di mRNA (~10 molecole di mRNA per specie di mRNA ); ~ 1 miliardo di molecole proteiche rappresentative di 100.000 proteine differenti (ogni proteina è presente mediamente con 10.000 copie; di queste ‘proteine diverse’ circa 100 sono quelle piú rappresentate, pari al 90 % del suddetto miliardo). Lo ‘splicing alternativo’ consentirebbe a organismi e a loro parti di svolgere funzioni diverse con un numero di ‘segmenti di DNA codificanti polipeptide/i’ ridotto.
Pertanto, si può riassumere la complessità proteica in:
(a) ‘polimorfismo’ per la presenza di varianti proteiche quali espressione di mutazioni a carico di loci (associati o non);
(b) ‘versatilità’ (variabilità funzionale);
(c) ‘flessibilità’ (variabilità strutturale).
Queste proprietà, le ultime due in particolare, consentono alle proteine di comunicare tra loro oltre che con altre biomolecole, nonché di assolvere a numerose funzioni: catalitica, immunitaria, metabolica, protettiva, regolatrice, strutturale, trasportatrice, ecc.. 5.1. Proteomica ‘strutturale’
La proteomica, avvalendosi di metodiche di separazione ad alta risoluzione e di analisi di spettrometria di massa (MALDI-TOF[119] e nanoLC ESI-MS/MS[120]), permette di fotografare, di caratterizzare e di identificare le proteine, le relative isoforme multiple e i loro frammenti presenti in una cellula in ogni momento del suo ciclo vitale indipendentemente dalla conoscenza delle sequenze nucleotidiche del DNA che le codificano (Matassino e Occidente, 2003; Matassino, 2005b).
Il primo approccio utile alla comprensione del ‘complesso universo proteico’ è basato sulla ‘caratterizzazione strutturale’ delle proteine e sulla loro ‘catalogazione’ da cui non si possono trarre, però, informazioni relative alla loro ‘funzione biologica’. Ogni proteina presenta diversi livelli di organizzazione[121] che si integrano originando la specifica conformazione tridimensionale: stato nativo da cui dipende la sua funzione. Ogni proteina presenta ‘motivi strutturali’ dati dalla combinazione di strutture secondarie consecutive che, in proteine diverse, hanno un significato funzionale analogo; piú motivi strutturali formano un complesso compatto e stabile: il ‘dominio’ o ‘modulo’, il quale può essere formato interamente da alfa-eliche o interamente da foglietti-beta o da un insieme di alfa-eliche e beta-foglietti.
La proteomica strutturale produce un’enorme mole di ‘dati’ la quale, per la sua gestione complessa, richiede l’utilizzazione della bioinformatica che, nella fattispecie, oltre a elaborare i risultati ottenuti dall’analisi proteomica, si occupa della costruzione di ‘modelli molecolari’ per:
(a) chiarire le proprietà funzionali di una proteina;
(b) definire le condizioni chimico-fisiche per la formazione di complessi proteici;
(c) predire la struttura tridimensionale (3D) sulla base dei principi termodinamici.
Gli studi bioinformatici basati sulla conoscenza della struttura primaria e terziaria e applicati alla titina (proteina gigante del sarcomero) hanno evidenziato, a esempio, una conformazione di tipo palindromico[122], osservata finora solo nel complesso ‘dna-proteina’ (Zou et al., 2006). 5.2. Proteomica ‘comparativa’
La complessità dipende non tanto dal ‘numero di proteine’, quanto dal ‘tipo di proteine’ codificate, come è possibile rilevare allorquando si effettua la comparazione di ‘proteomi base’ di organismi diversi. Non deve sorprendere che in un eucariote complesso, quale la Drosophila, sia stato individuato finora un ‘proteoma base’ costituito da un numero di proteine (8.065) per lo piú comparabile a quello del nematode Caernorhabditis Elegans (9.453) nonostante esistano grandi differenze in termini di complessità di sviluppo e di forma somatica fra il ‘moscerino’ e il ‘verme’ (Rubin et al., 2000). Infatti, la maggiore complessità della Drosophila sarebbe spiegata dall’esistenza di un numero maggiore di ‘domini proteici’ rispetto al nematode. I vertebrati sono caratterizzati da una ‘diversità proteica’ notevolmente superiore rispetto agli invertebrati; nell’uomo il numero di domini proteici è di poco superiore (1.262) rispetto a quello di Drosophila (1.035); tuttavia, la maggiore versatilità e la notevole interscambiabilità dei domini propri della specie umana e della maggior parte degli animali di interesse zootecnico è responsabile dell’origine di molti piú tipi diversi di proteine (International Human Genome Sequencing Consortium, 2001) . 5.3. Proteomica ‘funzionale’
Lo studio della ‘funzione biologica’ di una proteina, cioè del ruolo che essa esplica nei processi fisiologici, è oggetto della proteomica funzionale.
Le principali applicazioni della proteomica funzionale sono indirizzate alla:
(a) individuazione della funzione biologica di una proteina ancora sconosciuta;
(b) comprensione della funzione biologica di una proteina nota;
(c) definizione dei meccanismi molecolari che regolano le funzioni cellulari piú importanti;
(d) identificazione delle interazioni ‘proteina-proteina’ nella formazione di complessi funzionali.
Le tecniche proteomiche basate su elettroforesi bidimensionali consentono di visualizzare su gel ogni proteina, ogni relativa isoforma multipla e/o suoi frammenti, come spot; l’insieme degli spot costituisce il pattern proteico caratteristico di un qualsiasi sistema biologico in una data condizione. Il confronto di pattern proteici derivanti da ‘condizioni diverse entro lo stesso sistema’ permette di definire la presenza di eventuali ‘proteine differenzialmente espresse’ la quale rappresenta un ‘punto cruciale’ per la comprensione dei meccanismi che sottostanno al funzionamento e all’adattamento di un qualsiasi sistema biologico a particolari condizioni. Questo tipo di impostazione della proteomica funzionale si definisce ‘proteomica differenziale’: esigenza di comprendere una diversità di manifestazione fenotipica del prodotto di espressione del DNA in un determinato istante della vita di una cellula. Inoltre, le proteine esplicano la loro funzione all’interno di un complesso ‘sistema metabolico’ o ‘sistema cellulare’ ‘lavorando in gruppo’; ciò starebbe a significare che la ‘sola caratterizzazione strutturale’ di una proteina non sarebbe utile per lo studio dell’intero ‘complesso multiproteico’. Pertanto, normalmente, si ritiene che il risultato finale dell’approccio proteomico di maggiore interesse sia proprio quello di isolare e di caratterizzare la ‘rete’ di proteine coinvolta in un determinato processo fisiologico definendone i meccanismi molecolari con strategie che dovranno sempre piú concretizzarsi in linee di ricerca identificabili in una visione di vero e proprio sviluppo della ‘biologia dei sistemi’. Trattasi, quindi, di un nuovo approccio mirante a caratterizzare i sistemi biologici ‘dinamicamente’ nel ‘tempo’ e nello ‘spazio’ con l’obiettivo principe di trovare ‘soluzioni migliori’ a ‘sfide complesse’ nell’ambito della medicina (umana e animale) e delle produzioni agroalimentari ai fini del benessere sia dell’uomo sia dell’animale (Matassino, 2005b) . 5.3.1. Alcune applicazioni della proteomica
L’approccio proteomico si è sviluppato primariamente in medicina umana ove trova tuttora larga applicazione, soprattutto nella ricerca di proteine piú o meno espresse o non espresse: una conoscenza esaustiva delle proteine circolanti nel plasma è il punto di partenza per una diagnostica sofisticata. Esistono, per esempio, prove convincenti che, tra le proteine del plasma, i ‘detriti del catabolismo proteico’, pur presenti in quantità modeste, assumono un ruolo fondamentale nel supportare la diagnostica clinica in quanto rappresentano ‘pattern’ specifici di tumori della prostata e dell’ovaio. La proteomica permette di identificare, anche, isoforme proteiche che si hanno per effetto promotore da parte di agenti chimici potenzialmente cancerogeni, a esempio la diossina, in animali da laboratorio. L’uso della proteomica ha permesso di spiegare il ruolo della ‘macchina molecolare’ nel dirigere il ripiegamento di alcune proteine coinvolte nella genesi di gravi ‘patie’. L’entità di manifestazione della proteina Hsp70[123] influenza il ‘ripiegamento’ di proteine che sono alla base del ‘morbo di Parkinson’ e di quello di ‘Alzheimer’, i quali hanno appunto una causa in comune: un ‘non corretto ripiegamento di una particolare proteina’ (Scheibel e Buchner, 2006).
La continua semplificazione nell’uso degli strumenti innovativi di post-genomica favorisce una sempre maggiore applicazione della proteomica anche ai fini del miglioramento del benessere animale, nonché della qualità dei prodotti da essi ottenuti.
L’approccio proteomico alla ‘biologia riproduttiva’ apre ampie prospettive; a esempio, potrebbe aiutare a risolvere alcuni problemi importanti di infertilità sia maschile che femminile o taluni problemi derivanti dall’ interazione del materiale seminale con i vari ‘tratti’ dell’apparato genitale femminile. Recentemente, tra le proteine seminali, Roncoletta et al. (2006) hanno rilevato utili marker di fertilità maschile (BSP[124] e aSFP[125]) evidenziando una maggiore presenza della BSP-A3 nei tori Nellore con alta fertilità (8,5 volte piú abbondante) e di quella della aSFP nei tori con bassa fertilità (2,5 volte piú abbondante). Tali risultati confermano l’importante ruolo che riveste l’analisi bidimensionale comparativa delle proteine nel predire la fertilità dei ‘giovani tori’ da includere nel ‘progeny test’, permettendo una maggiore accuratezza nello scarto. Moura et al. (2006) hanno osservato che l’alta fertilità del maschio di razze con spiccata attitudine alla produzione lattea è associata a una piú bassa manifestazione di alcune isoforme della proteina spermadesina e a una piú elevata quantità di altre (osteopontina 55 kDa e fosfolipasi-A2 58 kDa). Pertanto, l’interazione tra le diverse proteine che costituiscono il liquido seminale spiegherebbe la differenza di ‘punteggio di fertilità’ fra i riproduttori. L’interazione della testa dello spermatozoo con ciascuna delle strutture associate all’ovocita durante la fertilizzazione, cioè lo strato di cellule superficiali (la zona pellucida e la membrana plasmatici) riveste notevole importanza per l’identificazione del livello di ‘fertilità individuale’ (Strzeźek et al., 2005; Stein et al., 2006); grado di fertilità che potrà essere meglio definito grazie all’applicazione di metodiche proprie della ‘proteomica funzionale’.
Nel campo della nutrizione, le indagini di proteomica e lo studio dell’espressione dei segmenti di DNA codificante ‘polipeptide/i’ contribuiscono a comprendere (Matassino, 2006a):
(a) le basi dell’invecchiamento;
(b) l’azione positiva di alcuni microrganismi;
(c) gli eventuali effetti a breve termine (tossicità) e a medio/lungo termine (nocività) sul metabolismo umano delle proteine espresse ex novo negli OT e negli alimenti da essi derivati;
(d) il ruolo svolto dai nutrienti nello sviluppo di ‘patie’.
A esempio, il recente grave caso della BSE[126] testimonia la necessità di monitorare tutta la filiera produttiva, dall’’ambiente animale’ al desco del consumatore, con nuovi approcci. Grazie all’ approccio proteomico, a oggi, sono state identificate ben 60 isoforme della glicoproteina prionica PRPc [127]. I meccanismi con cui le l’isoforme prioniche normali si trasformano in quelle patogene (PRPsc)[128] responsabili della BSE sono stati chiariti da Castagna et al. (2002). Le isoforme normali e patogene hanno lo stesso peso molecolare, ma differiscono per la struttura terziaria e per quella quaternaria. La forma PRPc presenta una conformazione prevalentemente alfa-elicoidale (spirale regolare); la forma PRPsc, invece, possiede una conformazione prevalentemente beta–elicoidale (spirale stirata) (Prusiner, 1995, 2004). Si intuisce, quindi, come la possibilità di poter riconoscere le caratteristiche strutturali di una proteina e principalmente quelle conformazionali sia importante e faciliti la comprensione dei meccanismi influenzanti e responsabili dell’ allarmante ‘patia’.
Nel settore agro-alimentare, come riportato da Matassino e Occidente (2003), le potenzialità e le prospettive offerte dalla proteomica stanno contribuendo a fornire approfondite conoscenze a livello molecolare dei ‘peculiari nutrienti’ caratterizzanti uno specifico alimento; l’approccio proteomico mira a caratterizzare proteine presenti in un alimento di origine animale [carne, latte e loro derivati (salumi e formaggi)] o di origine vegetale al fine di individuare ‘marcatori biochimici’ che, unitamente ad altri ‘parametri di qualità’ (fisici, chimico-fisici, microbiologici, fisiologici e chimici), contribuiscono a:
(a) individuare le ‘specificità bioterritoriali’;
(b) definire le caratteristiche ‘nutrizionali’ , ‘extranutrizionali’ e ‘salutistiche’;
(c) sviluppare test analitici validanti l’ ‘autenticità dei prodotti alimentari’.
Vari studi condotti sugli alimenti di origine sia animale che vegetale evidenziano che i bioterritori, in virtú delle proprie diversità, possono contribuire alla ‘diversificazione nutrizionale, extranutrizionale e salutistica’ degli alimenti; in tale contesto, il prodotto ‘tradizionale tipico’ assume un ruolo fondamentale per la sostenibilità salutistica e sanitaria per l'uomo, per l’animale, nonché per il bioterritorio, con riflessi positivi anche sulla sostenibilità economica (Matassino, 1996; Matassino, 2001b; Matassino, 2005a; Casabianca e Matassino, 2006). Il ‘monitoraggio proteomico’ può fornire un notevole contributo al settore ‘agro-alimentare’ per la tutela dell’’unicità’ del prodotto e per la garanzia della ‘salubrità’ dello stesso; contributo che diviene sempre piú attuale, anche in linea con il regolamento dell’Unione Europea ‘Health and Nutrition Claims’. I ‘Claims’ devono tener conto di parametri oggettivi e devono, inoltre, riportare informazioni ‘consolidate’ e ‘validate scientificamente’ che attestino il legame tra ‘alimenti’ e ‘salute’; pertanto, si intuisce l’importante ruolo della proteomica nel definire ‘profili nutrizionali quali-quantitativi’ e nel discriminare i cibi con ‘maggiore validità nutrizionale’ da quelli con ‘minore valenza nutrizionale’ (Matassino et al., 2006e).
Un altro obiettivo della proteomica nel settore ‘agroalimentare’ è quello di comprendere meglio il biochimismo che regola i vari processi produttivi mediante la determinazione quantitativa di proteine indicatrici, o marcatori molecolari, che definiscano meglio uno stato di ‘normalità’ o di ‘anormalità’ della sequenza nelle varie fasi di una ‘filiera produttiva’. Infatti, con l’approccio proteomico si possono ottenere vere e proprie ‘impronte digitali di mappe bidimensionali (m2D) dei prodotti analizzati le quali, una volta registrate, vengono inserite in una banca dati di ‘bioimmagini’. Ogni anomalia, riscontrata nelle m2D della stessa tipologia di prodotto esaminato, può essere caratterizzata a livello molecolare mediante spettrometria di massa per stabilirne la natura ed eventualmente la causa; eventuali discordanze fra la mappa del prodotto in esame e quella presente in banca dati possono essere indicatrici di:
(a) imitazione di prodotto;
(b) diversa area geografica di produzione;
(c) anomalie nei processi proteolitici dovute a eventuali patogeni e/o inquinanti;
(d) diverso diagramma di flusso.
Pertanto, la proteomica è di particolare utilità per indagini di qualità dei prodotti di origine animale (Matassino e Occidente, 2003; Matassino et al., 2006a, 2006e). 5.3.1.1. Cenni sul ‘Proteoma’ della ‘carne’
Le caratteristiche qualitative della carne sono fortemente influenzate dalla individualità biologica dell’animale in vita. L’importanza di conoscere il percorso dell’animale allevato per una valorizzazione qualitativa delle produzioni ottenibili e l’influenza delle inscindibili relazioni tra tecniche di allevamento, benessere animale, qualità del prodotto e salute umana sono ampiamente documentate (Bettini e Matassino, 1961, 1963; Bettini, 1969; Bettini e Ferrara, 1970; Matassino, 1978, 1996, 2001b).
Per anni, per descrivere i meccanismi biologici responsabili della variabilità delle caratteristiche qualitative sono stati impiegati approcci di genetica, di fisiologia, di biochimica, di biologia, ecc.. L’attenzione del Ricercatore era rivolta principalmente allo studio dell’effetto dei fattori (genetici e ambientali) che influenzano alcuni indicatori di qualità della carne (tenerezza, colore, potere di ritenzione dell’acqua, quantità e qualità del tessuto adiposo, ecc.); attualmente, l’interesse è rivolto maggiormente alla conoscenza del biochimismo molecolare del processo di trasformazione del muscolo in carne, realizzabile grazie alle potenzialità della genomica e della proteomica. Allo stato attuale, l’applicazione della proteomica alla scienza della carne è di grande interesse e il numero di studi pubblicato è crescente; essa sta contribuendo a migliorare specialmente l’acquisizione di fenomeni coinvolti nel ‘processo di intenerimento’.
Benché molteplici fattori biochimici influenzanti la ‘tenerezza’ della carne siano già noti (Koohmaraie, 1996; Maltin et al., 2003) e benché diversi QTL (Quantitative Trait Loci, loci a carattere quantitativi) siano stati individuati (Matassino e Rossi, 1998; Fontanesi, et al., 2006; Lipkin, et al., 2006), la comprensione della relazione esistente tra i complessi meccanismi post mortem e il loro effetto sulla ‘tenerezza’ della carne desta sempre particolare attenzione in quanto la ‘tenerezza’ è uno dei requisiti di maggiore importanza richiesti dal consumatore. Non minore interesse riveste la comprensione dei meccanismi molecolari che influenzano l’’accrescimento’ e lo ‘sviluppo muscolare’ in relazione alle ‘caratteristiche qualitative della carne’. A tal proposito, gli studi del metabolismo della crescita e dello sviluppo del tessuto muscolare in modelli animali come il topo, ben avviati a livello di proteoma, stanno fornendo un utile contributo alla conoscenza del metabolismo anche delle specie animali di interesse zootecnico.
Muscolo e caratteristiche qualitative della carne. La presenza di una relazione tra alcune caratteristiche qualitative della carne e la composizione del muscolo in ‘tipi’ di fibra nelle specie animali di interesse zootecnico, ipotizzata e supportata dai risultati di alcune ricerche, ha reso sempre piú numerosi gli studi finalizzati alla conoscenza della struttura del muscolo (Ashmore, 1972; Matassino et al.,1986a e b; Dransfield et al., 2003).
Le prime ricerche distinguevano nei muscoli scheletrici la presenza di due ‘tipi’ di fibra: tipo I e tipo II, successivamente denominati ‘slow’ e ‘fast’ sulla base della velocità di contrazione. Le fibre ‘fast’ sono caratterizzate dalla presenza di isoforme diverse di MHC[129] (tipo IIa, IIb o IIx) , mentre l’attività delle fibre ‘slow’ è determinata dalla MHC tipo I. I due ‘tipi’ di fibra differiscono anche per le MLC [130], per la troponina T e per la tropomiosina che, insieme, contribuiscono a determinare una diversa velocità di contrazione e quindi risultano coinvolte nel ‘processo di intenerimento’ della carne, a diversi livelli e intensità. La via metabolica utilizzata dai due tipi di fibra (slow e fast) per la produzione di energia è diversificata. La fibra fast è essenzialmente glicolitica; infatti, essa presenta un’elevata attività degli enzimi ‘glicolitici’ [a esempio, piruvato chinasi, glucosio-3-fosfato deidrogenasi (G3PD)] a differenza di quella slow ove piú intensa è l’ attività degli enzimi ‘ossidativi’ come la succinato deidrogenasi (SDH). Tale suddivisione risulta però troppo ‘rigida’ anche perché ciascuna fibra, durante la propria vita, può mutare il suo ‘fenotipo’ in risposta a diversi stimoli, o a specifiche richieste funzionali, ‘temporaneamente’ e ‘reversibilmente’, oppure ‘in maniera definitiva’ (Matassino et al., 1986a e b, 1989, 1997).
Queste caratteristiche ‘metaboliche’ e ‘biochimiche’ variano a seconda del tipo di muscolo e possono avere un grande effetto sulla ‘qualità’ del prodotto dal momento che la variabilità nella ‘tenerezza’ della carne dipende sia da differenze nelle caratteristiche delle fibre muscolari (dimensioni e tipo), sia dal tenore in glicogeno e in collagene, sia dalle attività proteasiche.
I risultati di Renand et al. (2001) hanno indicato che solo una quota (al massimo un quarto) della variabilità totale della ‘tenerezza’ e del ‘sapore’ è correlata alla variabilità delle caratteristiche di struttura dei diversi muscoli.
Le ‘proteine contrattili’ e gli ‘enzimi metabolici’ nei muscoli ‘slow’ e ‘fast’ sono ‘differenzialmente manifesti’, analogamente ad altre proteine, quali a esempio i fattori di trascrizione. Questi ultimi, poiché presenti in piccole quantità, non sono evidenziabili con tecniche elettroforetiche mono e bidimensionali; eppure, essi potrebbero avere grande importanza (Okumura et al., 2005).
I modelli animali con ‘fenotipi particolari’ quali la ‘doppia muscolatura’ (o ‘ipertrofia muscolare’) nel bovino (Fiems et al., 1995) e il ‘callipige’ nell’ovino (Taylor e Koohmaraie, 1998) hanno contribuito a comprendere meglio la relazione tra ‘crescita muscolare’ e ‘caratteristiche qualitative della carne’ e, se ulteriormente indagati, potranno fornire informazioni utili ad approfondire alcuni meccanismi legati alla crescita muscolare, al metabolismo post mortem e alla ‘tenerezza’ della carne.
Il ‘carattere’ o manifestazione fenotipica ‘ipertrofia muscolare’ è stato osservato, già a partire dal 1800, in numerosi tipi genetici bovini da carne; i soggetti portatori di ‘ipertrofia’ si distinguevano per una eccellente efficienza nell’utilizzazione degli alimenti e per incrementi ponderali giornalieri superiori alla media. Inoltre, al carattere ‘ipertrofia muscolare’ venivano associati una pressoché totale assenza di grasso, una buona ‘tenerezza’ della carne e una struttura ossea assai piú solida. Alcuni studi hanno confermato che i bovini ‘ipertrofici’ forniscono una ‘carne piú tenera’ rispetto ai bovini ‘normali’ (Boccard 1981; Bailey et al., 1982; Bouton et al., 1982). Negli ultimi anni, il carattere ’ipertrofia muscolare’ è stato osservato anche nel bovino Marchigiana nel quale, come già sottolineato, indagini citogenetiche hanno evidenziato una elevata incidenza della traslocazione robertsoniana allo stato cosiddetto ‘eterozigote’ .
Analizzando i pattern proteomici derivati dal muscolo semitendinosus di tori Blu Belga, Bouley et al. (2005) e Picard et al. (2005) hanno rilevato la presenza rispettivamente, di 13 e di 17 proteine diversamente espresse nei tori ‘ipertrofici’ e ‘non’, comprese le ‘proteine contrattili’ e le ‘proteine metaboliche’. Tale variabilità proteica, diversamente espressa nei due fenotipi, potrebbe essere utilizzata come marker per l’ipertrofia muscolare. In particolare, maggiormente influenzate dalla ‘mutazione’ della ‘miostatina’ sono risultate le isoforme T della Troponina (TnT), responsabili dell’interazione con la Tropomiosina (Tm). Il complesso proteico ‘Troponina’ è costituito da tre subunità: TnC, TnI e TnT; quest’ultima, in vivo, ha un ruolo strutturale ben definito in quanto:
(a) incatena le subunità TnI e TnC alla Tm;
(b) trasmette i cambiamenti strutturali alla unità Tm-Tn;
(c) influenza la comunicazione tra i filamenti di Tm.
Si comprende, dunque, come la ‘degradazione della TnT’ sia sicuramente da mettere in relazione al processo di rottura dell’integrità miofibrillare e, quindi, all’’intenerimento della carne’. Esistono, però, non meno di 20 isoforme di TnT derivanti da ‘splicing alternativo’ e il ruolo fisiologico svolto da ciascuna di esse non è ancora del tutto chiarito.
Bouley et al. (2005) hanno suggerito che la miostatina controlla principalmente la proliferazione delle fibre muscolari glicolitiche a rapida contrazione (fast) convalidando risultati di studi precedenti che associano l’ipertrofia muscolare a un’incrementata proliferazione di mioblasti secondari nei feti e a un elevato sviluppo di fibre muscolari glicolitiche negli animali adulti (Deveaux et al., 2003).
Metabolismo post mortem e caratteristiche qualitative della carne. La comprensione della relazione tra metabolismo post mortem e qualità della carne è di grande interesse. Tra i fattori in grado di influenzare notevolmente la ‘tenerezza’ della carne vi sono la ‘glicolisi’ e la ‘proteolisi’ post mortem. Il ruolo che entrambi i fenomeni rivestono nel determinare il valore finale di ‘tenerezza’ non è stato ‘chiaramente’ e ‘completamente’ definito anche se è risaputo che la frollatura influisce fortemente su tale caratteristica qualitativa e si ritiene che la degradazione e la denaturazione delle proteine durante la trasformazione post mortem del muscolo in carne ne siano la principale causa.
L’interesse nell’identificazione e nella caratterizzazione strutturale e funzionale delle proteasi e soprattutto dei prodotti della proteolisi ha portato a coniare il termine ‘degradomica’ (Lopez-Otin e Overall, 2002). Uno dei primi prodotti di degradazione rilevati nel muscolo post mortem è un peptide di 30-32 kDa, identificato come frammento della Troponina T (TnT) (Muroya et al., 2003) e, poiché l’intenerimento procede simultaneamente con la degradazione della TnT, si è supposta una relazione positiva tra i due processi, almeno nel bovino. La TnT è, come precedentemente detto, una delle tre subunità responsabile dell’interazione con la Tropomiosina (Tm) e, quindi, una sua degradazione è da mettere in relazione con l’intenerimento della carne.
Altre proteine muscolari sarcoplasmatiche, quali la titina, la nebulina, la desmina, la filamina, la vinculina e la distrofina, vengono degradate nel periodo post mortem, ma non risulta ancora completamente chiaro come la degradazione di tali proteine sia correlata alla ‘tenerezza’ della carne. Pertanto, una caratterizzazione piú dettagliata delle proteine, delle relative isoforme multiple e dei loro frammenti, nonché lo studio del loro coinvolgimento nei cambiamenti molecolari che hanno luogo durante la frollatura, potrebbero essere di grande aiuto nella comprensione della relazione esistente tra ‘metabolismo post mortem’ e ‘qualità della carne’.
Cambiamenti rispecchianti i reali eventi che si verificano durante il processo di frollatura interessano, nella carne suina, una ristretta attività proteolitica del muscolo (Lametsch e Bendixen, 2001).
Al contrario, sempre nel suino, il verificarsi di cambiamenti in 103 spot è stato rilevato da Lametsch et al. (2003); 26 di questi spot sono correlati con la ‘tenerezza’. In particolare, la degradazione di 9 peptidi dell'actina, su 20 identificati, è correlata con le caratteristiche qualitative della carne. Tuttavia, l’entità della demolizione dell'actina lascerebbe supporre che ciò non sia il principale meccanismo responsabile dell'intenerimento post-mortem.
Nel processo di variazione della ‘tenerezza’ sono sicuramente coinvolte anche le calpaine e le calpastatine (Huang e Forsberg, 1998; Doumit e Koohmaraie, 1999) e il loro coinvolgimento è avvalorato anche dalla maggiore ‘durezza della carne’ fornita dagli ovini con ‘fenotipo ipertrofico callipige’. Infatti, in questi soggetti, i cambiamenti strutturali post-mortem avvengono piú lentamente a causa di una bassa attività delle calpaine dovuta a un incremento dei livelli di calpastatine, naturali antagonisti delle calpaine. L’evidenza che nel muscolo post-mortem l’attività della m-calpaina si mantiene costante, mentre quella della μ-calpaina rapidamente decade, suggerisce che quest’ultima sia maggiormente implicata nella proteolisi post-mortem (Veiseth et al., 2004). Anche nei bovini Frisoni una piú elevata attività di m-calpaina nel muscolo supraspinatus (ricco di fibre slow), rispetto al longissimus (ricco di fibre fast), ha suggerito un possibile legame tra la ‘degradazione delle proteine’ e la ‘velocità di intenerimento post mortem’ mediata dalla m-calpaina e dai suoi inibitori (Koomarahie et al., 2002; Thygesen et al., 2005). Una piú alta temperatura applicata al rigor mortis attiverebbe il ‘sistema’ della μ-calpaina e accelererebbe il ‘processo di intenerimento’ confermando il ruolo principe del sistema μ-calpaina nella proteolisi post-mortem (Hwang e Thompson, 2001; Rees et al., 2003).
La relazione tra cambiamenti nella ‘densità’ degli spot e alcune caratteristiche qualitative del muscolo longissimus suino è stata descritta da Hwang et al. (2004): cambiamenti di parametri oggettivi quali ‘forza di taglio’, ‘perdita di acqua per gocciolamento’ e ‘valore di luminosità’ (L) coincidono con modificazioni nella densità di 27 spot delle 133 proteine identificate durante la frollatura; il beneficio dell' immediato intenerimento nonché l’effetto negativo sulla perdita di acqua per gocciolamento determinati da una elevata temperatura muscolare a pH 6,2 sarebbero soppressi dalle basse temperature utilizzate durante la frollatura. Questi risultati sono coerenti con quanto rilevato in precedenti osservazioni, fatta eccezione per la desmina che si è rivelata un buon indicatore della proteolisi post-mortem e dell’intenerimento della carne (Wheeler e Koohmaraie, 1999; Muroya et al., 2004).
L’esistenza di un contributo sinergico delle calpaine e delle proteinasi lisosomiali nell'intenerimento della carne durante il periodo post-mortem è stata descritta, sul prosciutto fresco, da Di Luccia et al. (2005); infatti, l’ analisi delle mappe 2DGE, nelle prime 48 e 72 ore di frollatura, ha evidenziato la presenza di frammenti della catena pesante della miosina.
Una notevole complessità nel profilo qualitativo proteico del fiocco sannita[131] è stata evidenziata da Matassino et al. (2004, 2006b e c) e da Inglese et al. (2006). Tale complessità è dovuta, oltre che alle principali proteine sarcoplasmatiche e miofibrillari, anche ad alcune relative isoforme e loro frammenti derivanti dalla proteolisi: l’idrolisi avviene soprattutto a carico della frazione proteica miofibrillare e interessa in particolar modo le catene leggere della miosina. L’analisi bidimensionale delle frazioni miofibrillare e sarcoplasmatica dello stesso prodotto ha, inoltre, messo in luce un polimorfismo a carico delle proteine actina e DJ-1[132]; polimorfismo che, dall’esame della letteratura a oggi consultata, risulterebbe per la prima volta evidenziato in carne suina stagionata.
Allo scopo di implementare le banche dati esistenti, ancora poco esaustive per la specie caprina, nonché di approfondire le conoscenze relative ai cambiamenti fisico-chimici a carico della struttura miofibrillare del muscolo Longissimus dorsi sottoposto a diversi trattamenti post-mortem, è stata eseguita la caratterizzazione proteica della frazione miofibrillare: la carne stimolata con l’impiego del medio voltaggio (220v) e analizzata a 8 ore dalla morte dell’animale presenta valori di proteolisi non dissimili da quella frollata e analizzata dopo 48 ore di refrigerazione, mentre l’utilizzo del basso voltaggio (48v) comporta valori di proteolisi significativamente inferiori rispetto agli altri trattamenti utilizzati (P<0,001) (Matassino et al., 2007b). Pertanto, prendendo in considerazione il livello di proteolisi muscolare, la tecnica di elettrostimolazione a medio voltaggio si è rivelata utile, nei limiti del campo di osservazione, nel diminuire il periodo di permanenza delle carcasse in cella refrigerata, senza comprometterne la proteolisi .
Di Luccia et al. (2004), confrontando la specie bufalina con quella suina, hanno evidenziato la ‘diversa suscettibilità’ delle componenti proteiche all’attività proteolitica della ‘carne’ e ‘derivati’ delle suddette specie; le maggiori differenze legate alla ‘specie’ risiedono nella frazione proteica sarcoplasmatica del prodotto fresco e interessano:
(a) le creatine chinasi che, presenti come ‘due spot ‘ ben definiti nella carne suina, sono concentrate in ‘unico grande spot’ in quella bufalina;
(b) le aldolasi che, presenti come ‘tre spot’ ben definiti nella carne suina, sono concentrate in ‘unico grande spot’ in quella bufalina;
(c) la mioglobina che, presente sotto forma di un ‘unico spot’ nella carne suina è rappresentata da ‘due spot’ in quella bufalina.
Inoltre, per quanto attiene alla frazione proteica miofibrillare delle due ‘specie’, particolarmente interessante è la diversa eterogeneità osservata a livello delle catene leggere della miosina; le mappe bidimensionali suine mostrano una maggiore eterogeneità a carico delle catene leggere della miosina 2.
Di Luccia et al. (2005) e Picariello et al. (2006), discriminando l’azione enzimatica endogena e microbica sulla frazione miofibrillare e su quella sarcoplasmatica dei salumi ‘non fermentati’ e ‘fermentati’ , hanno osservato, nei prodotti fermentati, una evidente proteolisi della frazione sarcoplasmatica visibile nel prosciutto solo dopo 12 mesi di stagionatura. Questi risultati dimostrerebbero una maggiore suscettibilità della frazione proteica sarcoplasmatica e, per contro, una minore suscettibilità della frazione proteica miofibrillare all’azione degli enzimi microbici; fenomeno, che sembrerebbe ascrivibile alla maggiore idrosolubilità e quindi alla maggiore disponibilità delle proteine sarcoplasmatiche rispetto a quelle miofibrillari. Quest’ultime rappresentano, essenzialmente, il substrato selettivo degli ‘enzimi endogeni’ (catepsine B, D, H e L), i quali proteolizzando tali proteine conducono alla formazione di peptidi che, a loro volta, a opera degli enzimi microbici autoctoni o inoculati, vengono idrolizzati ulteriormente liberando aminoacidi responsabili del tipico flavour del prodotto finito; pertanto, la concentrazione di aminoacidi quali triptofano, tirosina e fenilalanina nel prosciutto dipende dall’attività proteolitica delle catepsine (Di Luccia et al., 2002; Sforza et al., 2001).
L’ eccessiva attività degli enzimi proteolitici lisosomiali e soprattutto dell’ enzima catepsina B è associata a un difetto nei prosciutti stagionati indicato come ‘mollezza dei prosciutti’ caratterizzato da una consistenza molle e accompagnato da sapore e da colore alterato (Parolari et al., 1994). Un’indagine sui fattori di variazione dell’attività enzimatica della catepsina B ha indicato una notevole variabilità dello stesso enzima nella razza Large White e ha messo in evidenza che parte di questa variabilità è attribuibile a polimorfismi genetici: presenza di 4 alleli che differiscono tra loro per mutazioni puntiformi (Russo et al. 2000). Per il difetto ‘mollezza dei prosciutti’, i segmenti di DNA codificanti gli enzimi lisosomiali e i loro inibitori, possono essere considerati candidati nell’influenzare in modo rilevante la variabilità della misura fenotipica dell’attività catepsinica. In aggiunta alla componente genetica, l’attività delle catepsine è influenzata anche da altri fattori.
Su prosciutti italiani (Parma, Parma disossato e San Daniele), per la catepsina H, è stata evidenziata la presenza di 6 differenti varianti molecolari, frutto di sostituzioni di aminoacidi e di modificazioni post-traduzionali, nonché la minore influenza del ‘diagramma di flusso’ sull’attività enzimatica; l’eterogeneità della catepsina H potrebbe essere utilizzata come marcatore molecolare per individuare il tipo genetico di provenienza utilizzato per la produzione di un prosciutto (Di Luccia et al., 2002).
Nel contesto della caratterizzazione dei prodotti alimentari derivanti da ‘specie animali’ diverse, le differenze in termini di numero di spot, nonché la diversità nell’ eterogeneità osservata nelle frazioni sarcoplasmatica e miofibrillare potrebbero essere considerate ‘elementi discriminanti’ per la tracciabilità di filiera utilizzabili eventualmente nell’identificazione dell’origine di un prodotto derivato. Inoltre, l’approccio proteomico si rivela un utile strumento nella ricerca di ‘marker molecolari’ come ‘indicatori’ del diagramma di flusso nella ‘conservazione’ e nella ‘stagionatura’ della carne.
In conclusione, dall’analisi della presenza e della funzione delle singole proteine nel muscolo infra vitam e durante il processo post mortem, si potranno trarre informazioni per lo sviluppo di metodi di miglioramento per la qualità della carne e per una produzione animale maggiormente sostenibile. 5.3.1.2. Cenni sul ‘Proteoma’ del ‘latte’
Le proteine del latte, sin dagli anni 50, sono state studiate con continuità. Negli ultimi anni, la conoscenza di questo complesso ‘sistema proteico’ è stata fortemente incrementata anche in concomitanza con i progressi della ‘proteomica’ la quale, consentendo l’analisi simultanea di proteine anche da miscele complesse, potrà facilitare l’ulteriore, e piú approfondita, conoscenza del ‘proteoma’ del latte.
La marcata relazione esistente tra le ‘varianti genetiche’ e le ‘varianti proteiche’ delle lattoproteine e le ‘caratteristiche casearie e non’ del latte ha reso, rende e renderà lo studio lattoproteico di fondamentale interesse. In linea di massima, l’applicazione della strategia ‘proteomica’ al latte ha un obiettivo generale declinabile nei seguenti punti:
(a) individuazione del grado di variabilità dei loci lattoproteici ;
(b) studio della relazione tra ‘polimorfismo’ e ‘qualità “casearia e non” del latte’;
(c) identificazione dei componenti il ‘caseoma’ quale espressione delle attività enzimatiche.
La continua scoperta di sempre piú numerose varianti genetiche e la crescente presenza di modificazioni post-traduzionali delle principali lattoproteine nonché i consistenti livelli di attività proteolitica responsabili dell’ottenimento di una vasta gamma di peptidi sollecitano una conoscenza sempre piú approfondita del ‘proteoma’ del latte; ‘proteoma’, che al pari di altri sistemi biologici, è ancora tutto da scoprire per trarre, poi, elementi utili per un loro trasferimento operativo. Infatti, un ‘livello addizionale di complessità’ deriva dalle molteplici proteine ‘scarsamente presenti’ la cui identificazione risulta problematica (O’ Donnel et al., 2004).
Per una migliore comprensione delle relazioni tra il polimorfismo di un dato locus e un ‘carattere’ d’ importanza economica è bene tener presente che, nei ruminanti, i quattro segmenti di DNA codificanti le caseine, sono organizzati in un cluster che nell’ordine include alfas1-caseina (CSN1S1), beta-caseina (CSN2), alfas2-caseina (CSN1S2) e kappa-caseina (CSN3); il ‘cluster caseinico’ è localizzato sul cromosoma 6 nei bovini (Ferretti et al., 1990; Threadgill e Womack, 1990), nei caprini (Vaiman, et al. 1996) e negli ovini (Broad et al., 1994).
I segmenti di DNA che codificano le caseine sono stati tra i primi a essere isolati e sequenziati interamente, a riprova del grande interesse scientifico ed economico che suscitano nell’ambito della produzione casearia. I progressi delle nuove metodiche analitiche in biologia molecolare hanno permesso di dare uno slancio alle ricerche e di ampliare le conoscenze del settore, mutandone l’approccio allo studio. Si è passati dall’analisi fenotipica del ‘prodotto di un segmento di DNA codificante polipeptide/i’ all’indagine a livello molecolare, dall’attenzione del genotipo al singolo ‘locus’ allo studio dell’ ‘aplotipo’.
La conoscenza a livello di ‘aplotipo’ si rivela valida per:
(a) il miglioramento genetico degli animali di interesse zootecnico;
(b) la salvaguardia della biodiversità esistente;
(c) la valorizzazione delle proprietà nutrizionali e casearie di alcuni ‘aplotipi’.
Il quadro ‘aplotipico’ è discriminante, tra l’altro, il tipo genetico (Matassino et al., 1993; Boettcher et al., 2004) e ciò determina una ‘difficoltà oggettiva’ nel comparare i risultati ottenuti in diversi tipi genetici; inoltre, nell'ambito di ogni popolazione, per fornire informazioni circa il reale effetto sulle produzioni si rende necessario, per ogni aplotipo, un ampliamento del numero di animali tipizzati. L'approccio alla metodica dei microarray per la attribuzione del genotipo ai loci lattoproteici costituirebbe, come precedentemente detto, un valido strumento in quanto permette di identificare genotipi globali in unica determinazione (De Bellis et al., 2002).
L’importanza di esaminare il ‘genotipo globale’ (Global-gen) ai loci lattoproteici, piuttosto che il genotipo al singolo locus, è stata già in passato evidenziata da Matassino et al. (1993) e da Zullo et al. (1994) per quanto concerne le relazioni tra polimorfismo lattoproteico, caratteristiche quali-quantitative e caratteristiche ‘lattodinamometriche’ del latte di bovini Frisona italiana e Bruna. Secondo questi Autori, a parità di Global-gen, le caratteristiche quali-quantitative e casearie del latte presentano valori statisticamente differenti tra Bruna e Frisona italiana dimostrando che lo stesso genotipo non si esprime allo stesso modo in entrambi i tipi genetici e suggerendo l’esistenza di meccanismi differenti soprattutto di natura ‘interativa’ tra i segmenti di DNA nei due tipi genetici.
Per esempio, il ‘genotipo globale’ BBA1A2BBBBBB [loci nell’ordine: alfas1-caseina (CSN1S1), alfas2-caseina (CSN1S2), kappa-caseina (CSN3), β-lattoglobulina (β-Lb) e α-lattoalbumina (α-La)], nella razza Frisona si esprime con un tenore in grasso pari al 3,30 %, mentre nella razza Bruna con un tenore pari al 3,66% (P<0,05); anche per quanto attiene alle proteine, da questo genotipo, si ottiene un incremento percentuale nella razza Bruna pari al 21% (P<0,01) passando il contenuto in proteina da un valore medio del 2,87% nella Frisona a un valore del 3,48% nella Bruna. Pertanto, per orientare la selezione verso valori ottimali di proteina, è necessario considerare, per ciascun tipo genetico, il Global-gen ‘ottimale’: a esempio, affinché si abbia una elevata percentuale di proteine nella razza Bruna bisognerebbe indirizzare la selezione verso il genotipo BBA1A2BBBBBB, mentre nella Frisona lo stesso effetto è raggiungibile orientando la selezione verso il Global-gen BBA1A2AABBAA che evidenzia un contenuto percentuale pari al 3,50%. Il differente comportamento di espressione nei due tipi genetici si manifesta anche per le caratteristiche lattodinamometriche[133]; infatti, entro il Global-gen BBA1A2BBBBAB, il valore di T e di K10 risultano mediamente inferiori nella Bruna rispetto alla Frisona con un decremento pari a 10’ (P<0,05) e a 6,5 (P<0,001), rispettivamente; il valore della consistenza del coagulo (a20), invece, risulta piú elevato nella Bruna rispetto alla Frisona (P<0,01).
La complessa problematica della stima del grado di relazione tra il ‘polimorfismo lattoproteico’ e caratteristiche chimiche e lattodinamometriche va affrontata ai ‘diversi livelli’ di ‘espressione genotipica’ e di ‘manifestazione fenotipica’ individuando i meccanismi di collegamento fra queste due ultime e ottimizzando il risultato del ‘sistema’ modificando ‘opportunamente’ il contributo del sistema stesso (Bettini, 1972; Matassino, 1978, 1983, 1985 e 1986; Pagnacco et al., 1983).
Partendo dalla consapevolezza che il 73 % del latte commercializzato in Italia viene impiegato per la trasformazione casearia, le proprietà del latte legate alla sua attitudine alla trasformazione assumono un ruolo di primo piano. Il latte per avere una buona ‘qualità casearia’ deve possedere determinate caratteristiche quali un buon contenuto di caseina, varianti potenzialmente favorevoli, un discreto contenuto di fosfato di calcio colloidale, un giusto grado di acidità titolabile, un moderato contenuto di cellule somatiche e un'ottima attitudine alla coagulazione; coagulazione intesa come buona reattività con il caglio, elevata capacità di rassodamento della cagliata e conseguente idonea capacità di contrazione ed eliminazione del siero, in modo da ottenere una massa caseosa strutturalmente omogenea, adeguatamente e uniformemente disidratata in tutte le sue parti; condizioni, queste, fondamentali affinché i processi fermentativi abbiano sia un avvio normale sia un andamento regolare durante l'intero periodo di maturazione del formaggio (Mariani et al., 1999).
Solo alcuni degli aspetti sopra citati possono essere affrontati nell'ambito dei programmi di selezione volti al miglioramento della ‘qualità casearia’ del latte: uno di questi è sicuramente quello del miglioramento della ‘frazione caseinica’ delle proteine. La varietà di isoforme in cui le principali proteine (in particolare le caseine calcio-sensibili) possono essere presenti nel latte è ampia. La presenza di isoforme ottenute da splicing ‘differenziale’ o da una diversa entità di modificazioni post-traduzionali nonché da una naturale attività proteolitica degli enzimi endogeni contribuisce a rendere il latte una miscela sempre piú complessa e interessante dal punto di vista nutrizionale, con proprietà ‘nuove’ o comunque da indagare ulteriormente.
Le caseine sono presenti nel latte sotto forma di un complesso organico e minerale ‘complesso proteico eterogeneo fosforilato e glicosilato’: la micella di diametro variabile (20÷600 nm) a sua volta costituita da particelle sferiche denominate submicelle[134]; dal punto di vista della composizione aminoacidica, le caseine si presentano ricche di prolina e di aminoacidi fosforilati mentre risultano relativamente povere di aminoacidi solforati (soprattutto cisteina). Tuttavia, considerando le proteine del latte nel loro complesso, questa carenza viene compensata dalla ricchezza in aminoacidi solforati delle sieroproteine.
Le caseine hanno la caratteristica di presentare, soprattutto nelle specie bovina e caprina, uno spiccato polimorfismo (tabella 6) che determina differenze nella struttura molecolare delle proteine la quale si traduce in differenze nelle proprietà fisico-chimiche e biologiche delle stesse proteine. Le diverse varianti genetiche possono non essere tutte presenti in una data popolazione e, se lo fossero, potrebbero differenziarsi per la loro frequenza; a questa diversificazione fa riscontro una differente presenza quantitativa a livello del singolo individuo; presenza che a livello di popolazione si concretizza in un ‘gradiente fenotipico’.
Il polimorfismo ai loci lattoproteici, con particolare riguardo a quelli caseinici, dimostra l’elevata eterogeneità della frazione proteica; da ciò scaturisce l’importanza delle indagini ‘genomiche’ e ‘proteomiche’ volte a individuare tale eterogeneità e a chiarire l’influenza di questa variabilità sulle proprietà ‘chimico-fisiche’ del prodotto ai fini di una migliore sua destinazione. Tali approfondimenti risulterebbero entrambi utili nel pianificare un miglioramento genetico della produzione di latte in grado di soddisfare le dinamiche e le diversificate richieste del mercato e del moderno consumatore (Matassino, 1992a).
Latte bovino. Le caseine presentano numerose varianti genetiche codificanti forme proteiche differenti per sostituzioni aminoacidiche che modificano la carica elettrica della proteina con evidenti ripercussioni su aspetti ‘funzionali’ e ‘produttivi’ (Marziali e Ng-Kwai-Hang, 1986; Mariani e Summer, 1999; Summer et al., 2002).
La alfas1-caseina è costituita da 199 aminoacidi e rappresenta circa il 35% delle caseine; a oggi, sono state individuate 8 varianti genetiche (A, B, C, D, E, F, G e H) e altrettante varianti proteiche (tabella 6); la variante B è la piú frequente nel Bos taurus. Gli alleli, a oggi identificati, sono associati a un ‘diverso livello di espressione’ e quindi a un ‘diverso contenuto di proteine presenti nel latte’; a esempio, il latte prodotto da soggetti portatori del genotipo BB al locus CSN1S1 fornirebbe una resa maggiore in formaggio mentre quello prodotto da soggetti GG fornirebbe una resa minore avendo il 55% di alfas1-caseina in meno (Aleandri et al., 1990; Mariani et al., 1995).
La alfas2–caseina, formata da 207 aminoacidi, è presente in ragione del 10 ÷15 % circa delle caseine totali. Finora sono state individuate 4 varianti genetiche (A, B, C, D) (tabella 6) di cui solo due, A e D, maggiormente presenti. La alfas2-caseina risulta essere quella maggiormente idrofila essendo costituita da tre cluster di gruppi anionici che, tra l’altro, rendono tale proteina piú sensibile al calcio e piú suscettibile alla proteolisi basata sull’attività della chimosina e della plasmina. L’attività della chimosina e della plasmina è responsabile del rilascio di ‘peptidi bioattivi’ di cui alcuni sono dotati di attività antibatterica (Zucht et al., 1995).
La beta-caseina, costituita da 209 aminoacidi, rappresenta circa il 30 ÷ 35% delle caseine totali. Essa ha un elevato polimorfismo: a oggi, sono state individuate ben 12 varianti genetiche a cui corrispondono altrettante varianti proteiche. Tale proteina è suscettibile all’azione della plasmina dalla quale si origina la ‘frazione gamma –caseina (g-Cn)’; tale frazione è costituita dalle componenti gamma 1 (29-209), gamma 2 (106-209) e gamma 3 (108-209) (Green e Foster, 1974; Gordon e Groves , 1975); la concentrazione di queste componenti aumenta sia nella fase di asciutta sia in un latte con cellule somatiche superiore alla norma. Dal momento che è stata osservata anche una significativa correlazione positiva tra ‘quantità dei frammenti di gamma caseina’ e ‘maturazione del formaggio’ (Parmigiano Reggiano e Grana Padano), la frazione gamma –caseina è da considerare un ‘marcatore molecolare di qualità’ (Addeo et al., 1994; Gaiaschi et al., 2000). Trieu Cuot e Addeo (1981) hanno evidenziato la formazione di una quarta componente della g-Cn nel latte bufalino, risultata della scissione della plasmina al sito Lys68-Ser69 della beta-caseina (Ferranti et al., 1998). Recentemente, l’approccio proteomico ha consentito di individuare questa quarta componente anche nel latte di bufala congelato e nella cagliata nonché di misurarne la concentrazione fornendo un nuovo indicatore di discriminazione fra il latte bufalino e il latte bovino ove questa componente è assente (Di Luccia, c.p. 2007).
La k caseina è una proteina costituita da 169 aminoacidi e svolge, per la sua idrofilicità, un ruolo importante nella stabilità della struttura micellare. Nel latte rappresenta circa il 12 ÷ 15 % delle caseine totali e presenta un elevato polimorfismo (tabella 6). La variante B svolge un ruolo fondamentale nella trasformazione casearia del latte. Infatti, come è noto, rispetto alla variante A, la B conferisce al latte un maggiore contenuto in k-caseina e una migliore attitudine alla trasformazione casearia: il latte coagula in tempi minori, il coagulo rassoda piú velocemente e ha una consistenza maggiore.
Come è noto, oltre alle caseine, vi sono altre proteine con peso molecolare inferiore, dette sieroproteine, che costituiscono il 17% circa delle sostanze azotate totali. Esse sono ricche in aminoacidi essenziali, e in particolare in aminoacidi solforati, e perciò vantano un elevato valore biologico che le rende particolarmente interessanti per la formulazione di integratori a uso umano. Le sieroproteine si ritrovano nel siero a fine lavorazione, e non concorrono, quindi, all’ottenimento del formaggio; nonostante ciò, anche alcune loro varianti giocano un ruolo importante nei riguardi delle caratteristiche casearie del latte. La principale sieroproteina è la beta-lattoglobulina assente nel latte umano; essa presenta 11 varianti genetiche (tabella 6) , tra le quali le piú frequenti sono la A e la B. I latti prodotti da soggetti portatori della variante B hanno un maggiore contenuto in caseina e un indice di caseina nettamente piú elevato (Aleandri et al., 1990). Il ruolo della beta-lattoglobulina non è ancora ben conosciuto; tuttavia, essa, allo stato nativo, è considerata il piú potente allergene del latte bovino (Natale et al., 2004).
Latte caprino. L’elevato numero di varianti genetiche e di varianti proteiche che si evince dalla tabella 6 evidenzia la complessità dell’analisi delle caseine nella specie caprina.
L’alfas1-caseina ha un elevato polimorfismo (Boulanger et al., 1984; Grosclaude et al., 1987; Brignon et al., 1989; Leroux et al., 1990; Martin e Leroux, 1994; Grosclaude e Martin, 1997; Bevilacqua et al., 2002; Ramunno et al., 2005) (tabella 6); i 17 alleli, a oggi identificati, sono associati a un ‘diverso livello di espressione’ e quindi a un ‘diverso contenuto di proteine presenti nel latte’ e sono raggruppabili, secondo Fox et al. (1992), in quattro classi:
(a) ‘forte’, comprendente gli alleli A, B1, B2, B3, B4, C, H, L, e M responsabili della produzione di almeno 3,5 g/l di alfa s1-caseina;
(b) ‘intermedia’, comprendente gli alleli E e I responsabili della produzione di almeno 1,1 g/l di alfas1-caseina;
(c) ‘debole’, comprendente gli alleli D, F[135] e G responsabili della produzione di almeno 0,45 g/l di alfas1-caseina;
(d) ‘nulla’, comprendente gli alleli 01, 02 e N che sono associati all’apparente assenza di alfas1-caseina.
L’ alfaS2-caseina ha un discreto polimorfismo (Lagonigro et al., 2004, Sacchi et al., 2005) (tabella 6); gli alleli, a oggi identificati, sono associati a un ‘diverso livello di espressione’ e sono raggruppabili, secondo Boulanger et al. (1984), Grosclaude et al. (1987), Lagonigro et al. (2001), Ramunno et al. (2001a e b), in tre classi:
(a) ‘normale’, comprendente le varianti A, B, C, E ed F responsabili della produzione di almeno ~2,5 g/l di alfas2-caseina;
(b) ‘intermedia’, comprendente la variante D responsabile della produzione di una quantità di alfas2-caseina minore di 2,5 g/l;
(c) ‘nulla’ , includente l’allele 0 associato a un ‘contenuto nullo’ di alfas2- caseina.
La presenza dell’allele ‘nullo’ influenza significativamente la composizione proteica del latte e il suo potere ‘allergenico’. Un test di allergenicità in vitro, condotto su latte prodotto da capre con diverso genotipo:
(a) omozigote normale (NN);
(b) eterozigote per l’allele nullo (N0);
(c) omozigote per l’allele nullo (00),
ha rivelato la maggiore allergenicità del latte prodotto da soggetti NN (Marletta et al., 2004).
La beta-caseina presenta un discreto polimorfismo (tabella 6) frutto di mutazioni puntiformi (Neveu et al., 2002; Chessa et al., 2005; Cosenza et al., 2005). Gli alleli A, B e C sembrerebbero essere associati a un normale contenuto della proteina. La variante C sembra essere predominante nelle razze caprine italiane (Chessa et al., 2005). In particolare, a tale locus sono stati identificati due diversi alleli ‘nulli’ influenzanti notevolmente la composizione del latte e l’attitudine alla caseificazione (Dall’Olio et al., 1989; Chianese et al., 1993; Mahè e Grosclaude, 1993; Ramunno et al., 1995; Grosclaude e Martin, 1997).
La kappa-caseina ha un elevato polimorfismo; i siti polimorfi identificati sono 13 (Jann et al., 2004) che tengono conto dell’identificazione di 14 varianti DNA corrispondente a 11 varianti proteiche. Recentemente Prinzenberg et al. (2005) hanno caratterizzato altre due varianti, denominate provvisoriamente X e Y, che rendono conto di 15 siti polimorfi per 16 varianti di DNA e 13 varianti proteiche. Le due nuove varianti sono caratterizzate da una transizione G ® A alla posizione 384 estrinsecantesi nella sostituzione amminoacidica Asp90®Asn90, rivelabile mediante elettroforesi, e una transizione C®T alla posizione 550, risultando in una sostituzione amminoacidica Val145®Ala145, elettroforeticamente silente.
Le principali sieroproteine (alfa-lattoalbumina e beta-lattoglobulina), di cui sono noti i dati strutturali, presentano sostituzioni puntiformi rispetto alle ortologhe bovine.
Nel tipo genetico Girgentana è stato riscontrato un contenuto percentuale variabile tra il 37 e il 57 % per l’alfa-lattoalbumina e tra il 43 e il 63% per la beta-lattoglobulina (Chianese et al., 2000).
Latte Ovino. Per il latte ovino è stato osservato un quadro proteico meno complesso (tabella 6). Ancora non è ben dimostrato l’associazione tra varianti genetiche e ‘diverso gradiente quantitativo di sintesi proteica’ (Erhardt, 1989; Chianese et al., 1996).
L’alfas1-caseina ha un elevato polimorfismo (tabella 6) frutto di sostituzioni aminoacidiche puntiformi e/o di delezione di peptidi nella catena proteica (Davoli et al., 1990; Ceriotti et al., 2004). La presenza dell’allele D, sia allo stato omozigote che eterozigote, ha una considerevole influenza sulla produzione di formaggio, essendo associata a una riduzione del contenuto in caseine e a un aumento dei tempi di coagulazione; il latte proveniente da soggetti CC presenta un contenuto caseinico maggiore del 3,5% rispetto a quello proveniente da soggetti CD e maggiore dello 8,5% rispetto a quello proveniente da soggetti DD; inoltre, il latte dei soggetti CC presenta un rapporto ‘proteina-grasso’ favorevole, un minore diametro delle micelle e quindi, una migliore attitudine alla coagulazione.
L’alfas2-caseina, a oggi, è caratterizzata da tre varianti genetiche e da altrettante varianti proteiche (tabella 6). Il polimorfismo proteico è stato identificato da Chessa et al. (2003) nella Gentile di Puglia; esso va caratterizzato con un approccio molecolare e va ulteriormente indagato in altri tipi genetici ovini.
La beta- e la kappa-caseina sono caratterizzate da tre e da due varianti genetiche, rispettivamente (tabella 6); per queste due proteine, a oggi, dalla letteratura consultata non emerge un polimorfismo proteico. Anche nel latte ovino, la beta-caseina è suscettibile all’azione della plasmina; l’attività di questo enzima aumenta nei latti prodotti da soggetti ‘mastitici’ e da soggetti ‘a fine lattazione’ rendendo maggiore la presenza della beta-caseina (e quindi di gamma-caseine) in tali latti.
Interessanti relazioni tra varianti genetiche lattoproteiche e caratteri di interesse economico sono stati descritti da Rampilli et al. (1992) e da Pirisi et al. (1999). Tali effetti convalidano e supportano l'importanza di indagare ulteriormente la base molecolare dei polimorfismi ‘caseinici’ e ‘non’ nella specie ovina.
Separazione e identificazione delle proteine. La complessa eterogeneità delle diverse frazioni caseiniche descritte è stata evidenziata mediante elettroforesi alcalina in prima dimensione e focalizzazione isoelettrica in seconda dimensione (Di Luccia et al. 1986; Chianese et al. 1995) ed è stata confermata, in diverse specie animali, anche dall’impiego di sistemi elettroforetici bidimensionali su gradienti di pH immobilizzati accoppiati alla spettrometria di massa (Galvani et al., 2000; Roncada et al., 2002; O’Donnell et al., 2004; Lindmark-Mansson et al., 2005). Con l’integrazione HPLC[136] - MALDI-TOF è possibile oggi evidenziare le diverse molecole co-migranti: nuove isoforme delle proteine sia nel latte di capra che in quello equino sono state infatti evidenziate (Egito et al., 2002; Miranda et al. 2004). Anche l’impiego combinato di RP-HPLC/ESI-MS[137] è risultato particolarmente utile nel rilevamento e nella caratterizzazione di componenti minori presenti in miscele proteiche complesse come il latte di capra (Galliano et al., 2004; Cunsolo et al., 2005 e 2006).
A oggi, un limite alla conoscenza del proteoma del latte di animali di interesse zootecnico è la scarsa presenza delle specifiche proteine nei database utilizzati come riferimento per l’identificazione al MALDI-TOF[138]; limite che è ancor piú evidente nell’analisi di proteine che, pur ‘scarsamente presenti’, hanno un ruolo non trascurabile nel biochimismo cellulare. L’identificazione di proteine ‘scarsamente presenti’ nel latte è, dunque, particolarmente problematica e richiede strategie operative che ne migliorino la risoluzione.
Per ridurre questo limite di conoscenza, specialmente a livello di peptide, si sta ricorrendo a strategie operative adeguate. L’applicazione delle procedure di ‘prefrazionamento’ e di ‘separazione multipla’ abbinate alle diverse ‘tecniche della spettrometria di massa’ rappresentano e rappresenteranno sempre piú le ‘chiavi di successo’ per la proteomica del latte. A esempio, l’immunoassorbimento[139], attuato da Yamada et al. (2002) su colostro e su latte bovino, ha permesso di rilevare e di identificare molte proteine ‘scarsamente presenti’ quali l’ apolipoproteina H.
Anche l’analisi di compartimenti subcellulari, a oggi realizzata con l’impiego di varie strategie di solubilizzazione, sta diventando sempre piú attuale al fine di indagare la composizione proteica di alcune strutture cellulari; un esempio è dato dallo studio delle proteine della membrana dei globuli di grasso nel latte; proteine, che nel latte umano, rappresentano il 2÷4% del contenuto proteico totale e la cui composizione è ancora sconosciuta (Cavaletto et al., 2002).
La limitata conoscenza dei vari ‘proteomi’ di un latte sta a evidenziare la necessità di un notevole ampliamento degli studi del settore per quanto concerne sia l’individuazione di ‘metodiche sofisticate’ (ma semplici da applicare) sia l’evidenziazione di proteine, relative isoforme e loro frammenti.
E’ verosimile che le tecniche di 2D-PAGE, in accordo con O’ Donnell et al. (2004), continueranno ancora a dominare l’analisi proteomica del latte per qualche tempo; esse, con la loro alta risoluzione, dovranno consentire una migliore separazione di isoforme proteiche dalle piú lievi differenze. Questa separazione è da considerare elemento ‘chiave’ nell’individuazione del ‘proteoma’ di un latte individuale e, in particolar modo, nella conoscenza della variabilità a livello di popolazione; variabilità che, conosciuta nelle sue componenti, costituisce la base per una successiva sua utilizzazione ai fini del miglioramento genetico.
Le precedenti tecniche vanno opportunamente integrate con la conoscenza delle modificazioni post-traduzionali, specialmente nel settore lattiero-caseario. Queste modificazioni post-traduzionali (fosforilazione[140], glicosilazione[141], lattosilazione[142]) riguardanti primariamente, ma non esclusivamente le caseine, vengono studiate con l’impiego della proteomica (Martin et al., 2002); le fosfovarianti sono, infatti, distinguibili sulla 2D-PAGE; anche le glicovarianti sono distinguibili impiegando l’analisi 2D-PAGE e MALDI-TOF.
Holland et al. (2004) hanno identificato 10 diverse glicoforme di k-caseina permettendo anche di verificare la presenza e la quantità di fosforilazione a carico di ciascuna glicovariante separata dalla 2D-PAGE.
Alla luce dei suddetti risultati si evidenzia la potenzialità della proteomica al fine di comprendere i vari cambiamenti a carico della struttura di proteine del latte dovuti alle varie fasi del ‘diagramma di flusso’ o processo di lavorazione a cui è sottoposto un latte. E’ indubbio che questi processi possono influenzare le caratteristiche nutrizionali, extranutrizionali, salutistiche e sensoriali del latte.
L’‘approccio differenziale’[143] può rappresentare uno step semantico ai fini del miglioramento della comprensione del biochimismo cellulare. L’approccio, fra l’altro, è stato impiegato da Baeker et al. (2002) per analizzare il latte di bovine ‘sane’ o ‘affette da mastite’ rilevando, durante l’infezione, un marcato incremento di 4 proteine identificate come componenti del complesso proteico ‘prostaglandina sintetasi (PGDS)’; pertanto, l’impiego della determinazione dei livelli di PGDS, come biomarker per la mastite bovina, è da considerare un valido trasferimento operativo.
L’utilizzo di metodiche proteiche in grado di rilevare la presenza di lattoproteine a elevata omologia costituisce, fra l’altro, uno strumento di tracciabilità e di rintracciabilità di prodotti derivati dal latte utile, tra l’altro, a individuare l’origine del latte e quindi ‘eventuali frodi’.
Roncada et al. (2002) hanno utilizzato un ‘approccio differenziale’ nella valutazione di differenti latti di capra per i livelli di espressione dell’as1-caseina: il latte prodotto da animali portatori di alleli ‘nulli’ per l’alfas1-caseina (L0), paragonato a quello prodotto da animali caratterizzati da alleli ‘forti’ (LF), risulta privo di as1-caseina e contiene quantità minori delle altre caseine. Pertanto, grazie anche alla caratterizzazione proteomica del latte è possibile selezionare soggetti portatori di alleli ‘vantaggiosi’ a seconda della destinazione del latte:
(a) animali portatori di alleli ‘deboli’ o ‘nulli’ per l’alfas1-caseina , fornendo un latte con minore o nullo tenore caseinico, sarebbero piú idonei a produrre un latte da destinare al consumo diretto dell’infante per il suo ‘ridotto potere allergenico’;
(b) soggetti portatori di alleli ‘forti’ sarebbero piú idonei a produrre latte particolarmente vocato alla trasformazione casearia.
La richiesta di ‘alimenti’ ‘funzionali’ al ‘benessere’ è sempre crescente. Nell’ambito del miglioramento genetico, per far sí che questa domanda sia soddisfatta, l’individuazione di nuovi obiettivi di selezione può apportare un grande contributo. Il processo di rinnovamento degli indici di selezione, volto a introdurre manifestazioni fenotipiche inerenti alla ‘funzione’, è in atto. Il conseguimento di questi obiettivi, tuttavia, necessita di continue conoscenze di base relative a parametri genetici dei ‘caratteri’ considerati e all’effetto dei principali fattori ambientali che agiscono sulla variabilità degli stessi.
Migliorare le conoscenze sulle relazioni tra ‘varianti genetiche’ e ‘varianti proteiche’ e ‘caratteristiche casearie e non’ del latte consentirebbe di agevolare la valutazione ‘dell' attitudine alla caseificazione’ e ‘della qualità nutrizionale, extranutrizionale e salutistica’ del latte fornendo agli operatori gli strumenti adatti per operare un corretto lavoro di selezione nelle popolazioni per questi caratteri. 6. Conclusioni
1. La genomica e la proteomica funzionali costituiranno sempre di piú un prodromo fondamentale per capire il remoto e complesso biochimismo presente nella poliedrica vita di una cellula di un qualsiasi essere vivente.
2. Il miglioramento genetico di una biopoiesi non può prescindere dal progredire di tali conoscenze, specialmente se viene implicato l’ ‘aspetto fenotipico’ della ‘qualità’ del prodotto, considerata nei suoi molteplici e innumerevoli effetti sul ‘benessere del consumatore’. Questi effetti dipendono dal ruolo che i componenti ‘nutrizionali’, ‘extranutrizionali’ e ‘salutistici’ del prodotto di origine animale svolgono una volta ingeriti.
3. L’uomo non può essere considerato un’entità biologica ‘invariante’ nel tempo e nello spazio, ma un ‘essere vivente’ che richiede, lungo l’arco della sua vita (dall’embrione al feto al bambino all’adolescente all’adulto all’ultrasessantenne all’ultraottantenne all’ultracentenario), un ‘regime alimentare’ diversificato al quale il ‘sistema allevatoriale’ deve rispondere con oculatezza, con competenza e con convinzione; la risposta del ‘sistema allevatoriale’ è ancora piú impegnativa se si considera che il regime alimentare varia anche in relazione ad alcune funzioni ‘biologiche’ (gravidanza, allattamento, attività agonistica, ecc.) e ‘intellettuali’ esplicate quotidianamente.
4. Il futuro del ‘miglioramento genetico degli animali in produzione zootecnica’ (MGAPZ) non può prescindere da una ‘visione sistemica’. La variabilità di una ‘manifestazione fenotipica’ o ‘attributo’ in termini cibernetici porta a considerare qualunque variazione oltre che sotto l’aspetto statico anche sotto quello dinamico; l’aspetto statico va posto in termini di categoria aristotelica tassonomica mentre quello dinamico è oggetto di studio dello zootecnologo, il quale è molto piú interessato alla natura di questa variabilità; di qui l’utilità di una visione sistemica che parte dall’animale e va all’agroecosistema.
5. Considerazioni economiche, tecniche e genetiche interferiscono direttamente o indirettamente con il MGAPZ.
6. L’‘arsenale molecolare’ dell’animale in produzione zootecnica è la ‘dote’ per raggiungere ‘traguardi biopoietici innovativi e utili’ specialmente per l’aspetto salutistico del consumatore che deve essere considerato un vero e proprio ‘ co-produttore’.
7. Il ‘sistema allevatoriale’ e/o il ‘singolo allevatore’, operando secondo questa strategia, partecipa/ano pienamente all’ ‘evoluzione costruttiva’ dell’intero ‘sistema’.
8. Le nuove conoscenze evidenziano che i meccanismi molecolari alla base della vita sono integrati in sistemi complessi che funzionano ‘olisticamente’. La biologia del ‘2000’ si sta qualificando principalmente come settore ‘biologico-molecolare’, ove la conoscenza di un ‘carattere’ o ‘manifestazione fenotipica’ nella sua ‘struttura’ e nella sua ‘funzione’ è fondamentale se non indiscussa. Il ‘carattere’ è funzione degli effetti di diversi piani organizzativi: submolecolare, molecolare, cellulare, tissutale, organico, organismico, biocenotico, ecosistemico; ogni piano è caratterizzato da norme proprie e da norme di vita di relazione con altri piani. A ogni successivo livello di organizzazione la complessità strutturale e funzionale aumenta, arricchendosi ‘epigeneticamente’.
9. L’ innovazione si basa su una ‘genomica’ ove non sono piú i soli segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ (cosiddetti ‘geni’) gli ‘unici protagonisti’ del processo ereditario ma anche le ‘reti regolatrici’ che ne governano l’espressione; espressione che si concretizza in una ‘manifestazione fenotipica’, la quale altro non è se non il prodotto di una attività sistemica del DNA.
10. ‘Segmenti di DNA’ e ‘proteine’ vanno considerati come componenti insostituibili di una vera e propria ‘rete cibernetica di informazione’, ove i segnali dell’ambiente ‘interno’ ed ‘esterno’ all’organismo nella regolazione di un meccanismo ‘molecolare-cellulare-biologico’ evidenziano che l’’ambiente’ e l’ ‘organismo’ costituiscono un’ ‘unità’ sempre meno inscindibile. Pertanto, alla luce dell’impostazione sistemica, qualsiasi essere vivente può essere considerato un organismo ‘cibernetico’ identificabile con un vero e proprio ‘sistema biologico, aperto, dinamico, vincolato, neghentropico’.
11. La singola cellula non funziona, normalmente, come un semplice ‘sistema a cascata’ (dal ‘genotipo’ al ‘fenotipo’), ma come un ‘sistema complesso’. Con particolare riferimento agli aspetti funzionali del genoma, la rete di messaggi molecolari in un organismo può essere paragonata a un ‘sistema di circuiti’ in cui i segmenti di DNA con funzione regolativa agiscono da ‘commutatori ‘o da ‘interruttori’ (switch) che ‘accendono’ o ‘spengono’ l’attività trascrizionale del DNA. Questi interruttori ricevono messaggi di ingresso (input) dall’ambiente extra e intracellulare e rispondono con messaggi di uscita (output) che si concretizzano nell’espressione del segmento di DNA interessato.
12. I componenti del genoma opererebbero attraverso cascate di segmenti di DNA codificanti organizzate in reti (‘network’) molto complesse. La sequenza temporale di attivazione dei vari segmenti di DNA è, indiscutibilmente, legata alla ‘stabilità’ dell’informazione che decade universalmente e progressivamente nel tempo, poiché il tempo ‘biologico’ viene consumato e non sostituito; ciò comporta come ‘effetto finale’ un esaurimento dell’arsenale di cui l’individuo è in possesso.
13. La ‘dinamica del fenomeno della complessità’, legata anche alle continue acquisizioni della genomica e della proteomica, evidenzia l’esigenza di una visione sempre piú integrata ‘genotipo –fenotipo’ nel funzionamento di qualsiasi ‘entità biologica’.
14. Si ritiene che la maggioranza dei ‘segmenti’ a comportamento ‘pleiotropico’ interessi soprattutto quelli coinvolti nello sviluppo e nelle risposte ormonali. La base ‘pleiotropica’ di alcuni fenotipi quali a esempio la ‘doppia muscolatura’ evidenzia l’importanza di verificare gli effetti fenotipici multipli quando si intraprendono programmi di selezione tendenti al miglioramento del rapporto ‘massa muscolare’/‘grasso’ affinché non siano compromessi altri aspetti produttivi e/o riproduttivi influenzati dalla pleiotropia.
15. Il concetto di ‘norma di reazione’ non va considerato come l’espressione statica del cambiamento di un ‘carattere’ (o ‘manifestazione fenotipica’) ma come un fenomeno dinamico che si verifica in un determinato contesto microambientale sotto l’azione del ‘genoma’. Stimoli ambientali possono portare alla espressione di una ‘variabilità genetica latente’ e i fenotipi relativi, sortiti dall’ambiente dopo lo ‘screening’ effettuato dalla selezione naturale, possono essere ‘assimilati geneticamente’.
16. L’‘assimilazione genetica’ e la ‘capacitazione’ sono indicative della importanza di mantenere elevato il livello di biodiversità quale strumento principe che permette alla natura di sincronizzarsi alla velocità dei cambiamenti ambientali; pertanto, la biodiversità è da considerarsi contemporaneamente sia anello di congiunzione con il passato sia base del divenire biologico; ogni essere vivente possiede una propria individualità che viene ‘codificata’ nel proprio ‘genoma’ e viene ‘costruita epigeneticamente’.
17. Qualunque ‘filiera produttiva’ basata sulla utilizzazione dell’animale in produzione zootecnica ha le sue fondamenta sulla relazione tra
‘biologia’ e ‘poiesi’. La conoscenza delle interazioni tra le caratteristiche molecolari ‘peculiari’ dei tipi genetici autoctoni, specialmente antichi (TGAA), e le caratteristiche del bioterritorio in cui essi sono inseriti è fondamentale per il continuo miglioramento quali-quantitativo di una ‘biopoiesi’.
18. La complessità dell’espressione fenotipica ‘produttività’ suggerisce una revisione nel modo di considerare la ‘manifestazione fenotipica’ o un ‘carattere’ in un piano di miglioramento delle prestazioni degli animali in produzione zootecnica ; in tale contesto, il ‘carattere’ va inteso come una manifestazione di un particolare aspetto del fenotipo visto anche sotto un profilo ‘tecnologico’ e , pertanto, non solo ‘biologico’.
19. E’ noto che il codice genetico è protetto da sistemi di informazione, di controllo e di retroazione. La ‘costruzione’ di un ‘fenotipo’ si realizza secondo livelli diversi di retroazione ‘positiva’ e ‘negativa’, fortemente influenzati da fenomeni epigenetici dovuti a fattori sia esogeni che endogeni responsabili di un vero e proprio ‘epigenotipo’ in base al quale l’individuo non sarebbe un semplice mosaico di caratteri controllati dai segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’, ma un sistema caratterizzato da mutue interazioni e da equilibri tra forze opposte.
20. E’ noto che i vari ‘caratteri’ o ‘manifestazioni fenotipiche’ (comprese quelle comportamentali) di un organismo vivente sono ampiamente sottoposti all’effetto di una diversificata serie di ‘vincoli’ (constraint) i quali, universali e fortemente interconnessi alle caratteristiche chimico- fisico-biologiche di qualsiasi essere vivente, agirebbero determinando sia i limiti che le forme di ogni processo evolutivo. Indubbiamente, questi vincoli interagiscono con la ‘selezione’, sia naturale che zootecnica; la relazione tra ‘selezione’ e ‘constraint’ è ‘reciproca’; questa ‘reciprocità’ può condurre al sorgere di nuovi ‘fenotipi ereditabili’. Si può sinteticamente ritenere che i vincoli costituiscono una vera e propria rete che opera direttamente o indirettamente nell’influenzare una manifestazione fenotipica di un essere vivente ove ‘l’irruducibile complessità’ riveste un ruolo non eludibile. Tutte le manifestazioni fenotipiche plausibilmente sarebbero il risultato di una manifestazione istruttiva dell’influenza dei constraint; operatività da ritenere il risultato dell’importanza di meccanismi epigenetici nel promuovere o meno una vera attività costruttiva ‘epigenetica’, la quale precederebbe la fase ‘selettiva’ nel senso che favorirebbe gli organismi piú consoni a evidenziare la loro ‘capacità al costruttivismo’ (adattamento). A oggi, non è possibile definire unilateralmente il significato di constraint. Probabilmente, i constraint operano in base a una complessa rete di cause che si influenzano reciprocamente in modo probabilmente bidirezionale e gli effetti, a loro volta, sono origine causale di altri effetti. Il modello ipotizzato si concretizza nel considerare l’interesse crescente dei ‘vincoli’ nell’evoluzione; evoluzione che è sintetizzabile in due momenti (‘costruttivo-organismico’ e ‘selettivo-popolazionistico’) i quali si alternano e interagiscono a ogni generazione o, meglio, a ogni variazione unitaria della media di generazioni presenti essendo la popolazione genetica normalmente a generazioni sovrapposte, con una tappa di olismo continuo, il tutto operando secondo una funzionalità polare o una rete dei vari constraint.
21. Il DNA sarebbe solo un genoma ‘virtuale’ nel senso che esso non specificherebbe ‘direttamente’ il fenotipo, ma solo il ‘possibile’ fenotipo attraverso gli RNA.
22. Il ‘codice genetico’ può essere ritenuto il ‘prototipo’ di infiniti sistemi di vita fortemente flessibili grazie all’influenza dei fattori epigenetici che sono identificabili con le interazioni ‘genotipo-ambiente’. Il ‘sistema epigenetico’ regola l’ espressione dei segmenti di DNA nella fase sia pre-trascrizionale che post-trascrizionale.
23. L’epigenetica costituisce quella che potrebbe essere definita una ‘onnipervasiva collaborazione tra genotipo e fenotipo’. Uno ‘stato epigenetico’ può essere trasmesso ai discendenti anche se con ereditarietà diversa da quella mendeliana.
24. Gli effetti epigenetici ereditabili si possono identificare anche con la ‘epimutazione’ e con la ‘paramutazione’ (a esempio, ‘superdominanza polare’).
25. Il ‘sistema polifenico’ può contribuire ad accrescere le conoscenze in merito agli effetti delle interazioni ‘genoma-ambiente’.
26. Il comportamento ‘temporale’, sia qualitativo che quantitativo, di ogni segmento di DNA codificante è funzione anche della ‘cronogenetica’; pertanto, tale ‘segmento’ possiede anche una ‘quarta dimensione’ che caratterizza la ‘durata’ (‘chronon’) e la stabilità (‘ergon’) della sua informazione; conseguentemente, nella variabilità della genetica formale è da considerare anche quella ‘temporale’.
27. A livello sia ‘individuale’ che ‘popolazionistico’ si verificano manifestazioni ripetitive molto vicine temporalmente entro una ‘famiglia’ (gruppo etnico legato da un certo grado di parentela) che possono essere definite ‘isocronismo familiare’. La ritmicità dei fenomeni biologici è influenzata da fattori sia ‘interni’ (periodicità endogena) che ‘esterni’ (sincronizzatori); queste variazioni ritmiche sono regolate e coordinate da ‘orologi biologici’ (rilascio ormonale, sonno-veglia, ecc.); i vari ‘modelli di funzione biologica’ costituiscono esempi validi (‘accrescimento’, ‘ciclo riproduttivo’, ‘galattopoiesi’ individuale e/o di popolazione, ‘ovodeposizione’, ‘sviluppo’, ecc.).
28. Il ‘funzionamento del DNA’ può essere considerato di tipo ‘universale’, specialmente per quanto riguarda gli eucarioti; pertanto, i meccanismi scoperti nell’uomo di genomica ‘strutturale’ e ‘funzionale’ rappresentano un ‘modello estensibile’ quasi certamente agli animali in produzione zootecnica, con particolare riguardo a quelli che occupano un gradino piú elevato nella scala tassonomica. Dal sequenziamento del genoma umano e dal continuo aggiornamento dei dati scaturiscono molti piú interrogativi di quelli a cui si pensava di poter trovare una risposta.
29. Il confronto fra i genomi, a oggi sequenziati, sta evidenziando che organismi differenti condividono per lo piú gli stessi segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’.
30. L’elevato grado di omologia esistente tra i genomi lascerebbe supporre che ‘manifestazioni fenotipiche’ anche molto complesse, proprie degli organismi che occupano un gradino elevato nella scala evolutiva, dipenderebbero non tanto dalla comparsa di ‘nuovi’ segmenti di DNA, cioè di segmenti differenti per sequenza nucleotidica ma, probabilmente, dalla diversità nelle funzioni che gli ‘stessi segmenti’ esplicano soprattutto nella dimensione ‘spazio-tempo’ entro la specie.
31. La struttura di un segmento di DNA e la sua localizzazione cromosomica influenzano il repertorio delle interazioni fra il DNA e l’ambiente (endogeno ed esogeno) cellulare conferendo contemporaneamente un’accurata sensibilità a un qualsiasi organismo vivente nei confronti dei cambiamenti ambientali.
32. L’evoluzione ‘concertata’, nota anche come ‘deriva molecolare’, costituisce uno strumento naturale in grado di favorire il funzionamento di dinamici meccanismi legati a constraints (vincoli) genetici. I segmenti di DNA sono anche soggetti a ‘riarrangiamento’ a causa della trasposizione di una sequenza mobile (‘trasposone’) e/o di uno scambio cromatidico ineguale (SCI). Un ‘riarrangiamento’ spontaneo di segmenti di DNA si ha anche, probabilmente, con il verificarsi del fenomeno della traslocazione robertsoniana; quella 1;29 (rob 1;29), a oggi, sembrerebbe la piú frequente nei bovini. Questa traslocazione comporterebbe effetti positivi su alcuni parametri nella produzione della carne: maggiore ‘incremento ponderale giornaliero medio’, migliore ‘conformazione delle masse muscolari’, miglioramento ‘quali-quantitativo dei tagli carnosi’.
33. Il livello di funzionalità del segmento di DNA è fondamentale ai fini della riduzione dei cosiddetti ‘errori di copiatura’ dello stesso DNA. Effetti di questi errori possono essere la formazione di ‘pseudogeni’ e la possibilità di aumento della variabilità sia di genotipi che di fenotipi. Uno ‘pseudogene’ può esplicare un’attività sia di controllo dell’intensità di espressione sia di riparazione o recupero (back-up) del segmento di DNA codificante ‘polipeptide/i’ vero.
34. La concentrazione di trasposoni in determinate regioni del DNA (promotrici, introniche, ecc.) può esplicare un effetto sulla produzione quali-quantitativa del latte.
35. Sempre piú interessante anche ai fini biopoietici è la continua conoscenza della ‘fisiologia’ dell’RNA grazie all’approccio molecolare (a esempio, microarray); fisiologia che si concretizza in una vera e propria funzione ‘regolativa’ dell’RNA. Infatti, l’uso di questa metodica e di altre stanno permettendo al settore zootecnico di ampliare notevolmente la base per comprendere molti meccanismi e processi fisiologici complessi e influenzanti particolarmente una prestazione zootecnica di un soggetto allevato (biopoiesi, ecc.).
36. Le risultanze acquisibili grazie alla biologia molecolare di approccio di tipo sistemico costituiscono e costituiranno sempre di piú uno strumento indispensabile nell’utilizzazione della selezione o della introgressione assistita dal molecolare (SAM e IAM).
37. La funzione regolatrice e quella codificante ‘polipeptide/i’ di brevi segmenti di DNA influenzano sia la modalità di espressione che la conseguente variabilità di una ‘manifestazione fenotipica’, come a esempio la scoperta di mutazione puntiforme.
38. Nel vasto panorama ancora poco conosciuto del funzionamento di un genoma, la nutrigenetica è fortemente da considerare ai fini di incrementare l’efficienza del sistema biologico dell’animale in produzione zootecnica; nutrigenetica che, indiscutibilmente, è da integrare con la farmacogenetica.
39. Le continue acquisizioni nel complesso funzionamento del DNA stanno contribuendo notevolmente a ottenere animali, specialmente d’interesse zootecnico, portatori di sequenze nucleotidiche: (a) ‘non funzionali o silenziate’ che altrimenti sarebbero responsabili di anomalie e/o di patie; questa condizione si realizza mediante: (i) ‘knock down’: perdita funzionale non associata all’alterazione strutturale (‘silenziamento’) della sequenza interessata; nelle specie bovina e caprina il ‘silenziamento’ del segmento codificante la proteina prionica ‘normale’ è responsabile di una considerevole riduzione della sintesi di detta proteina; (ii) ‘knock-out’: perdita funzionale per alterazione strutturale (‘modificazione’) della sequenza interessata; nella specie bovina questa ‘perdita funzionale’ è evidenziata dall’assenza di propagazione della proteina prionica ‘patogenetica’ nel tessuto nervoso di soggetti resi ‘knock out’ per il segmento codificante la proteina prionica ‘normale’; entrambi i metodi (‘knock down ‘ e ‘knock-out’) rappresentano tappe fondamentali di un percorso di profilassi nei confronti della BSE; (b) dotate di una funzione ‘nuova’ nel senso che gli animali sono transgenici e forniscono latte e uova contenenti proteine ‘ex novo’ funzionali al benessere dell’uomo o dell’animale , a esempio molecole ‘farmaco’: fattori di coagulazione, proteina C, antitrombina III, fibrinogeno, albumina umana, ecc..
40. Nell’ era post-genomica, raccordare la genomica alla proteomica diviene sempre piú ‘cogente’, soprattutto alla luce della potenzialità che la stessa integrazione ‘genomica-proteomica’ è in grado di offrire.
41. La proteomica, quale identificazione e caratterizzazione del ‘proteoma’, rappresenta un’importante pietra miliare dell’ era post-genomica. Il ‘proteoma’ può essere inteso come ’insieme delle proteine nonché delle relative isoforme multiple e dei loro frammenti presenti in una cellula o in un organismo o in un sistema biologico in ogni istante del proprio ciclo vitale.
42. La conoscenza del proteoma contribuisce, per esempio alla: tipizzazione della biodiversità; individuazione di marcatori molecolari di ‘unicità’ genetica (a livello di singolo individuo) e di ‘specificità’ (a livello di prodotto) per meglio definire la ‘qualità nutrizionale’, ‘extranutrizionale’ e ‘salutistica’ di un alimento e del suo livello di ‘sicurezza alimentare’; identificazione di proteine ‘nuove’.
43. Grazie all’integrazione ‘genomica-proteomica’ è stato acclarato che:
(a) l’assioma ‘un gene – una proteina’ non è sempre valido;
(b) la concentrazione di una proteina non è sempre correlata in maniera semplice all’attività trascrizionale del corrispondente segmento di DNA;
(c)
(r)
(s)
(t)
(u)
(v)
(w)
(x) l’azione dei segmenti di DNA con ‘effetto pleiotropico’ influenza molteplici manifestazioni fenotipiche, tra cui, a esempio, l’accrescimento e lo sviluppo muscolare;
(y)
(z)
(aa)
(bb)
(cc)
(dd)
(ee)
(ff)
(d)
l’ approccio di ‘genomica funzionale’ non riesce a fornire indicazioni sulle modificazioni che avvengono ‘a valle della trascrizione’.
44. Sulla base delle precedenti considerazioni, si arguisce che una cellula non ha un ‘proteoma’ unico e costante nel ‘tempo’ e nello ‘spazio’; pertanto, sarebbe preferibile parlare di tanti ‘proteomi’ quante sono le differenti condizioni cellulari e le diversità cellulari; un ‘proteoma completo’ di un organismo andrebbe immaginato come un ‘insieme globale di tutti i proteomi cellulari’ in un quell’istante in un determinato microambiente.
45. L’ ‘interazione genoma- ambiente interno e/o ambiente esterno’ è responsabile della genesi di un proteoma ‘dinamico’ e ‘complesso’.
46. La complessità proteica è sintetizzabile in: ‘polimorfismo’ per la presenza di varianti proteiche quali espressione di mutazioni a carico di loci (associati o non); ‘versatilità’ (variabilità funzionale); ‘flessibilità’ (variabilità strutturale). Queste proprietà, le ultime due in particolare, consentono alle proteine di comunicare tra loro oltre che con altre biomolecole, nonché di assolvere a numerose funzioni: catalitica, immunitaria, metabolica, protettiva, regolatrice, strutturale, trasportatrice, ecc..
47. Lo studio della ‘funzione biologica’ di una proteina è oggetto della proteomica funzionale che permette di: individuare la funzione biologica di una proteina ancora sconosciuta, comprendere la funzione biologica di una proteina nota, definire i meccanismi molecolari che regolano le funzioni cellulari piú importanti, identificare le interazioni ‘proteina-proteina’ nella formazione di complessi funzionali.
48. L’approccio proteomico alla ‘biologia riproduttiva’ apre ampie prospettive; a esempio, potrebbe aiutare a risolvere alcuni problemi importanti di infertilità sia maschile che femminile o taluni problemi derivanti dall’ interazione del materiale seminale con i vari ‘tratti’ dell’apparato genitale femminile, nonché predire la fertilità dei ‘giovani tori’ da includere nel ‘progeny test’, permettendo una maggiore accuratezza nello scarto.
49. Nel settore agro-alimentare, le potenzialità e le prospettive offerte dalla proteomica stanno contribuendo a fornire approfondite conoscenze a livello molecolare dei ‘peculiari nutrienti’ caratterizzanti uno specifico alimento; pertanto, essi fungono da veri e propri ‘marcatori biochimici’ che, unitamente ad altri ‘parametri di qualità’ (fisici, chimico-fisici, microbiologici, fisiologici e chimici), contribuiscono a: (a) individuare le ‘specificità bioterritoriali’, (b) definire le caratteristiche ‘nutrizionali’, ‘extranutrizionali’ e ‘salutistiche’, (c) sviluppare test analitici validanti l’ ‘autenticità e l’ ‘originalità’ dei prodotti alimentari’, (d) individuare lo stato di ‘normalità’ delle sequenze delle varie fasi di una filiera produttiva; pertanto, questi ‘biomarcatori’ contribuiscono notevolmente all’applicazione del Regolamento dell’Unione Europea ‘Health and Nutrition Claims’ entrato in vigore il 19 gennaio 2007.
50. La proteomica sta contribuendo notevolmente alla conoscenza dei complessi meccanismi molecolari influenzanti l’accrescimento e lo sviluppo muscolare, specialmente in relazione alle caratteristiche qualitative della carne in quanto la variazione del metabolismo e del biochimismo muscolare influenza la ‘degradomica’ proteica, che è funzione sia del tipo genetico che del ‘diagramma’ del flusso produttivo.
51. Nella produzione lattea, l’approccio proteomico permette di: individuare il grado di variabilità dei loci lattoproteici; meglio conoscere la relazione tra ‘polimorfismo’ e ‘qualità ‘casearia’ e ‘non’ del latte’; identificare i componenti il ‘caseoma’ quale espressione delle attività enzimatiche.
52. A oggi, un limite alla conoscenza del proteoma degli animali di interesse zootecnico è la scarsa presenza delle specifiche proteine nei database utilizzati come riferimento per l’identificazione.
53. La richiesta di ‘alimenti’ ‘funzionali’ al ‘benessere’ è sempre crescente. Nell’ambito del miglioramento genetico, per far sí che questa domanda sia soddisfatta, l’individuazione di nuovi obiettivi di selezione può apportare un grande contributo. Il processo di rinnovamento degli indici di selezione, volto a introdurre manifestazioni fenotipiche inerenti alla ‘funzione’, è in atto. Il conseguimento di questi obiettivi, tuttavia, necessita di continue conoscenze di base relative a parametri genetici dei ‘caratteri’ considerati e all’effetto dei principali fattori ambientali che agiscono sulla variabilità degli stessi.
54. Le nuove frontiere della selezione diventeranno sempre piú ampie, ma anche piú complesse; non è piú rinviabile la valutazione dell’ ‘efficienza biologica’ dell’animale, variabile in relazione alle peculiari caratteristiche del microambiente di allevamento.
55. Il continuo innovarsi delle procedure di indagine della sostanza vivente, grazie specialmente all’apporto della bioinformatica, rappresenterà uno strumento ‘insostituibile’ per scoprire le basi infinitesime delle vita relazionale dei componenti la cellula e della cellula con tutte le altre cellule costituenti un organismo vivente. Questi infiniti scambi di informazione si realizzano variabilmente a seconda del contesto microambientale in cui l’essere vivente è inserito e opera; pertanto, si ha un vero e proprio sistema cibernetico caratterizzato da una infinità funzionale di meccanismi ‘biochimico-energetici’ di ‘feed-back’ o di ‘retroazione’.
56. L’imprenditore zootecnico dovrà raggiungere sempre di piú livelli ‘culturali’ di un vero e proprio ‘pensatore strategico’ capace di percepire e di interiorizzare le innovazioni informatiche in grado di guidarlo in un contesto rivolto a un incremento continuo di ‘complessità’ cognitiva di livello specialmente biomolecolare quali-quantitativo; conseguentemente, intima deve essere l’integrazione fra le due variabili (qualitativa e quantitativa) caratterizzanti la fisiologia dei segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ o ‘non’. Infatti, le cosiddette ‘genetica quantitativa’ e ‘genetica molecolare’ altro non sono che componenti di una stessa strategia produttiva; pertanto, la loro integrazione è sempre piú da perseguire per raggiungere validi e dinamici traguardi, variabili temporalmente e spazialmente, di biopoiesi zootecniche.
57. L’evoluzione della conoscenza del genoma, del trascrittoma, del proteoma, del glicoma, del lipidoma e del metaboloma, sollecita, in modo cogente, una visione del MGAPZ in un quadro d’insieme, ove gli aspetti abiologici, biologici e umani siano fortemente incorporati dal ‘sistema allevatoriale’; in questa visione l’autocoscienza dell’allevatore deve costituire sempre piú elemento fondante per incrementare la sua capacità di conoscenza e di trasferimento di questa al campo imprenditoriale.
58. Parafrasando S. Agostino si può a buon diritto affermare che la nostra mente, che è limitata, potrà mai comprendere integralmente tutte le informazioni presenti in una ‘scatola nera’ identificabile con una cellula che è da considerare un’entità infinita caratterizzata da una ‘irriducibile complessità’.
59. Piace concludere con la riflessione espressa da uno di noi qualche anno fa: ‘è innegabile che si è di fronte a una continua ‘cascata di certezze documentate’ e a un ‘fiume carsico di evidenze scientifiche’.

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[1] ‘Omica’: suffisso derivato dal greco ‘ómaz’ nel significato di: ‘il tutto’, ‘l’insieme’.
[2] Specializzazione emisferica: processo responsabile del rimodellamento di funzioni diverse in uno dei due emisferi: a esempio, sviluppo del linguaggio nell’emisfero sinistro e sviluppo della percezione spaziale in quello destro, ecc..
[3] Emergente: nel senso che alcune proprietà non possono essere desunte da quelle del ‘livello inferiore’.
[4] Genotipo: può essere considerato a livello: (a) tassonomico, come l’insieme di tutte le informazioni genetiche possedute da un organismo (oggi definito ‘genoma’), (b) individuale, come coppia di alleli che caratterizza un determinato locus monoallelico o polimorfo (a esempio: AA o AB o BB).
[5] Fenotipo: può essere definito come la manifestazione di qualsiasi natura (biochimica, chimica, fisiologica, metabolica , somatica, ecc.) quale espressione dell’informazione genetica di cui quell’essere vivente è dotato, in un determinato microambiente.
[6] Capacità al costruttivismo: nel senso che le ‘novità evolutive’, per quanto imprevedibili, non sono una produzione ‘dal nulla’, ma una trasformazione di ‘precedenti potenzialità’ grazie alle quali gli organismi partecipano attivamente alla ‘costruzione’ del microambiente in cui vivono; nel 1907, nell’opera ‘L’évolution créatrice’, H. Bergson aveva proposto il termine ‘creativo’ nel senso di ‘élan vital’ (slancio vitale) per indicare “la capacità di produrre un flusso continuo di ‘novità evolutive’”.
[7] Diafonia: termine mutuato dalla tecnica delle comunicazioni identificabile con un ‘disturbo’ in un punto del circuito ove a causa di scambi di energia tra differenti linee di trasmissione sono presenti segnali attinenti ad altri circuiti.
[8] Lac-operon (operone del lattosio): rappresenta l’unità fondamentale del controllo coordinato della trascrizione dei segmenti di DNA codificanti gli enzimi necessari per il metabolismo del lattosio; esso è costituito da: (a) sito ‘promotore’, a cui si lega la RNA polimerasi, (b) sito ‘operatore’, a cui si lega la molecola regolatrice della trascrizione, (c) 3 segmenti di DNA contigui che trascrivono una singola molecola di RNA messaggero (RNA policistronico) codificante i 3 enzimi (beta–galattosidasi, permeasi, transacetilasi) necessari per il metabolismo del lattosio; l’ attività trascrizionale di un operone è regolata da una proteina detta ‘repressore.’ Nella fattispecie, se nel terreno di coltura del batterio è presente il glucosio, l’operone è ‘represso’ in quanto il ‘repressore’ legato al sito ‘operatore’ blocca la trascrizione; se nel terreno di coltura il glucosio manca ma il lattosio è presente, l’operone viene ‘de-represso’; infatti, grazie all’attività basale minima dell’enzima ‘beta-galattosidasi’, una piccola frazione di lattosio viene convertita in ‘allolattosio’, che si lega alla proteina ‘repressore’ modificandone la conformazione; questa variazione ‘conformazionale’ provoca il distacco del repressore dal sito ‘operatore’; distacco che consente il legame della RNA polimerasi al promotore con l’avvio della trascrizione dei suddetti 3 enzimi.
[9] Rete booleana: dal nome del matematico G. Boole (1815÷1864), si basa su variabili con due soli valori ‘possibili’ del tipo ‘acceso’/’spento’; le relazioni tra queste due variabili si esprimono sotto forma dei seguenti operatori ‘booleani’: (a) ‘somma logica’ (or) in cui: (i) se uno dei due ‘operandi’ in ingresso (input) è ‘acceso’, il valore di uscita (output) sarà ‘acceso’, (ii) se nessuno dei due operandi in ingresso è ‘acceso’, il valore di uscita sarà ‘spento’; (b) ‘prodotto logico’ (and), in cui solo se entrambi gli operandi sono ‘accesi’ l’output sarà ‘acceso’, in tutti gli altri casi il valore di uscita sarà ‘spento’; (c) ‘negazione’ (not), in cui: (i) se l’operando di input è ‘acceso’, il valore di uscita sarà ‘spento’, (ii) se l’operando di input è ‘spento’, il valore di uscita sarà ‘acceso’.
[10] Sviluppo: variazione temporale di forma e di struttura di un individuo o di parte di esso (Bettini, 1972).
[11] Accrescimento: variazione temporale di peso e di volume di un individuo o di parte di esso (Bettini, 1972) .
[12] Segmenti di DNA ‘hox’: scoperti negli anni ’80 e facilmente riconoscibili per la presenza di homeobox, cioè di sequenze di DNA quasi identiche di circa 180 bp, che codificano regioni polipetidiche specifiche (‘domini’) di proteine di legame al DNA.
[13] Funzione ‘autocatalitica’ dell’ ‘RNA’ e del ‘DNA’: fenomeno per cui l’ ‘RNA’ e il ‘DNA’ si comportano da ‘autocatalizzatori’. Nel caso dell’ ‘RNA’ la funzione ‘autocatalitica’ si concretizza nell’‘auto-escissione’ di segmenti di origine intronica dall’ ‘RNA prematuro’ (‘self-splicing’). Nel caso del ‘DNA’ la funzione ‘autocatalitica’ si concretizza nella ‘depurinazione spontanea’ cioè nel distacco della base azotata guanina dal deossiribosio della molecola di ‘DNA’; questa ‘depurinazione’ sarebbe mediata da una struttura tridimensionale di ‘consenso’ (stem loop: stem = stelo; loop = anello) che, rendendo i siti purinici del ‘DNA’ piú flessibili, faciliterebbe il distacco della base azotata. La ‘depurinazione autocatalitica’ sarebbe favorita dal cosiddetto ‘stress superelicoidale fisiologico’ che si manifesterebbe come riavvolgimento dell’asse del ‘DNA’ a doppia elica su se stesso; questo riavvolgimento favorirebbe la formazione di strutture ‘stem loop’ o di ‘consenso’. Considerando l’elevato numero di queste strutture tridimensionali, si ritiene che esse non sarebbero coinvolte nel fenomeno della ‘genesi’ di mutazioni ‘puntiformi’ dannose; si ipotizza che la ‘depurinazione spontanea’ del ‘DNA’ possa svolgere un importante ruolo nell’appaiamento dei cromosomi durante la meiosi.
[14] Modello’ bayesiano’: dal nome del matematico T. Bayes (1702÷1761); le probabilità bayesiane sono interpretate come intervalli ‘fiduciari’ nel verificarsi di un dato evento.
[15] Modello ‘fuzzy’: la logica ‘fuzzy’ (dall’inglese fuzzy= sfocato, confuso) è caratterizzata da: (a) assenza del principio del ‘terzo escluso’, secondo il quale ogni proposizione può essere ‘vera’ o ‘falsa’, ma non può possedere contemporaneamente entrambi gli attributi, (b) appartenenza di un’entità a un insieme ‘graduale’ (con valori compresi tra 0 e 1) anziché a uno ‘binario’ (0= ‘non appartenenza’; 1= ‘appartenenza’) (Woolf e Wang, 2000; Ressom et al., 2003).
[16]Proteina Id2 : proteina inibitrice del differenziamento.
[17]Complesso enzimatico APC: complesso promotore dell’anafase che, trasferendo molecole di ubiquitina alla proteina ‘bersaglio’, la ‘marca’ affinché venga ‘riconosciuta’ dal proteosoma 26S per la degradazione.
[18]Progeria infantile: malattia genetica rara a insorgenza post-natale caratterizzata da invecchiamento e da mortalità precoce; le principali manifestazioni cliniche comprendono l'alopecia, la cute sottile, l'ipoplasia ungueale, la perdita del grasso sottocutaneo, la rigidità articolare e l'osteolisi.
[19]Lamina A e C: proteine la cui elevata ‘omologia di sequenza’ suggerisce un’unica origine: lo ‘splicing alternativo’ a livello dell’esone 10 genererebbe due diversi mRNA codificanti le proteine.
[20]Ceppo selvatico SM: Smooth morphology = morfologia ‘liscia’; ceppo che, nella fattispecie, è caratterizzato da colonie su piastra con spetto ‘liscio’.
[21]Ceppo mutato LSWS: Large Spreading Wrinkly Spreader Strain = aspetto tendenzialmente rugoso delle colonie su piastra; ceppo che, nella fattispecie, è caratterizzato da colonie su piastra con spetto ‘rugoso’.
[22] Mutazione ‘adattativa: termine introdotto da Cairns et al. (1988) per indicare una mutazione ‘non casuale’ che rende i microrganismi, posti in condizione di carenza nutrizionale, capaci di utilizzare prontamente l’unico nutriente disponibile.
[23]Segmento di DNA ‘yellow’: segmento di DNA codificante una proteina necessaria per la sintesi di pigmentazione nera.
[24] ‘Evoluzione convergente’: meccanismo evolutivo che si manifesta originando ‘similarità somatiche’ in specie e in tempi diversi, secondo modalità indipendenti.
[25] Paesaggio epigenetico: raffigurato come ‘paesaggio’ in cui le vie che possono essere ‘imboccate’ durante lo ‘sviluppo ontogenetico’ sono paragonate a una serie di percorsi che una pallina può intraprendere e la cui scelta iniziale è casuale; piccole variazioni della traiettoria sono responsabili delle piú svariate posizioni che la pallina può assumere al termine del percorso scelto; pertanto, le forme osservate nei diversi stadi di sviluppo e/o le vie di attivazione dei segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ sono paragonabili a percorsi di sviluppo in un ‘paesaggio epigenetico’ in cui ciascuno stadio serve da ‘battistrada’ per il successivo e, contemporaneamente, costituisce un punto di diramazione di molte altre vie.
[26]Canalizzazione dello sviluppo: comprende le modalità di comportamento che consentono un adattamento (oggi ‘capacità al costruttivismo’) alle variazioni ambientali temporanee costringendo o canalizzando lo sviluppo verso vie alternative; secondo la dottrina filosofica ‘realistica’ inglese riconducibile a ‘L’évolution créatrice’ di H. Bergson (1907), non vi potrebbe essere ‘evoluzione’ senza ‘canalizzazione’, la quale è resa possibile da ‘dighe’ o, fuori metafora, da ‘piani di organizzazione cosmica’ che ne disciplinano il flusso (Bettini, 1972).
[27] Assimilazione genetica: fenomeno consistente in una modificazione fenotipica dovuta a stimoli ambientali (‘plasticità fenotipica’), inizialmente non ereditaria, la quale successivamente diventa trasmissibile; Rutherford e Lindquist (1998) hanno interpretato l’ ‘assimilazione genetica’ in termini di manifestazione di una variabilità genetica ‘criptica’ in determinate condizioni ambientali; il meccanismo biologico dell’ ‘assimilazione genetica’ è ‘importante’ ai fini dell’evoluzione della specie; a esempio, secondo Hodin (2000), alcune ‘convergenze’ come le pinne dei pesci e quelle dei cetacei (distanti filogeneticamente) sarebbero maggiormente legate alla ‘plasticità fenotipica’ e alla sua ‘assimilazione genetica’.
[28] Capacitazione: fenomeno per cui, a seguito di stress ambientali, si ha la riattivazione di potenzialità genetiche represse; riattivazione concretizzantesi nello sviluppo di nuovi ‘fenotipi’.
[29]EVO-DEVO (Evolutionary developmental biology= biologia evolutiva dello sviluppo): concetto che, sebbene formalizzato nel 1999, può essere fatto risalire a: (a) Gould (1977), che intuí l’importanza dell’ ‘eterocronia’ (cambiamenti dello ‘sviluppo’ nel tempo) quale meccanismo di evoluzione, (b) Lewis (1978) che, con lo studio sistematico in Drosophila delle mutazioni dei segmenti di DNA ‘omeotici’ (dal greco: όμοίώσιξ = somiglianza), ha inserito i concetti di ‘evoluzione’ e di ‘sviluppo’ nella genetica molecolare; si ricorda che H. Bateson (1894) ha introdotto il concetto di ‘omeosi’ per indicare ‘mutazioni’ in grado di far sviluppare un organo in una sede ‘inappropriata’ (a esempio, un ‘arto’ al posto di un’ ‘antenna’).
[30] ‘Constraint’: termine proposto da Gould (1989) e che ha nella sua radice etimologica latina il significato di ‘stringere’ in senso sia positivo che negativo.
[31] Effetto Baldwin: effetto consistente nel maggiore accumulo di mutazioni ‘favorevoli’ a sostegno di ‘caratteri indotti’ dall’ambiente.
[32] Mutazione multipla: presenza di piú mutazioni puntiformi (vedasi nota 111) a carico di una molecola di DNA o di RNA; l’effetto delle mutazioni multiple è ‘moltiplicativo’.
[33] Nucleotide: costituito da un nucleoside {zucchero (deossiribosio nel DNA e ribosio nell’RNA) + base azotata [purina (adenina o guanina) o pirimidina (citosina o timina nel DNA; uracile nell’RNA)]} legato a un gruppo fosfato.
[34] Splicing: a oggi, sono noti i seguenti meccanismi: (a) splicing del pre-tRNA in tRNA maturo; (b) splicing del pre-mRNA in mRNA che, a sua volta, può essere: (i) costitutivo: gli introni vengono ‘tagliati’ e gli esoni vengono ‘assemblati’ nello stesso ordine in cui si trovano nel segmento di DNA originale, (ii) alternativo: gli introni vengono ‘tagliati’ e gli esoni vengono ‘assemblati’ con sequenze alternative che danno origine a mRNA differenti (co-trascritti) ; (c) self splicing (auto splicing ) (vedasi nota 13) .
[35] Editing: meccanismo mediante il quale la sequenza nucleotidica degli mRNA, dei tRNA e degli RNA ribosomiali (rRNA) viene modificata dopo la trascrizione; le modificazioni note dalla letteratura consultata variano dall’inserimento o delezione di uridina (U) o di citosina (C) negli mRNA mitocondriali del tripanosoma alla sostituzione di specifici residui di C con residui di U negli mRNA mitocondriali delle piante, fino alla sostituzione di specifici residui di adenina (A) con residui di inosina (I) negli mRNA nucleari delle cellule di mammifero.
[36] Codice plurimo: codice la cui lettura è variabile.
[37] Metilazione: aggiunta di gruppi ‘metile’ da parte di enzimi metiltransferasi; l’aggiunta interessa preferenzialmente la base azotata ‘citosina’ di un nucleotide adiacente a un altro contenente la base azotata ‘guanina’ sullo stesso filamento di DNA (isole CpG); la ‘p’ (phosphodiester) indica che i due nucleotidi sono connessi tra loro mediante un legame fosfodiesterico che interessa i gruppi ossidrilici (OH) del deossiribosio.
[38] Acetilazione: aggiunta di gruppi ‘acetile’ alle proteine istoniche da parte di enzimi acetiltransferasi .
[39] DNA mop1: mediator of paramutation 1= mediatore 1 della paramutazione.
[40] Allele Kittm1Aif[40] mutato dal selvatico: la presenza di tale allele è responsabile di un fenotipo caratterizzato da coda e da arti con estremità bianche.
[41] ‘Fene’: inteso come ‘categoria’ solo in senso statistico (Bettini, 1955, 1972, 1988).
[42] Comunità delle api: l’ ape ‘regina’ svolge la funzione unica di deporre le uova per la conservazione della specie; le uova fecondate da uno degli spermatozoi custoditi nella spermateca danno origine a femmine ‘diploidi’, mentre quelle non fecondate danno origine a maschi aploidi; l’ape ‘operaia’, definita anche ‘femmina imperfetta’ (apparato riproduttore atrofizzato, è l’unica abilitata fenotipicamente alla secrezione della ‘pappa reale’; in casi ‘eccezionali’, l’operaia acquisisce la capacità di deporre uova partenogenetiche (massimo 4), cioè uova che si sviluppano in embrione senza essere state fertilizzate e quindi ‘fucali’; il ‘fuco’, oltre a fecondare la ‘regina’ coadiuva, tra l’altro, le operaie nella termoregolazione dell’alveare e dopo l’accoppiamento o ‘volo nuziale’ muore; i ‘fuchi’ non partecipanti al ‘volo nuziale’ muoiono per inedia a causa della mancata somministrazione di alimenti da parte delle ‘operaie’.
[43]Fenotipo caratteristico: esso è denominato ‘callipige’ dal greco kalòs = bello e pugh’ = natica, per indicare un fenotipo caratterizzato da ‘ipertrofia’ che coinvolge soprattutto i muscoli degli arti pelvici. Questa ‘ipertrofia’ si manifesta soltanto poche settimane dopo la nascita a differenza della ‘doppia muscolatura’ del bovino che si manifesta con ‘iperplasia’ già durante il periodo fetale e ‘ipertrofia’ nella fase post-natale (Koohmaraie, 1996).
[44]Cronobiologia: dal greco krónos = tempo; bíos = vita; lógos = discorso, studio; le origini della cronobiologia risalgono a F. Halberg (1960); la cronobiologia fornisce principi generali dell’ordine: (a) fisiologico (cronofisiologia), (b) patologico (cronopatologia): alterazione della struttura temporale dovuta a processi morbosi, (c) farmacologico (cronofarmacologia o, alla luce dell’approccio ‘omico’, cronofarmacogenomica): temporalizzazione della somministrazione di un farmaco, (d) terapeutico: impiego di una profilassi o di una cura in relazione alla caratteristica temporale della malattia. L’andamento temporale di una variabile biologica ritmica può essere meglio descritto matematicamente da una funzione ‘co-sinusoidale’, calcolabile, fra l’altro, con il metodo conisor proposto da F.
Halberg (1960); sulla base di tale funzione si definiscono: (a) periodo (t): durata completa del ciclo di una variabile ritmica, (b) mesor (M): valore medio dei dati espressi dalla funzione, (c) ampiezza (A): differenza fra il punto piú alto o piú basso della curva e il mesor, (d) acrofase (ø): distanza espressa in unità di tempo o in gradi, da un punto di riferimento (punto di riferimento dell’acrofase) al picco della curva che definisce il ritmo; a esempio, l’azotemia e la potassiemia presentano il loro livello massimo (acrofase) alle ore 21,00 di un ritmo circadiano.
[45] Bioritmo: è un ‘oscillatore biologico’ e può essere definito come una variazione periodica di un determinato evento; i ritmi possono essere suddivisi in: (a) autonomi, se in assenza di forze esterne si comportano come oscillatori fisici, ossia come se fossero indipendenti dal ‘periodismo di campo’, (b) di attività spontanea, se la sincronizzazione richiede l’intervento di ‘orologi biologici’, (c) trainati da oscillatori fisici o di risposta a cicli ambientali, se sono sincronizzati a variabili periodiche di campo. Tassonomicamente, il bioritmo viene classificato in: (a) ultradiano (t< 20 ore), (b) circadiano (20 ore ≤ t ≤28 ore), (c) diano (23,8 ore≤ t ≤ 24,2 ore), (d) infradiano (t >28 ore), (e) circasettano (t = 7± 3 d), (f) circadisettano (t = 14 ± 3 d), (g) circavigintano (t = 21± 3 d), (h) circatrigintano (t = 30 ± 5 d), (i) circannuale (t = 1 anno ± 2 mesi).
[46] Sincronizzatore: fattore esterno (ambientale) o interno (ormone) che varia secondo un andamento periodico; a seconda del ruolo che esplica, un sincronizzatore può essere definito ‘primario’ o ‘secondario’; a esempio, nella periodicità circadiana, un sincronizzatore primario è rappresentato dal rapporto ore di luce/ore di buio.
[47] Omeostasi: capacità dei viventi di governare le variabili dell’ambiente interno al variare di quello esterno, al fine di mantenerle entro valori tali che non causino danni irreversibili al loro ‘status’ identificabile con quello fisiologico ‘normale’.
[48] Sonno ‘paradosso’: fase del sonno caratterizzata da un tracciato elettroencefalografico molto simile a quello registrabile durante la condizione di ‘veglia’ sebbene l’individuo dorma profondamente.
[49] Omeostasi demografica: condizione per cui in una popolazione ‘genetica’ la distribuzione dei parti, il rapporto tra le categorie e la distribuzione delle ‘uscite’ e delle ‘entrate’ demografiche tendono a essere costanti nell’arco dell’anno.
[50] Cronodesmo: profilo ottenuto per ciascun ‘indicatore’ biologico a ‘variazione ritmica’, entro ciascun microambiente, da un campione rappresentativo della popolazione.
[51] Aggiornamento a dicembre 2006 in riferimento alla ‘costruzione Build 35’ messa a punto dall’International Human Genome Consortium (IHGC), denominata ‘finished’. Una sequenza si definisce finished allorquando: (a) almeno il 95 % dell’eucromatina del genoma è stata sequenziata (vengono tralasciati solo quei gap che non sono sequenziabili con le tecniche disponibili), (b) ogni base è stata sequenziata dalle 8 alle 10 volte, (c) la derminazione della sequenza è caratterizzata da un tasso di errore al massimo di 1 evento su 104 basi. La sequenza ‘Build 35’ è la versione finished piú aggiornata attualmente disponibile, subentrata alle precedenti versioni; la prima sequenza, prodotta nel 2001, veniva indicata come draft in quanto era stato sequenziato e assemblato solo il 90 % dell’eucromatina e ogni base era sequenziata solo 4 volte. La sequenza ‘Build 35’, contenente ancora 341 gap o buchi [33 eterocromatinici (per un totale di circa 198 Mb) e 308 eucromatinici (per un totale di circa 28 Mb)], copre all’incirca il 99 % del genoma ‘eucromatinico’ ed è caratterizzata da un tasso di errore di circa 1 evento su 105 basi ; il restante 1 % del genoma eucromatinico rappresenta regioni cromosomiche contenenti per lo piú duplicazioni segmentali di DNA e risiede nei 308 gap ‘eucromatinici’; questa parte mancante non può essere ancora efficientemente mappata, clonata e sequenziata stante la metodica di indagine attualmente disponibile.
[52] Segmento di DNA 'desunto': definito sulla base della ‘similarità’ scaturita dal confronto con una proteina o con una sequenza di DNA complementare (cDNA) o con una sequenza nucleotidica EST (Expressed Sequence tag) di una specie strettamente affine filogeneticamente.
[53] Segmento di DNA ‘noto’: nel senso che il suo prodotto proteico o il segmento di DNA complementare (cDNA) rientra nei database internazionali ‘specie-specifici’: UniProt (Universal Protein Resource), RefSeq (Reference sequence), UniProt/TrEMBL (Universal protein resource/Translated EMBL database).
[54] Densità di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ (cosiddetta densità ‘genica’): numero di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ contenuto in una megabase (Mb) di DNA genomico; la maggiore densità è stata riscontrata nei virus, nei quali, talvolta, la parte terminale di un segmento di DNA codificante ‘polipeptide/i’ è anche la parte iniziale del segmento di DNA contiguo; nei batteri la densità è elevata (circa 1000 segmenti /Mb); negli eucarioti la ‘densità’ varia da un valore di circa 500 segmenti /Mb nel lievito, a quello di circa 80 nel moscerino della frutta. Nella specie umana è necessario operare una distinzione tra: (a) genoma nucleare caratterizzato da densità molto bassa (circa 10 segmenti /Mb) , (b) genoma mitocondriale caratterizzato da densità molto elavata per cui, in alcuni casi la parte terminale di un segmento di DNA codificante ‘polipeptide/i’ è anche la parte iniziale del ‘segmento’ contiguo; a esempio, il segmento di DNA codificante la ‘subunità 8’ dell’enzima ATPasi è compreso tra il nucleotide 8.366 e quello 8.569 del cromosoma mitocondriale, mentre quello codificante la ‘subunità 6’ dello stesso enzima è compreso tra il nucleotide 8.527 e 9.204 di detto cromosoma; è da sottolineare che le sequenze aminoacidiche delle due subunità sono diverse anche nella zona comune in quanto il codice di lettura dei due segmenti di DNA è differente.
[55] DNA ‘regolativo’: la denominazione deriva dall’individuazione di funzioni raggruppabili in: (a) ‘strutturali’, che contribuiscono a favorire la stabilità delle origini di replicazione del DNA e l’organizzazione dei centromeri, nonché l’appaiamento meiotico dei cromosomi, (b) ‘eurigeniche’, che contribuiscono a coordinare l’espressione di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ non vicini, ‘attivatori’ o ‘silenziatori’ di segmenti di DNA, nonché a regolare l’espressione di essi nel corso dello sviluppo.
[56] Cambriano: periodo che risale a circa 550 milioni di anni fa e che è ritenuto momento di comparsa degli organismi a simmetria bilaterale.
[57] Fossile vivente: qualsiasi organismo o molecola la cui struttura o funzione si rivela fondamentale per la ricostruzione del ‘percorso evolutivo ‘ molecolare’ o ‘filogenetico’ della vita.
[58] Densità e localizzazione cromosomica dei trasposoni: in una regione del cromosoma X umano l’89 % del DNA sembrerebbe essere costituito da elementi trasponibili, mentre alcuni tratti ne sarebbero quasi del tutto privi.
[59]Omologia: percentuale di identità esistente tra sequenze nucleotidiche di due segmenti di DNA o tra sequenze aminoacidiche di due proteine derivate da uno stesso segmento di DNA o da una stessa proteina ancestrale; i segmenti di DNA o le proteine omologhe possono essere definiti: (a) paraloghi, se appartengono alla stessa specie (esempio: i segmenti di DNA codificanti la globina alfa e beta nell’uomo derivano dalla duplicazione di un medesimo segmento di DNA ancestrale), (b) ortologhi, se appartengono a specie diverse (esempio: i segmenti di DNA codificanti la subunità alfa dell’emoglobina nell’uomo e nel topo).
[60] Analogia: identità di funzione tra sequenze nucleotidiche di due segmenti di DNA o tra sequenze aminoacidiche di due proteine indipendentemente da una comune origine evolutiva.
[61] FOXP2: forkhead-box P2 gene = ‘gene’ con dominio a testa ‘biforcuta’; segmento di DNA appartenente alla famiglia FOX includente 43 membri codificanti fattori di trascrizione caratterizzati da un ‘dominio di legame’ di 100 aminoacidi; la denominazione FOX si deve alla particolare configurazione spaziale del dominio a ‘forma di farfalla’ o a ‘doppia forcina’, nota come ‘forkhead’ (testa ‘biforcuta’); sulla base, rispettivamente, della presenza o dell’assenza di una regione basica all’estremità –COOH del dominio, le proteine FOX sono distinte in due classi: (a) ‘1’, comprendente le sottofamiglie A, B, C, D, E, F, G, I, L, Q; (b) ‘2’, comprendente le sottofamiglie M, N, O, P (Katoh e Katoh, 2004).
[62] Mutazioni FOXP2: le due mutazioni presenti su segmento di DNA FOXP2 comportano, a livello di proteina, la sostituzione dell’aminoacido ‘treonina’ con l’ ‘asparagina’ in posizione 303 e della ‘asparagina’ con la ‘treonina’ in posizione 325 della catena aminoacidica.
[63] FGF: fibroblast growth factor = fattore di crescita dei fibroblasti.
[64] Sinecococchi: organismi unicellulari procarioti privi di sistemi di separazione spaziale delle attività cellulari.
[65] Hsp72: heat shock protein = proteina da shock termico di 72 kDa.
[66]Cromatina: complesso macromolecolare costituito dalle proteine istoniche organizzate in ottameri, attorno ai quali la doppia elica del DNA si avvolge strettamente per un tratto della lunghezza di 146 nucleotidi; l’insieme dell’ottamero e del DNA avvolto intorno a esso costituisce il ‘nucleosoma’ che è l’unità fondamentale della cromatina; due nucleosomi successivi sono associati all’istone H1 e sono connessi grazie a un breve filamento di DNA ‘linker’ (connettore). La cromatina è distinguibile in: (a) eterocromatina, piú condensata, corrispondente alle zone in cui non è presente attività di trascrizione, (b) eucromatina, meno condensata, corrispondente alle zone in cui l’attività di trascrizione è intensa. L’eucromatina ‘condensata’ non può essere trascritta (repressione trascrizionale o ‘spegnimento’); l’eucromatina ‘decondensata’ (assunzione di una struttura a ‘filo di perle’) può essere trascritta (attivazione trascrizionale o ‘accensione’).
[67] Repressori o attivatori: la trascrizione di un segmento di DNA può essere regolata ‘negativamente’ o ‘positivamente’ grazie alla presenza di un ‘repressore’ e di un ‘attivatore’, rispettivamente; nel primo caso la trascrizione ha luogo solo in assenza del ‘repressore’, nel secondo caso solo in presenza dell’ ‘attivatore’.
[68]Acetilazione degli istoni: la destabilizzazione della struttura del ‘nucleosoma’, imputabile alla neutralizzazione delle cariche positive delle code istoniche, favorisce la ‘decondensazione’ della eterocromatina e quindi la ‘disponibilità del DNA alla trascrizione’.
[69] Deacetilazione degli istoni: la stabilizzazione della struttura del ‘nucleosoma’ favorisce la ‘condensazione’ della cromatina e quindi lo ‘spegnimento dell’attività trascrizionale’ .
[70] Metilazione del DNA: la formazione di complessi di ‘deacetilazione’ favorisce la ‘condensazione’ della eucromatina e quindi lo ‘spegnimento’ dell’attività trascrizionale.
[71] Demetilazione del DNA: la disgregazione dell’ architettura ‘DNA-istoni’ rende disponibile il DNA alla trascrizione.
[72] Compensazione del dosaggio: livellamento, nel maschio e nella femmina, della quantità delle proteine sintetizzate dai segmenti di DNA localizzati sul cromosoma X. Nell’uomo Carrel e Willard (2005) hanno rilevato che ben 34 segmenti di DNA presenti sul cromosoma X non sono sottoposti a ‘inattivazione’; 31 di essi (91 %) sono localizzati sul braccio corto.
[73] ‘Gatto calico’: gatto di sesso femminile con mantello ‘variegato’ o a ‘guscio di tartaruga’ caratterizzato da macchie ‘nere’ e ‘gialle’ su base bianca; questo fenotipo è dovuto all’inattivazione casuale del cromosoma X: nelle cellule in cui è inattivato il cromosoma X portatore dell’allele CB (responsabile del colore ‘nero’) si hanno le macchie di pelo ‘giallo’, mentre in quelle in cui è inattivato il cromosoma X portatore dell’allele ‘CX’ (responsabile del colore ‘giallo’) si hanno quelle di pelo ‘nero’. Il gatto di sesso maschile è o ‘giallo’ o ‘nero’; eccezionalmente si può avere un maschio ‘variegato’ quale risultato dell’anomalia cromosomica ‘trisomia gonosomica’ caratterizzata dalla presenza di tre cromosomi sessuali (XXY).
[74] Xist: inactivating the single X Chromosome = segmento responsabile della inattivazione del singolo cromosoma X (Lee et al., 1996).
[75] Regolazione dell’espressione del DNA: a esempio, in Drosophila, l’ ‘accensione’ o il ‘silenziamento’ di un segmento di DNA omeotico sarebbe mediato dal gruppo di proteine Trx-G (Trithorax-group) o Pc-G (Polycomb-group), rispettivamente; questi gruppi sarebbero responsabili di un diverso riarrangiamento posizionale di ‘nucleosomi’ in corrispondenza di sequenze ‘regolative’ della cromatina. Le proteine Trx e Pc sono codificate da due gruppi distinti di segmenti di DNA tra i cui componenti esisterebbero segmenti che, se mutati, sono responsabili del fenotipo ‘omeotico’ (vedasi nota 29); a esempio embrioni in cui sono stati disattivati i segmenti Pc (‘Pc-/Pc-‘) evidenziano profonde trasformazioni omeotiche del tipo ‘caudale-craniale’ simili a quelle dovute a difetti dei loci Ubx (Ultrabitorax) e abdA (abdominal –A) (Lewis, 1978); la maggior parte delle mutazioni nei segmenti Trx sono ‘letali’.
[76] Segnali regolativi: segnali rappresentati da promoter (sequenza ‘promotrice’ dell’attività trascrizionale), enhancer (sequenza di ‘potenziamento’ dell’attività trascrizionale), silencer (sequenza ‘silenziatrice’ dell’attività trascrizionale).
[77] Motivo di legame: sequenza nucleotidica di 6÷30 bp riconosciuta da un determinato fattore di trascrizione.
[78] Traslocazione robertsoniana 1;29 (rob 1;29): modificazione stabile e naturale dell’assetto cromosomico derivante dalla fusione di due cromosomi acrocentrici non omologhi a livello dei loro centromeri con la conseguente riduzione del numero diploide di cromosomi da 60 a 59 nei portatori cosiddetti ‘eterozigoti’ e da 60 a 58 nei portatori cosiddetti ‘omozigoti’; essa, normalmente, non è accompagnata da anomalie fenotipiche.
[79] Teoria dell’ ‘equilibro slittante’: teoria proposta da S. Wright negli anni ’30 nel tentativo di fornire una spiegazione al superamento delle barriere ‘adattative’ (oggi barriere alla ‘capacità al costruttivismo’); una specie che ha raggiunto un ‘picco adattativo’ (insieme di determinati requisiti che rendono la specie ‘adatta’ a un contesto ambientale, quindi di elevata ‘capacità al costruttivismo’) non potrebbe raggiungere un nuovo ‘picco’ sulla base dei soli fenomeni di ‘mutazione’ e di ‘selezione naturale’ in quanto, durante il passaggio, la popolazione rischierebbe di essere ‘controselezionata’; solo la ‘deriva genetica’ potrebbe modificare la struttura genetica delle popolazioni e quindi consentire, probabilisticamente, di superare la ‘valle adattativa’ e di raggiungere il nuovo ‘picco’.
[80] Capping: modificazione post-trascrizionale del pre-mRNA consistente nell’aggiunta del ‘nucleoside guanosina metilato’ all’estremita 5’ terminale della molecola di mRNA.
[81] Esonizzazione dell’introne mediata dai retrotrasposoni Alu: trasformazione di introni in esoni determinata dalla ‘trasposizione’ e dall’‘integrazione’ di elementi Alu in introni di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’; si stima che nel genoma umano oltre 500.000 Alu siano ‘introni’, dei quali oltre 25.000 potrebbero diventare veri e propri ‘esoni’.
[82] Diversità cognitive uomo – scimpanzé: le differenze di funzionamento tra le due specie, tra l’altro, sarebbero dovute alla quantità, al tipo di corteccia cerebrale (neo cortex) e al numero di neuroni corticali presenti [30 milioni nel topo; 3 miliardi nello scimpanzè (filogeneticamente piú vicino all’uomo), 30 miliardi nell’uomo odierno (10 volte di piú dello scimpanzé)] .
[83] Istoni: proteine che si legano in modo non specifico al DNA e che vengono impacchettate con esso, in vivo, per formare i ‘nucleosomi’.
[84] Proteina ZBP1: Zipcode Binding Protein = proteina che si lega a una sequenza codice detta ‘di avviamento’ di 54 ribonucleotidi localizzata all’estremità 3’ non tradotta dell’mRNA della beta-actina.
[85] Pluripotenza (o multipotenza): condizione per cui una cellula non è in grado di dare origine a un individuo completo, ma può specializzarsi in una cellula appartenente a uno qualsiasi dei tre foglietti embrionali (ectoblasto, mesoblasto ed endoblasto).
[86] Pre-mRNA policistronico: pre-mRNA derivato dalla trascrizione contemporanea di piú segmenti di DNA presenti in successione sull’elica stampo; normalmente, i segmenti contenuti nell’ ‘mRNA policistronico ‘ presentano interrelazioni funzionali nel senso che, a esempio, sono coinvolti in una medesima via metabolica. Nella fattispecie, Suh et al. (2004), in cellule ES umane, hanno descritto 8 microRNA (miR-302 b*, miR-302b, miR-302c, miR-302c*, miR-302 a, miR-302 a*, miR-302d, miR-367) localizzati sul cromosoma 4 in una regione di 200 paia di basi.
[87] GDF8 (growth differentiation factor 8= fattore di crescita 8): fattore di crescita noto anche come miostatina; proteina, che controlla sia lo sviluppo della muscolatura sia il rapporto ‘massa muscolare /massa adiposa’.
[88] In‘silico’: locuzione derivata dal latino (in silico= in ‘silicio’) utilizzata per indicare la riproduzione di fenomeni biologici in una simulazione matematica computerizzata quale frutto della informatizzazione della ricerca; il termine ‘silico’ è riferito al ‘silicio’ di cui è costituita la maggior parte dei componenti elettronici.
[89] Interferenza dell’ RNA: fenomeno scoperto nel nematode Caenorhabditis elegans da Fire et al. (1998) consistente nel ‘silenziamento’ dell’espressione di un segmento di DNA codificante ‘polipeptide/i’ a opera di molecole di RNA a doppio filamento; grazie a tale scoperta Fire e Mello hanno ricevuto il Nobel (2006). Sono stati proposti due possibili modelli per spiegare i meccanismi dell’interferenza mediata dagli RNA: (a) modello di Zamore et al. (2000) che prevede: (i) taglio, a opera dell’enzima dicer, della molecola di RNA a doppio filamento che innesca il fenomeno dell’interferenza in piccole molecole di RNA (~ 22 nucleotidi) a doppio filamento, denominate siRNA (short interference RNA = RNA corto di interferenza), (ii) associazione dell’siRNA con proteine con la formazione di un complesso ‘siRNA-proteina’ inattivo, (iii) conversione del complesso ‘siRNA-proteina’ ‘inattivo’ in quello ‘attivo’ di silenziamento ‘RISC’ (RNA Induced Silencing Complex= complesso di silenziamento indotto dall’RNA), in cui le molecole di siRNA sono a singolo filamento, (iv) interazione del RISC con l’RNA messaggero trascritto dal segmento di DNA che deve essere ‘silenziato’ e degradazione dell’mRNA; (b) modello di Lipardi et al. (2001) che differisce da quello precedente per il fatto che l’siRNA a singolo filamento interagirebbe con l’mRNA bersaglio complementare funzionando da primer (innesco) per la sintesi di RNA lunghi a doppio filamento a opera di una RNA polimerasi RNA dipendente; tale processo darebbe origine a molecole di RNA a doppio filamento di lunghezza sufficiente per essere tagliate dall’enzima dicer, il quale degraderebbe l’mRNA e, nello stesso tempo, genererebbe nuovi siRNA; in questo modo l’mRNA verrebbe degradato attraverso un ciclo di ‘PCR degradativa’; questo modello è stato confermato da Sijen et al. (2007).
[90] Veicolazione: processo di trasporto di DNA o di RNA che richiede l’impiego di opportuni ‘carrier’ (molecole con funzione di ‘trasporto’) o‘vettori’; di largo impiego e di notevole efficienza sono i vettori costituiti da virus ingegnerizzati anche se il loro utilizzo desta alcune preoccupazioni che stanno orientando la ricerca verso la messa a punto di vettori sintetici non virali (liposomi cationici) in grado di complessare gli acidi nucleici carichi negativamente. Ewert et al. (2006) hanno realizzato un nuovo ‘vettore lipidico’ caratterizzato da una testa idrofila dotata di 16 cariche positive che rendono la molecola in grado di legare molto efficientemente il DNA. Un altro metodo per trasferire molecole di acido nucleico in una cellula senza ricorrere a virus è il cosiddetto ‘bombardamento genico’ (‘gene gun’) consistente nell’utilizzo di particolari strumenti o elettrici o ad alta pressione per veicolare nella cellula particelle microscopiche di oro o di tungsteno ricoperte da DNA; questa tecnica è utilizzabile in qualsiasi specie in quanto la veicolazione è governata da fattori ‘fisici’ e non ‘biologici’; tuttavia, questa veicolazione non è stabile, al pari di quella effettuata tramite i ‘liposomi’ ed è particolarmente svantaggiosa nel caso di cellule proliferanti con la necessità di ripetere le iniezioni nel tempo. Come evidenziato da Matassino (1999, 2002), la veicolazione di DNA esogeno riveste notevole significato operativo nella utilizzazione di alcune biopoiesi quali fonte di ‘molecole’ di interesse farmaceutico per l’uomo (Velander et al., 1997; Wall, 1998; Harvey et al., 2002). La Oxford Biomedica, in collaborazione con la VIRAGEN (Scozia) e con il Roslin Institute (Scozia) (2007), utilizzando vettori lentivirali per la veicolazione di ‘costrutti di DNA esogeno’, ha ottenuto galline in grado di produrre uova il cui albume contiene proteine ‘ricombinanti’ con funzione di farmaco; l’espressione dei segmenti di DNA esogeno responsabili della sintesi di queste proteine è regolata in modo tale da: (a) avvenire in maniera specifica nelle cellule dell’ovidutto, (b) non essere ‘silenziata’ nelle successive generazioni.
[91] Knocking - down: perdita di funzione di un segmento di DNA ottenuta attraverso ‘l’interferenza mediata da RNA’; la perdita funzionale non è associata all’alterazione strutturale del segmento di DNA interessato a differenza di quanto avviene nel ‘knock-out’ che, invece, comporta anche un’ alterazione strutturale del segmento di DNA; infatti, il ‘knock-out’ consiste nella sostituzione del segmento di DNA ‘selvatico’ (‘gene transplacement’) con un suo derivato reso ‘inattivo’ o ‘nullo’ introducendo una sequenza in grado di compromettere la funzione.
[92] Clonazione ‘somatica’: ottenimento di ‘cloni’ mediante il trasferimento del nucleo proveniente da una cellula somatica ‘adulta’ ‘sdifferenziata’ in un citoplasto come un oocita enucleato.
[93] Visualizzazione differenziale RT-PCR (DD RT-PCR, differential display Reverse transcriptase – polymerase chain reaction): metodo che permette di incrementare una ‘sottopopolazione’ di cDNA (DNA complementare=complementary DNA) mediante trascrizione inversa di sottoinsiemi di mRNA (provenienti da tessuti differenti dello stesso individuo oppure dallo stesso tessuto di individui differenti) in cDNA e sua amplificazione, nonché suo clonaggio; esso offre il vantaggio di favorire il clonaggio di quei mRNA rari minimizzando l’isolamento di EST (expressed sequence tag= etichette o segnali di sequenze espresse; ciascuna etichetta è identificativa di un ‘messaggero’ ‘unico’) ‘rappresentative’ dei cosiddetti segmenti di DNA housekeeping (segmenti di DNA ‘ubiquitari’, nel senso che essi sono espressi in tutte le cellule dell’organismo) ma, a differenza della SSH, la metodica ‘DD RT-PCR’ non garantisce l’analisi esclusiva di quei segmenti di DNA differentemente espressi ed è poco adatta alla ricerca mirata dell’espressione di segmenti di DNA ‘noti’; questa carenza di ‘garanzia’ suggerisce l’uso della metodica ‘microarray’ che è in grado di evidenziare la diversità di espressione di vari segmenti di dNA codificanti.
[94] Analisi seriale dell’espressione genica (SAGE, serial analysis of gene expression): metodo basato sul sequenziamento‘in serie’ di EST, ciascuna delle quali identificativa di un ‘messaggero’ ‘unico’; esso non richiede la conoscenza ‘a priori’ dei segmenti di DNA da analizzare e consente di individuare nuovi segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’ nonché di quantificare l’mRNA originatosi da tali ‘segmenti’; la costituzione di archivi di EST (Adams et al., 1991; Davoli et al., 1999; Grosse et al., 2000; Smith et al., 2001; Band et al., 2002; Boardman et al., 2002; Davoli et al., 2002; Yao et al., 2002) ha consentito un ampio sviluppo di questo metodo; il numero di EST a oggi sequenziate in alcuni organismi eucarioti è riportato nella tabella 5.
[95] ‘Micromatrice’ di segmenti di DNA ‘codificanti’ ‘(DNA microarray’): metodo basato sull’ibridazione di segmenti di DNA ‘noti’ [oligonucleotidi o cDNA distribuiti secondo uno schema ordinato (array) su una piccola superficie solida] con segmenti di cDNA marcati con fluorocromi; la fluorescenza emessa dall’ibrido è indicatrice della presenza di segmenti di DNA funzionalmente espressi (‘accesi’) o ‘attivi’ dal punto di vista trascrizionale; l’entità di questa fluorescenza è direttamente proporzionale alla quantità di mRNA trascritta.
[96] Ibridazione sottrattiva di soppressione (SSH, Suppression Subtractive Hybridization): metodo che mira a incrementare una ‘popolazione’ di cDNA specifica di un tessuto o di un tipo di cellula mediante l’amplificazione dei segmenti di cDNA ‘specifici’ e la soppressione dell’amplificazione dei cDNA ‘non specifici’, cioè espressi anche in altri tipi di tessuto o di cellula; tale metodo offre il vantaggio di isolare anche trascritti presenti in minima quantità, ma può fornire ‘falsi positivi’ associati alla PCR .
[97]Validazione dei dati: procedura per la quale la Food and Drug Administration (FDA) ha previsto: (a) costituzione di banche dati pubbliche; (b) disponibilità di materiale biologico di riferimento e di controllo per la valutazione della riproducibilità e della sensibilità.
[98] MGED: Microarray Gene Expression Data Society = società che si occupa della gestione dei dati relativi all’espressione di segmenti di DNA codificanti ‘polipeptide/i’; essa ha lo scopo di facilitare la condivisione di elementi rilevati con esperimenti di genomica funzionale e di proteomica entro la Comunità scientifica.
[99] Progetti di standardizzazione: essi includono: (a) MIAME (Minimum Information About a Microarray Experiment = indicazione di informazioni minime di esperimenti microarray richieste per interpretare e verificare i risultati), (b) MAGE – ML (Microarray And Gene Expression-Markup Language = realizzazione di un ‘format modello oggetto’ per lo scambio di risultati di esperimenti microarray), (c) GO (Gene Ontology = redazione di un ‘vocabolario descrittivo’ dinamico temporalmente ‘non arbitrario’ del prodotto di espressione di segmenti di DNA in termini di ‘funzione molecolare’, ‘ruolo/i biologico/i ‘e ’ubicazione/i cellulare’), (d) MT (Microarray Trasformation = compilazione di raccomandazioni relative a metodi di normalizzazione di ‘dati’ acquisiti sperimentalmente), (e) RSB WG (Reporting Structure for Biological Investigations Working Groups = definizione di modelli di struttura di riferimento di gruppi di lavoro per le investigazioni biologiche), (f) MISFISHIE (Minimum Information Specification For In Situ Hybridization and Immunohistochemistry Experiments = indicazione di strategie tecniche minime da perseguire affinché i risultati possano essere considerati attendibili).
[100] ‘Libreria normalizzata’a cDNA: archivio in cui ciascuna molecola di ‘trascritto’ è uniformemente rappresentata dal punto di vista quantitativo (Soares et al., 1994); la ‘normalizzazione’ si ottiene sottoponendo la popolazione di cDNA a un processo di denaturazione seguito da riassociazione in modo che le molecole di cDNA piú abbondanti si riassociano piú rapidamente e possono essere parzialmente sottratte; il decremento delle molecole piú abbondanti è pari a un fattore di ‘1000 ÷10.000’.
[101] Unità operative: Dipartimento di protezione e valorizzazione agroalimentare (DIPROVAL)-Sezione di Allevamenti zootecnici, Università di Bologna (Responsabile: prof. V. Russo) ; Dipartimento Produzioni animali, Università di Udine (Responsabile: B. Stefanon); IBBA/CNR, Milano (Responsabile: dr. B. Castiglioni); Istituto Zootecnica, Università Cattolica Sacro Cuore (PC) (Responsabile: prof. P. Ajmone Marsan); Dipartimento di Scienze animali, vegetali e dell’ambiente, Università del Molise (Responsabile: prof. F. Pilla); Dipartimento di Produzioni animali, Università della Tuscia (Responsabile: prof. A.Valentini); le 6 unità sono coordinate dal prof. V. Russo.
[102] Miotilina: proteina espressa nel muscolo cardiaco e scheletrico; essa interagisce con l’alfa-actinina nella banda I del sarcomero.
[103] Miozenina 1: proteina che interagisce con la miotilina e potrebbe giocare un ruolo nella miofibrillogenesi.
[104] Miomesina: immunoglobulina espressa in tutte fibre del tessuto muscolare in via di sviluppo.
[105] ID3 : inhibitor of DNA Binding 3= inibitore 3 del legame al DNA; fattore di trascrizione regolante la sintesi della miogenina e coordinante la deposizione proteica nel muscolo.
[106] Potenziale glicolitico: parametro biochimico utilizzabile per predire l’ ‘idoneità’ della carne suina alla trasformazione in prodotti stagionati essendo esso correlato con il pH e con la capacità di ritenzione idrica, con il colore, con la resa di stagionatura (Nanni Costa et al., 2000). Gli enzimi maggiormente coinvolti sono: PKM2 (Piruvate kinase muscle 2= piruvato chinasi muscolare 2); PGAM2 (
Phosphoglycerate mutase 2, muscle= fosfogliceromutasi 2 muscolare); PRKAG3 (Protein kinase, AMP-activated, gamma 3 non-catalytic subunit = subunità gamma 3 non catalitica della proteina chinasi attivata dall’AMP).
[107] Allele ‘n’: esso, presente allo stato ‘omozigote’, è responsabile della ‘ipertermia maligna’ nell’uomo (MH, Malignant Hyperthermia) e della ‘sindrome da stress’ nel suino (PSS, Porcine Stress Sindrome); quest’ultima, tra l’altro, si manifesta con la ‘miopatia pallida, soffice, essudativa’ (PSE, pale, soft, exudative), che influenza negativamente la qualità della carne suina soprattutto ai fini della sua trasformazione.
[108] Proteinasi lisosomiali o loro inibitori: Catepsina B (CTSB, Catepsin B), Catepsina D (CTSD), Catepsina F (CTSF), Catepsina H (CTSH), Catepsina L (CTSL), Catepsina Z (CTSZ) , Cistatina B (CSTB, cistatin B), Cistatina C (CST3) che esplicano numerose funzioni biologiche: (a) infra vitam: (i) eliminazione e riciclo di sostanze, organuli intracellulari danneggiati nonché sostanze assunte dalla cellula, (ii) conversione di alcuni proenzimi nelle loro forme attive (insulina, albumina, paratormone, ecc.), (iii) turnover proteico intra ed extracellulare, (iv)
processi di cancerogenesi; (b) post mortem: (i) processi di conversione del muscolo in carne con particolare riferimento alla frammentazione delle miofibrille; (ii) variazione della consistenza del prosciutto crudo.
[109] LDLR : Low Density Lipoprotein Receptor = recettore delle lipoproteine a bassa densità; recettore di superficie che svolge un ruolo importante nel mantenere l’omeostasi del colesterolo; alcune mutazioni a livello del segmento di DNA codificante tale recettore sono responsabili di un aumento del colesterolo plasmatico; nel suino sono state individuate regioni promotrici necessarie per la regolazione trascrizionale da parte degli steroli (Sekar, 2006).
[110] ‘LDLR 1-31’ e ‘LDLR 55-59’: i suffissi ‘1-31’ e ‘55-59’ indicano la regione del promotore a cui si legano i rispettivi fattori di trascrizione.
[111]Mutazione puntiforme: modificazione di una singola base della sequenza nucleotidica; la mutazione puntiforme può identificarsi con una: (a) transizione: sostituzione di una base pirimidinica con l’altra (C con T o viceversa) o di una base purinica con l’altra (A con G, o viceversa), (b) trasversione: sostituzione di una base nucleotidica purinica (G o C) con una base pirimidinica (A o T) o viceversa, (c) delezione di una singola base, (d) inserzione di una singola base. In relazione all’effetto su una proteina, la mutazione puntiforme può essere: (a) di senso (o missense): la variazione della base si traduce nella sostituzione di un aminoacido a carico della proteina, (b) di terminazione (non sense): la modificazione della base provoca la sostituzione della tripletta di basi (codone) codificante un aminoacido con un codone di stop, il che si traduce nell’arresto della traduzione e quindi in un accorciamento della proteina, (c) mutazione sinonima o neutra (stesso senso): la modificazione della base trasforma il codone in uno ‘sinonimo’, cioè in un codone che codifica sempre lo stesso aminoacido, per cui la sequenza aminoacidica della proteina rimane invariata; tale effetto è dovuto a una ‘degenerazione’ del codice genetico. Una mutazione puntiforme viene considerata un SNP quando è presente nella popolazione in misura superiore dell’1%.
[112] Equazioni di diffusione: i modelli di diffusione permettono di descrivere il comportamento degli alleli mutanti considerando sia i mutamenti casuali verificatisi per assortimento casuale dei gameti (cellule germinali) nella riproduzione sia i mutamenti deterministici provocati da mutazione e da selezione.
[113] H-FABP: Heart- Fatty Acid binding Protein=proteina cardiaca legante gli acidi grassi; proteina coinvolta nel trafficking degli acidi grassi a livello del tessuto muscolare cardiaco e striato, nonché della ghiandola mammaria in lattazione; altre proteine appartenenti alla famiglia FABP sono: L (epatica), I (intestinale), A (adipocitica), E (epidermica), IL (ileale), B (cerebrale), M (mielinica), T (testicolare).
[114] Enzima Stearoil-CoA Denaturasi (SCD): enzima costituito da 359 aminoacidi il quale svolge un ruolo ‘chiave’ nel metabolismo lipidico; esso catalizza ‘la formazione di un doppio legame’ in posizione cis 9 di un ampio spettro di acidi grassi saturi e, in particolar modo, dell’acido stearico che viene desaturato ad acido oleico.
[115] Leptina: ormone espresso nel tessuto adiposo e muscolare, nella placenta e nella ghiandola mammaria di varie specie animali svolgente un ruolo critico nella regolazione: (a) del peso corporeo inibendo l’assunzione del cibo e stimolando il consumo energetico, (b) dell’ematopoiesi, (c) dell’angiogenesi, (d) della risposta immune e infiammatoria.
[116] Regolamento ‘Health and Nutrition Claims: indicazioni sulle virtù nutrizionali e salutistiche degli alimenti; esso, adottato dal Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea il 12 ottobre 2006, entrerà in vigore dal 1 luglio 2007; la Food Standards Agency del Regno Unito ha proposto le modalità per la compilazione della lista di Health and Nutrition Claims in accordo con l’articolo 13 del Regolamento.
[117] Identificazione di proteine ‘nuove’: Lamacchia et al. (2004) nella linea ‘transgenica’ di grano duro ‘Ofanto B688-1-2’, caratterizzata dall’inserzione del ‘segmento di DNA’ di tabacco codificante la proteina rab1 ‘mutata’, hanno evidenziato la presenza di un cluster ‘nuovo’ di polipeptidi che potrebbe originarsi da: (a) deposizione di polipeptidi a causa della riduzione del ‘trafficking’ proteico dal reticolo endoplasmatico ruvido verso l’apparato del Golgi per l’instaurarsi di una via di ‘trafficking’ aggiuntiva basata su un percorso alternativo ‘extra Golgi’, (b) sintesi di nuovi polipeptidi.
[118] M.R. Wilkins: vicepresidente e direttore della divisione di bioinformatica presso la Proteome Systems di Sydney (Australia).
[119] MALDI-TOF: Matrix Assisted Laser Desorption Ionization - Time Of Flight = spettrometria di massa di ionizzazione e desorbimento laser assistita da matrice-tempo di volo.
[120] Nano LC ESI-MS/MS: nano Liquid Chromatography/Electrospray Ionization Mass Spectrometry/ Mass Spectrometry = nano cromatografia liquida accoppiata a uno spettrometro di massa con sorgente elettrospray e rivelatore tandem.
[121] Livelli di organizzazione: si distinguono in: (a) struttura primaria, rappresentata dalla sequenza amminoacidica nella catena polipeptidica, (b) struttura secondaria, rappresentata dalla configurazione spaziale della catena polipeptidica (le principali sono due: l’alfa-elica e la struttura a foglietto beta), (c) struttura terziaria, rappresentata dalla combinazione di piú regioni ad alfa-elica e/o a beta-foglietto collegate tra loro da segmenti che formano regioni ad ansa che costituiscono in genere il ‘sito funzionale’ della proteina, (d) struttura quaternaria, rappresentata da una struttura sovramolecolare (piú catene polipeptidiche o subunità unite da legami non covalente) la quale esplica una funzione non compatibile con la sola struttura terziaria.
[122] Palindromo: parola, numero o frase che mantiene lo stesso significato in entrambi i sensi di lettura (da sinistra verso destra o da destra verso sinistra).
[123] Hsp70: Heat shock protein = proteina da shock termico; proteina che, oltre a intervenire nel ‘ripiegamento’ di altre proteine, espleta una gran varietà di funzioni tra cui quella di ‘srotolare proteine ripiegate’ e ‘trascinare le proteine nei punti della cellula dove devono svolgere le loro funzioni’; questa varietà di comportamenti ha stimolato diverse teorie sul funzionamento di Hsp 70. De Los Rios et al. (2006) hanno messo in evidenza che un unico meccanismo presiede a tutte le sue funzioni; trattasi del meccanismo di ‘trascinamento finalistico del mondo entropico’, proprio del regno animale; questo è solo un esempio della potenzialità delle ricerche interdisciplinari che si muovono al confine tra la biologia e la fisica, in particolare nello studio del ‘protein folding’ (ripiegamento della struttura primaria in una struttura secondaria e/o terziaria con acquisizione di caratteristiche funzionali).
[124] BSP: Bovine Seminal Plasmaprotein = proteina del plasma seminale bovina.
[125]aSFP : acid Seminal Fluid Protein = proteina del fluido seminale acido.
[126] BSE: Bovine Spongiform Encephalopathy = encefalopatia spongiforme bovina.
[127] PRPc: Cellular Prion Protein = proteina prionica presente normalmente nelle cellule nervose.
[128] PRPsc: Scrapie Prion Protein= proteina prionica.
[129] MHC: Myosin Heavy Chain = catena pesante della miosina.
[130] MLC : Myosin Light Chain = catena leggera della miosina.
[131] Fiocco sannita : prodotto stagionato composto dai muscoli semimembranosus, biceps femoris e semitendinosus nella proporzione di ~ 31, ~ 27 e ~ 42 % rispettivamente del Tipo Genetico Autoctono Antico (TGAA) suino ‘Casertana’.
[132] DJ-1: proteina il cui ruolo non è stato ancora completamente definito e che sembrerebbe avere funzione antiossidante; essa proteggerebbe, infatti, le cellule da stress ossidativo giocando un ‘ruolo chiave’ nel morbo di Parkinson (Hedrich et al., 2004).
[133] Caratteristiche lattodinamometriche: T=durata della fase enzimatica; K=velocità di coagulazione misurata dal tempo necessario affinché il tracciato lattodinamografico raggiunga un’ampiezza pari a 10mm (K10), o a 20 mm (K20) o a 30mm (K30); a = consistenza del coagulo misurata dopo 5 minuti dall’inizio della coagulazione (a5) dopo 10 minuti (a10), o dopo 20 minuti (a20) o dopo 30 minuti (a30).
[134]Submicelle : particelle sferiche formanti la micella costituite da una parte esterna rappresentata dalle caseine piú idrofile [alfas1-caseina (CSN1S1), alfas2-caseina (CSN1S2), kappa-caseina (CSN3)] e da un nucleo centrale idrofobo costituito dalla beta-caseina (CSN2); nella costituzione della submicella, le molecole CSN3 espongono i gruppi glicosidici all’esterno (verso il plasma latteo) mentre le molecole CSN1S1 e CSN1S2 si dispongono internamente alla micella in modo che i gruppi fosfato si leghino al calcio del fosfato colloidale, il quale funziona come legante tra ogni singola submicella.
[135] Allele F: alcuni studi hanno messo in evidenza che nel latte di soggetti portatori di tale allele viene liberato, per la maggiore attività lipasica, un maggior livello di acidi grassi a corta catena; fenomeno, quest’ultimo, che contribuirebbe al tipico flavour dei prodotti lattiero-caseari caprini .
[136] HPLC : High-Performance Liquid Chromatograph = cromatografia liquida ad alta prestazione.
[137] RP-HPLC/ESI-MS: Reversed-Phase High – Performance Liquid Chromatography/Electrospray Ionization Mass spectrometry = spettrometria a elettrospray di ionizzazione di massa/cromatografia liquida ad alta prestazione a fase inversa.
[138] Identificazione delle proteine mediante il MALDI-TOF: le proteine vengono identificate paragonando i pesi molecolari del peptide con i pesi molecolari teorici ottenuti dalla digestione ‘in silico’ di tutte le proteine presenti nella banca dati (Mortz et al., 1994).
[139] Immunoassorbimento: strategia operativa per rimuovere dal latte e dal colostro, prima dell’analisi 2D-PAGE, le proteine altamente abbondanti quali le IgG la bCN, mediante l’impiego di opportune colonne con anti-IgG e anti bCN immobilizzati.
[140] Fosforilazione: aggiunta di un gruppo fosfato alla catena laterale polare degli amminoacidi serina (Ser) o treonina (Thr) o tirosina (Tyr); tale processo conferisce idrofilicità alla proteina; esiste un ‘codice di fosforilazione’ o ‘sequenza di consenso’ rappresentata dalla sequenza: ‘amminoacido acido–X– (Ser o Thr o Tyr)’, ove X può essere un amminoacido qualsiasi .
[141] Glicosilazione: aggiunta di una catena glucidica agli atomi di azoto (N-glicosilazione) e di ossigeno (O-glicosilazione) di alcuni aminoacidi; la prima è prevalente nelle proteine delle membrane dei globuli di grasso del latte e interessa i residui di asparagina mentre la seconda avviene prevalentemente all’interno della k-caseina e interessa i residui di serina (Ser) e di treonina (Thr); nel caso della N- glicosilazione esistono due possibili ‘sequenze di consenso’: ‘Asn –X- Ser’ e Asn-X- Thr’, ove X può essere un amminoacido qualsiasi a eccezione della ‘prolina’; nel caso della O-glicosilazione, non esisterebbero ‘sequenze di consenso’; la glicosilazione può essere ‘naturale’ o ‘indotta’ da qualche fase del diagramma di flusso .
[142] Lattosilazione: addizione di lattosio ai gruppi amminici di proteine (reazione di Maillard) con formazione di specie ‘lattosilate’; tale reazione è facilmente rilevabile con i moderni strumenti MS in quanto le ‘specie lattosilate’ presentano un incremento della massa di 324 Dalton; tale incremento può essere correlato con la severità del trattamento effettuato.
[143] ‘Approccio differenziale’: approccio consistente nel rilievo del profilo proteico in due gruppi di individui ‘estremi’ per alcune manifestazioni fenotipiche al fine di individuare le principali differenze a livello di proteoma.

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