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MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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Emergenza Rifiuti

Quadro normativo ed emergenza in Campania

Nelle società moderne, il problema “rifiuto”, costituisce un fenomeno strettamente correlato allo stile di vita dei cittadini, nonché al sistema di produzione e distribuzione dei beni di consumi e alle normative che regolano questi due aspetti.
La qualità e la quantità di rifiuti prodotti dipende unicamente dalle abitudini acquisite dai cittadini, sempre più esigenti con il diffondersi del benessere economico, ma anche dai vincoli introdotti da varie norme, dettate per la salvaguardia di specifici interessi generali, quale ad esempio quello della tutela della salute.
Viene calcolato che ogni cittadino produce ogni giorno 1,5 kg di rifiuti, definiti urbani. A queste quantità occorre aggiungere i rifiuti assimilabili a quelli urbani, quelli derivanti da attività industriali, tra i quali assumono particolare rilievo quelli pericolosi, per il loro devastante impatto sul territorio.
Il problema riguarda, sia pure in diversa misura, ogni paese: ogni società oggi deve fare i conti con questo problema, perché si producono quantità enormi di spazzatura da smaltire, con spreco evidente di materia prima ( non più riproducibile ), che potrebbe essere recuperata con un accorto sistema di smaltimento, ma che, il più delle volte, finisce in un inceneritore o, peggio, in discarica, con grave nocumento per la stessa salute pubblica (che si vorrebbe, invece, salvaguardare), costellando il territorio di aree divenute a elevato rischio ambientale.
Basti pensare che gran parte della qualità dei rifiuti prodotti è costituita da imballaggi (primari, secondari e terziari ), che rappresentano circa il 35%, in peso, ed il 50% in volume dell’intero quantitativo giornalmente versato; da materiale ferroso, stagno ed altri elementi perfettamente recuperabili e riciclabili, mentre il loro mancato recupero comporta costi enormi per il loro smaltimento, che si scaricano poi sul cittadino.
Il “rifiuto” è, per definizione, un fattore di cui non si può fare a meno, perché ogni attività umana lascia traccia, ma può senz’altro essere contenuto entro limiti fisiologici, mediante una oculata politica di contenimento, mentre potrebbe non costituire un grave problema se fosse adottato un accorto sistema di raccolta e smaltimento.
Il modo migliore sarebbe quello di intervenire alla radice del fenomeno, cambiando lo stile di vita dei cittadini ed il sistema di distribuzione, ma poiché questo risulta di difficile attuazione, un soddisfacente risultato potrebbe essere raggiunto mediante una accurata selezione e controllo delle varie fasi del processo di smaltimento.
Una corretta gestione presuppone la condivisione e la indiscussa collaborazione di tutti i soggetti interessati, specialmente del cittadino.
In tal senso si è determinata anche l’Unione Europea che ha impartito, nel tempo, varie direttive agli Stati membri, che privilegiavano innanzitutto le attività intese alla riduzione del “rifiuto”, e, poi, il recupero, il riutilizzo, il riciclaggio e, infine, l’utilizzo del rifiuto per la produzione di energia. La raccolta dei rifiuti in Italia In Italia, il servizio di raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi urbani venne disciplinato, per la prima volta, con la legge 20 marzo 1941 ( art. 1 ). Tale compito veniva affidato espressamente ai Comuni, che potevano gestirlo con varie forme, e cioè in regime di privativa, con la gestione diretta del servizio, o con la concessione a privati, ai sensi del T.U. sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei Comuni e delle province, approvato con R.D. 15 ottobre 1925 n. 2578.
Con l’introduzione del regime repubblicano, tale compito trovava un indiscusso fondamento giuridico nell’art. 32 della Costituzione, che affida alla Repubblica la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e nell’art 9,comma 2°, che tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico del paese.
Tale obbligo veniva puntualmente espresso, con la legge 23 dicembre 1978 n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, che, dopo aver richiamato ( art 1 , comma 1°, della legge ) quanto sancito dall’art. 32 della Costituzione, statuiva ( art. 2, lett. h, della legge ) che si pervenisse alle finalità costituzionalmente stabilite anche con l’identificazione e l’eliminazione delle cause di inquinamento dell’atmosfera, delle acque e del suolo.
In merito, assume una particolare valenza la circostanza che il Sindaco, ai sensi dell’art 13 della legge citata, riveste il ruolo di Autorità locale sanitaria., e che, ai sensi dell’art. 32, comma 3°, nella materia dell’igiene e della sanità pubblica, detto organo (ed il Presidente della Giunta Regionale, con efficacia estesa al territorio della regione o a parte di essa, che sovrasta i limiti territoriali di uno o più Comuni ) può emettere, in presenza dei relativi presupposti, ordinanza di necessità ed urgenza.
Infine, la materia veniva regolamentata dalle varie direttive emanate dalla CEE, prima, e dalla Unione Europea, poi, l’inosservanza delle quali avrebbe comportato l’applicazione, a carico degli Stati inadempienti, di particolari sanzioni, previo esperimento della procedura di infrazione. Regime ordinario del ciclo di smaltimento dei rifiuti Con la istituzione delle Regioni, il D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 ( Attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 1975 n. 382 “ ), attribuisce in proposito una specifica competenza alle Regioni ordinarie.
Infatti, l’art. 101 del citato decreto stabilisce che la Regione, nell’ambito del più vasto compito della tutela ambientale, pure ad essa affidato, deve provvedere a disciplinare il ciclo dei rifiuti urbani e industriali, articolato nelle varie fasi della raccolta, della trasformazione e dello smaltimento.
La materia dello smaltimento dei rifiuti viene però disciplinata, in modo più completo ed organico, solo con il DPR 10 settembre 1982 n. 915 “ Attuazione della direttiva ( CEE ) n. 75/442, relativa ai rifiuti, n. 76/406 relativa allo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili e n. 78/319 relativa i rifiuti tossici “.
Con la richiamata norma viene delineata la rilevanza del servizio (“attività di interesse pubblico”), viene fornita la definizione del rifiuto e la sua classificazione, vengono individuate le varie fasi del ciclo di smaltimento ed, infine, viene delimitato il quadro delle competenze spettanti in materia ai vari soggetti pubblici territoriali e gli obblighi gravanti sugli altri soggetti, tra i quali i privati.
Secondo la norma, per rifiuto si doveva intendere qualsiasi sostanza od oggetto derivante da attività umane o da cicli naturali, abbandonato o destinato all’abbandono. I rifiuti sono classificati in urbani, speciali, tossici e nocivi.
Lo smaltimento dei rifiuti doveva avvenire attraverso le seguenti fasi: conferimento, raccolta, spazzamento, cernita, trasporto, trattamento, ammasso, deposito e discarica sul suolo e nel suolo.
Ogni singola operazione doveva essere organizzata in modo da evitare qualsiasi rischio e pericolo per la salute del singolo e della collettività; di inquinamento dell’aria, dell’acqua, del suolo e del sottosuolo, doveva salvaguardare la fauna , la flora, ed evitare il degrado dell’ambiente e del paesaggio.
Particolare importanza assumeva la fase del trattamento, anche per gli aspetti di rientro economico della spesa occorrente all’espletamento del servizio, in quanto finalizzata non solo alla rigenerazione o alla innocuizzazione dei materiali raccolti, ma anche al riciclo ed al riutilizzo degli stessi o alla produzione di energia.
Le attività inerenti allo smaltimento dei RSU competevano obbligatoriamente ai Comuni, che le esercitavano con diritto di privativa, e cioè direttamente o mediante aziende municipalizzate o affidamento in concessione a enti o imprese specializzate, autorizzate dalla Regione. A tale scopo, erano tenuti a disciplinare il servizio con l’adozione di un apposito regolamento.
Al Comune competeva, pure, l’obbligo dello smaltimento dei rifiuti speciali, derivanti dalla depurazione delle acque di scarico urbane o dallo smaltimento dei rifiuti urbani.
Allo smaltimento dei rifiuti speciali, tossici o nocivi, dovevano provvedere , a proprie spese, gli stessi produttori, o direttamente o ricorrendo ad imprese od enti autorizzati dalla Regione, o mediante conferimento agli stessi soggetti che gestiscono il servizio pubblico , con i quali deve essere stipulata apposita convenzione.
Le province, in attuazione del disposto dell’art. 104, comma 2°, del DPR 616/1977, erano preposte al controllo dello smaltimento, avvalendosi del servizi di igiene ambientale delle ASL, nonché dei presidi e dei servizi multizonali, previsti dall’art. 22 della legge 23 dicembre 1978 n. 833, e, ove questi non fossero stati istituiti, dai laboratori provinciali di igiene e profilassi.
Alla Regione, in particolare, veniva attribuito un ruolo strategico di pianificazione generale estesa all’intero territorio regionale, con la facoltà di emanare norme integrative di attuazione del DPR 915/1982 per l’organizzazione dei servizi di smaltimento e per la definizione delle procedure di controllo e di autorizzazione, nonché il compito di supporto per la realizzazione del ciclo di smaltimento , mediante l’individuazione , sentiti i Comuni interessati, delle zone idonee in cui realizzare gli impianti di trattamento e/o di stoccaggio temporaneo e definitivo dei rifiuti, il rilascio delle autorizzazioni ad enti od imprese ad effettuare lo smaltimento dei rifiuti urbani e speciali prodotti da terzi (le discariche non autorizzate sono espressamente vietate).
L’azione della Regione doveva essere adeguatamente sorretta da un servizio statistico di rilevazione ed elaborazione dei dati relativi alla produzione nel territorio regionale dei rifiuti e di quelli relativi all’importazione ed esportazione dei rifiuti tossici e nocivi, anche al fine di promuovere iniziative per limitare la formazione dei rifiuti e per favorire il riciclo e la riutilizzazione degli stessi e la produzione di energia.
Il sistema, così come delineato, trovava il suo momento di chiusura nella disciplina del potere di ordinanza, previsto per fronteggiare situazioni di contingibilità ed urgenza..
Tale potere (di ordinanza ) veniva riconosciuto alla Regione , ovvero al Sindaco, nell’ambito delle rispettive competenze, per la tutela della salute pubblica e la salvaguardia dell’ambiente, minacciati da situazioni urgenti,impreviste ed imprevedibili. Dette autorità potevano disporre il ricorso temporaneo- in deroga alle vigenti disposizioni- a speciali forme di smaltimento, informandone immediatamente il Ministro della Sanità.
L’esercizio di tale potere spettava al Ministro della Sanità, qualora si trattasse di fronteggiare una situazione, che per la sua estensione, investisse più di una Regione.
La legge 915/1982 riservava allo Stato una funzione di indirizzo, di promozione, consulenza e coordinamento delle relative attività, attraverso il Comitato Interministeriale, che, a sua volta, poteva avvalersi della collaborazione scientifica e tecnica dell’Istituto Superiore della Sanità, dell’Istituto Superiore per la prevenzione la sicurezza del lavoro, oltre che delle altre strutture amministrative competenti nella materia.
Nel frattempo, veniva emanata la legge 142/1990, che delineava il nuovo quadro ordinamentale delle autonomie locali e detta legge, con l’art. 14, comma 1°, lett. g), affidava alle province le funzioni amministrative concernenti l’organizzazione dello smaltimento dei rifiuti a livello provinciale.
Successivamente, viene emanata una nuova regolamentazione del ciclo dei rifiuti, con il D.Lgs 5 febbraio 1997 n. 22 ( decreto Ronchi ), che si uniforma ai seguenti principi (in attuazione delle direttive europee n. 91/156 sui rifiuti e n. 91/689 sui rifiuti pericolosi):
1. per rifiuto si intende qualsiasi sostanza che rientra nelle categorie riportate in un allegato al decreto (allegato A), di cui il detentore o produttore si disfi o abbia l’obbligo di disfarsi. Ogni rifiuto è individuato da una nomenclatura (comune per tutta l’area dell’Unione Europea), inserito in un Catalogo Europeo dei Rifiuti (CER), suscettibile di revisione periodica, anche in base ai progressi scientifici intervenuti.
2. la gestione dei rifiuti è regionalizzata e costituisce attività di pubblico interesse , che deve conformarsi ai principi di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti. Deve essere conseguita dalle regioni l’autosufficienza nello smaltimento dei rifiuti urbani non pericolosi, che deve essere organizzato per ambiti territoriali ottimali ( A.T.O. ).
3. la gestione dei rifiuti deve tendere alla prevenzione e alla riduzione della produzione e della pericolosità , nonché al riutilizzo, al riciclaggio ed al recupero di materia prima. Allo scopo, l’ente pubblico (Comuni, Consorzi ecc.) deve organizzare sistemi adeguati di raccolta differenziata, in modo da permettere al consumatore di conferire al servizio pubblico rifiuti di imballaggi selezionati da rifiuti domestici (imballaggi primari e secondari). Per il recupero ed il riciclaggio di tale prodotto è costituito il Consorzio nazionale imballaggi (CONAI). I beni durevoli, che hanno esaurito la loro durata, vanno consegnati al rivenditore al momento dell’acquisto di altro bene di equivalente tipologia, o agli appositi centri di raccolta o ad imprese pubbliche o private autorizzate a tale raccolta.
4. lo smaltimento dei rifiuti – che deve avvenire in condizione di sicurezza- costituisce la fase residuale della gestione dei rifiuti ed è attuato attraverso una rete integrata ed adeguata di impianti di smaltimento, realizzata con il criterio della “vicinanza geografica”, per ridurre quanto più possibile il movimento dei rifiuti stessi. Le operazioni di smaltimento sono elencate in un apposito allegato al decreto (allegato B). Subordinatamente all’adozione di alcune norme tecniche, previste dalla stessa norma- e dall’entrata in vigore delle stesse- è consentito smaltire in discarica solo i rifiuti inerti, i rifiuti individuati da specifiche norme tecniche ed i rifiuti che residuano dalle operazioni di riciclaggio, di recupero e di alcune operazioni di smaltimento, di cui all’allegato B (ad es. : impianti di incenerimento). Il decreto detta norme anche per la bonifica dei siti inquinati
5. a partire dal 1 gennaio 1999, la realizzazione e la gestione degli impianti di incenerimento possono essere autorizzati solo se il relativo processo di combustione è accompagnato da recupero energetico.
Alla regione competono in materia vasti compiti di programmazione, tra i quali quello della predisposizione di appositi piani regionali di gestione, la regolamentazione dell’attività di gestione dei rifiuti urbani e di quelli pericolosi- compresa la raccolta differenziata- la delimitazione degli ambiti territoriali ottimali ( ATO ), in deroga all’ambito territoriale provinciale.
Alla provincia sono attribuiti compiti di programmazione ed organizzazione dello smaltimento dei rifiuti a livello provinciale, funzioni di controllo, l’individuazione delle zone idonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento e di recupero, nonché l’organizzazione delle attività di raccolta differenziata dei rifiuti urbani e assimilati, sulla base di ambiti territoriali ottimali di livello provinciale, o come delimitati dalla regione.
I comuni devono provvedere ad effettuare la gestione dei rifiuti urbani e di quelli assimilati, avviati allo smaltimento in regime di privativa (temporanea). Possono istituire servizi integrativi per la gestione dei rifiuti speciali non assimilabili a quelli urbani. Ciclo di smaltimento dei rifuti nella Regione Campania, in regime di emergenza Quadro normativo e presupposti per la dichiarazione dello stato di emergenza Il potere del Commissario delegato per l’emergenza rifiuti in Campania trova il suo fondamento nella legge 24 febbraio 1992 n. 225, con la quale è stato istituito il Servizio Nazionale della protezione Civile ed, in particolare, nel disposto dell’art. 2 e dell’art. 5 di questa legge.
L’art. 2, ai fini della attività di protezione civile, individua tre fattispecie di eventi, a seconda della rilevanza degli stessi, per ognuno delle quali stabilisce il soggetto deputato ad intervenire per fronteggiare il fenomeno, delineando pure la natura e i poteri richiesti:
a) eventi naturali o connessi con l’attività dell’uomo che possono essere fronteggiati mediante interventi attuabili dai singoli enti e amministrazioni competenti in via ordinaria;
b) eventi naturali o connessi con l’attività dell’uomo che per la loro natura ed estensione comportano l’intervento coordinato di più enti o amministrazioni competenti in via ordinaria;
c) calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari.
A tale scopo, il successivo art. 3, chiarisce che sono attività di protezione civile non solo quelle di previsione e prevenzione dei rischi, e quelle dirette al soccorso delle popolazioni sinistrate, “ ma ogni altra attività necessaria ed indifferibile diretta a superare l’emergenza connessa agli eventi di cui all’art. 2”.
Per quanto riguarda gli “ eventi “ è pacifico che debba trattarsi di circostanze o situazioni che, per intensità ed estensioni, non possano che essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari.
Infine, l’art. 5 stabilisce che al verificarsi degli eventi di cui all’art. 2, comma 1°, lett. c), il Presidente del Consiglio dei Ministri- o, su sua delega, il Ministro per il coordinamento della protezione civile- delibera lo stato di emergenza, determinandone durata ed estensione territoriale in stretto riferimento alla qualità e alla natura degli eventi da fronteggiare, per i quali si provvede anche a mezzo di ordinanze in deroga ad ogni disposizione vigente, ma, comunque , sempre nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico.
Queste ordinanze devono pure contenere l’indicazione delle principali norme a cui si intende derogare e devono essere adeguatamente motivate.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri (o il Ministro per il coordinamento per la protezione civile, per sua delega) può avvalersi di commissari delegati ed, in tal caso, il provvedimento di nomina deve indicare il contenuto della delega conferita, delimitandone i tempi e le modalità di esercizio.
La delega, pertanto, non può essere a contenuto generale, pena la illegittimità dell’incarico conferito e dei poteri esercitati, con la conseguenza che gli stessi atti posti in essere dal Commissario delegato possono essere validamente sindacati dal giudice competente, sotto il profilo della loro legittimità.
Si tratta, infatti, di uno strumento di intervento di assoluta eccezionalità, che potrebbe, per l’ampiezza dei poteri conferiti e per il carattere derogatorio che li accompagna, dimostrarsi lesivo degli interessi e dei poteri spettanti ad altri soggetti, anch’essi costituzionalmente riconosciuti e garantiti, quali la regione, a statuto ordinario o speciale, la provincia ed il comune.
A tale scopo, è stato precisato che lo stato di emergenza deve essere dichiarato per un periodo predeterminato, che deve essere strettamente commisurato alla durata dei presupposti che hanno giustificato il ricorso a misure di intervento eccezionali e derogatorie, ed il relativo provvedimento deve specificare in modo inequivocabile il nesso di strumentalità esistente tra le norme, di cui si consente la temporanea sospensione , ed i poteri che si intendono esercitare,in quanto necessari per fronteggiare l’emergenza ed il ripristino della situazione di normalità. Tali poteri, quando necessario, devono essere esercitati previa intesa con la regione.
Sotto tali profili, la stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale, investita del relativo sindacato di legittimità, ha riconosciuto la legittimità dell’art. 2 della legge 225/1992, in quanto non in contrasto con le norme della nostra Costituzione ( Sent. Corte Costituzionale n. 127 del 5-14 aprile 1995 ). Le vicende dell’emergenza in Campania L’emergenza rifiuti in Campania ha inizio ufficialmente nell’anno 1994, allorché il Presidente del Consiglio dei Ministri, con ordinanza dell’11 febbraio, individua nel Prefetto di Napoli l’organo al quale conferire, in qualità di Commissario delegato, poteri straordinari per agire, in sostituzione degli altri enti territoriali interessati, per fronteggiare la situazione di emergenza in atto nel settore dei rifiuti.
Il prefetto di Napoli - che allo scopo si avvalse dei Prefetti delle varie province campane- indirizzò concretamente i suoi poter verso due obiettivi considerati immediati: da un lato, facilitare il conferimento in discarica dei rifiuti ammassati sulle strade ed in altri luoghi pubblici, ripristinando la normalità nella raccolta ed il recupero delle necessarie condizioni igienico- sanitarie; e dall’altra, affidare la gestione delle stesse discariche alla mano pubblica, in modo da sottrarre il settore al rischio di infiltrazione da parte della malavita organizzata.
Il raggiungimento di questi due obiettivi appariva pregiudiziale alla preparazione delle condizioni ottimali per la realizzazione di un adeguato ed efficiente sistema di smaltimento dei rifiuti sul territorio, in aderenza alle norme del nostro ordinamento ed alle direttive europee in materia.
Lo stesso Prefetto di Napoli, Commissario delegato all’emergenza rifiuti, provvide a realizzare varie discariche, la cui gestione fu affidata ai Consorzi di Bacino, costituiti con la legge della Regione Campania n.10/1993, nonché a disporre la chiusura delle discariche abusive, funzionanti sul territorio, peraltro, sospettate di essere gestite attraverso organizzazioni criminali.
Successivamente, il Prefetto di Napoli venne prima affiancato, e poi definitivamente sostituito con OPCM del 18 marzo1996, in qualità di Commissario delegato, dal Presidente della Giunta regionale della Campania.
La ragione di tale sostituzione veniva individuata nella necessità di dare nuovo impulso alla gestione dei rifiuti nella Regione Campania, attuando un piano regionale per gli interventi urgenti per arrivare alla fine dello stato di emergenza.
In proposito, si deve evidenziare che il Parlamento italiano aveva all’esame, in quel momento, nuove norme finalizzate a dare applicazione sul territorio nazionale a recenti direttive emanate in materia a livello europeo. Le nuove norme furono varate dal Parlamento, con l’emanazione del D.Lgs 5 febbraio 1997 n. 22.
Il Commissario delegato, nella persona del Presidente della Giunta Regionale, predispose, fin dal primo momento, un piano regionale che doveva costituire un programma di ampio respiro, inteso a porre in essere le condizioni strutturali per il funzionamento in regime di normalità del ciclo dello smaltimento dei rifiuti.
Il piano puntava all’attivazione della raccolta differenziata e, strutturalmente, alla realizzazione di impianti necessari per la selezione dei rifiuti, preparazione di compost e frazioni nobili (carta, plastica, alluminio, metallo e legno), per la produzione di rifiuto da utilizzare come combustibile e, infine, per la produzione di energia, attraverso la costruzione di nove impianti di CDR e sette termovalorizzatori.
Il programma predisposto subì, quasi subito, una modifica, con il ridimensionamento del sistema impiantistico, deciso con ordinanza del Commissario delegato n. 27 del 9 giugno 1997, che prevedeva la costruzione di sette CDR (tre per la provincia di Napoli e uno per ciascuna provincia campana) e di due termovalorizzatori, che dovevano operare su scala regionale.
Lo stesso piano regionale fu assoggettato ad una radicale revisione con altra ordinanza del Commissario delegato n.319 del 30 settembre 2002 “Piano di ridefinizione gestionale del ciclo integrato dei rifiuti nella Regione”, che ebbe il pregio di adeguare , sotto il profilo organizzativo, il sistema dello smaltimento, ancora in una fase di emergenza, ai principi contenuti nel D.Lgs 22 del 5 febbraio 1997.
Infatti, oltre alla ridefinizione del bisogno impiantistico, si riorganizzarono anche le competenze dei vari soggetti territoriali, mediante l’ istituzione degli ATO (Ambiti Territoriali Ottimali), e sub ATO, a cui affidare l’esercizio (in forma associata) delle funzioni amministrative in materia di rifiuti. Fu anche previsto un Ente Provinciale d’Ambito per il ciclo integrato dei rifiuti (EPAR), a cui affidare il coordinamento della gestione amministrativa delle attività di ambito provinciale, la titolarità della rete impiantistica, la fornitura ai Comuni di servizi collaterali e integrativi e, infine, il compito di provvedere alla determinazione ed applicazione della tariffa unitaria del ciclo integrato dei rifiuti.
Questa previsione organizzativa, se attuata, avrebbe avuto il merito di anticipare in modo chiaro quello che sarebbe stato il quadro finale del sistema dello smaltimento dei rifiuti in Campania, sia pure sotto il profilo dell’organizzazione amministrativa dei relativi poteri, in vista del passaggio al regime ordinario, ma questo non fu possibile, perché il Consiglio di Stato, con decisione del 2 luglio 2002, a seguito di ricorso proposto, in sede di appello, dalla Ecocampania S.r.L., annullava con efficacia erga omnes l’ordinanza del Ministro dell’interno, Delegato per il coordinamento della Protezione civile, n. 3100 del 22 dicembre 2000, nella parte in cui ( art. 4, comma VII ) attribuiva, in via generale, al Commissario per l’emergenza rifiuti nella Regione Campania, “l’esercizio delle funzioni amministrative relative alla gestione dei rifiuti”.
A causa di tale annullamento, del menzionato piano regionale restava in piede solo la parte relativa all’organizzazione impiantistica, che, peraltro, non è stata neppure ancora completata, non essendo stati realizzati i due termovalorizzatori, con effetti disastrosi sulla efficacia delle stesse operazioni di raccolta dei rifiuti sul territorio, provocando una gravissima crisi nella crisi, allontanando ancora di più la fine della fase dell’emergenza, che ormai si trascina da circa quattordici anni.
La fase dell’emergenza fino ad oggi non è ancora terminata. Essa è stata, negli anni successivi, di volta in volta prorogata, con vari provvedimenti, fino al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 28 dicembre 2007, che ha indicato per il regime dell’emergenza la data del 30 novembre 2008.
Nel frattempo, entrava in vigore il D.lgs 3 aprile 2006 n. 152 “T.U. sull’ ambiente”, che dettava, tra l’altro, nuove norme, in materia di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati (Parte Quarta), rimodulando le fasi e i tempi per la gestione ordinaria del ciclo dello smaltimento dei rifiuti.
In precedenza, con decreto legge 11 maggio 2007 n. 87, convertito , con modificazione, con legge 5 luglio 2007 n. 87, furono emanate ulteriori disposizioni per disciplinare gli interventi straordinari per superare l’emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella Regione Campania, ma furono anche indicati tempi e modalità per garantire il passaggio dei relativi poteri agli enti ordinariamente competenti.
A seguito dell’acuirsi della crisi alla fine dell’anno 2007, proseguita durante l’inizio dell’anno 2008, c’è stato un mutamento nella stessa struttura commissariale, con la nomina di due figure di commissari delegati: il Prefetto, dott. Gianni De Gennaro, nominato con OPCM 11 gennaio 2008, per un periodo di 120 giorni, con l’incarico di porre in essere gli atti necessari per il superamento della fase di emergenza; il Prefetto, dott. Goffredo Sottile, nominato con OPCM 3653 del 30 gennaio 2008, ed incaricato di accompagnare il sistema alla sua definitiva liquidazione, con il passaggio dei relativi poteri agli organi ordinari. Fattori che hanno determinato la sofferenza del sistema di smaltimento La prima causa è da ricercarsi nella bassa percentuale complessiva, a livello regionale, della raccolta differenziata ( il 12% circa ).
Solo alcuni Comuni della Campania, infatti, hanno seriamente affrontato il problema, raggiungendo anche livelli apprezzabili nella raccolta, ma la maggior parte o ha disatteso l’obbligo, o ha ottenuto solo modesti risultati.
E’ da sottolineare che la normativa vigente stabiliva il traguardo del raggiungimento della percentuale del 35% nell’anno 2006, in ciascun Comune.
Non sono mancati neppure momenti di confusione e dubbi circa il soggetto obbligato alla raccolta differenziata, a causa della contraddittorietà della normativa vigente, ordinaria e straordinaria.
L’art. 5 del D.L. 30 novembre 2005 n. 45, convertito con modificazione dalla legge 27 gennaio 2006 n. 21, statuiva che i Comuni avrebbero dovuto effettuare la raccolta differenziata attraverso i Consorzi di bacino, di cui alla legge regionale 10/1993.
Successivamente, in conformità a quanto disposto dal citato decreto legge, con OPCM del 9 febbraio 2007 ( art. 5 ) veniva ribadito l’obbligo dei Comuni di avvalersi dei Consorzi di bacino per lo svolgimento del servizio di raccolta differenziata e, a tale scopo, si facevano appositamente salvi i contratti già stipulati dai Comuni per l’affidamento della raccolta del rifiuto sia differenziato che indifferenziato, fino allo loro scadenza , ma che , comunque, non potevano essere prorogati.
I Consorzi di bacino avrebbero dovuto garantire lo svolgimento del servizio, mediante l’impiego delle quote di lavoratori socialmente utili, a ciascuno di essi assegnate con ordinanza del Ministro dell’Interno, Delegato al coordinamento della protezione civile, n. 2948 del 25 febbraio1999.
In merito, si deve pure considerare che, al fine di consentire l’ulteriore implementazione della raccolta differenziata con l’utilizzazione dei LSU, con OPMC del 30 giugno 2006 ( art. 3 ), veniva autorizzata l’erogazione di un contributo ai predetti Consorzi di 43.000.000,00 euro, e la copertura della spesa veniva in parte assicurata “applicando, a partire dal 1 giugno 2006, un ulteriore maggiorazione pari ad euro 0,018 per kg di rifiuto conferito, per i Comuni della Regione Campania che alla data del 31.12.2005,non hanno raggiunto una percentuale di raccolta differenziata pari almeno al 35% su base annua”.
In sostanza, statuito l’obbligo per i Comuni della raccolta differenziata attraverso i Consorzi di bacino, si finanziava almeno in parte la relativa spesa, scaricandone gli oneri sui Comuni più inadempienti.
Non pare che i Consorzi di bacino siano stati in grado di organizzarsi allo scopo.
La Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, istituita con legge 31 ottobre 2001 n. 399, ne ha sottolineata tutta l’importanza al fine di uscire dal tunnel dell’emergenza (Relazione approvata nella seduta del 26 gennaio 2006 ) “…in assenza di un’efficace raccolta differenziata e a causa del grave ritardo nella realizzazione degli unici due impianti di termovalorizzazione previsti, hanno finiti col produrre il definitivo collasso del piano”.
Nel quadro delle scelte strategiche operate dal Commissario straordinario delegato per il ciclo dei rifiuti, un ruolo importante era assegnato agli impianti di produzione di Combustibile da Rifiuti ( CDR ),ai quali dovevano essere conferiti dai Comuni (o dai Consorzi di Bacino) i rifiuti solidi urbani raccolti, previa selezione degli stessi da operarsi con la raccolta differenziata.
Gli impianti in questione avrebbe dovuto realizzare, attraverso un apposito processo di lavorazione, la suddivisione dei rifiuti conferiti in una parte umida, definita Frazione Organica Stabilizzata (FOS o FORSU), e in una parte secca.
La frazione secca ottenuta, racchiusa in balle (o meglio, in ecoballe) doveva essere destinata ad essere bruciata nei costruendi termovalorizzatori.
La parte umida, invece, ottenuta mediante un processo di “stabilizzazione” (processo di raffinazione), che prevedeva il deposito del materiale per un periodo di un mese presso locali appositamente attrezzati, durante il quale il materiale stesso avrebbe perso acqua, anidride carbonica ed altri gas, con notevole riduzione della sua massa, avrebbe dovuto essere destinata a fini di recupero ambientale.
A seguito del procedimento di lavorazione prima descritto, i c.d. “sovvalli” (codice CER 19 12 12), e cioè il materiale secco, costituente vero e proprio scarto di lavorazione, dovevano rappresentare l’unica parte destinata allo smaltimento in discarica.
Sennonché, di fatto, gli impianti di CDR non sono mai riusciti a realizzare Combustibile da Rifiuto (CDR), la FOS non è stata mai prodotta ed è aumentata enormemente, rispetto a quanto programmato, la quantità di “sovvalli”, che veniva a rappresentare l’intera quantità dei rifiuti conferiti, compresa la parte umida e quella secca, che doveva essere tutta portata a discarica.
Altro problema era quello dello stoccaggio delle balle comunque prodotte (e non più definibili ecoballe), che, peraltro, non presentavano le qualità richieste per l’utilizzo nei costruendi termovalorizzatori, per l’alto contenuto di carta, plastica, legno ed altro materiale.
Questa situazione ha ulteriormente aggravata la fase emergenziale, in quanto non disponibili impianti di discarica in numero e dimensioni sufficienti per l’intera massa dei rifiuti conferiti,e per le stesse balle prodotte si è dovuto sopperire mediante il ricorso allo stoccaggio presso gli stessi impianti ( ex CDR ), con grave pregiudizio per la loro sicurezza, a causa dell’elevato carico di incendio teorico.
In alcuni impianti di CDR (vedi impianto di Tufino, come risulta dalla Ordinanza di sequestro preventivo della Procura di Nola p.p.n. 5683/2006 RGNR del 3 agosto 2006, che risultava pure privo del Certificato di Prevenzione Incendi), questo materiale, maleodorante per la presenza di umidità e di percolato, ammassato in ingente quantità, incendiatosi per autocombustione, ha subito una ulteriore trasformazione delle sue caratteristiche, tanto che l’Asl competente si è indotta a classificare tale rifiuto, in base al principio di precauzione[1], con il codice CER 19 12 11 (rifiuto pericoloso), classificazione che rendeva ancora più problematico il suo smaltimento presso una discarica autorizzata.
Il Governo,a sua volta, preso atto della situazione, invece di impartire direttive utili ad uscire da una situazione che faceva presupporre un aggravarsi sempre maggiore della crisi intervenuta, per la grande quantità di rifiuti accumulatosi e da portare a discarica, si è affrettato ad emanare nuove disposizioni, intese a “regolarizzare” il funzionamento degli impianti, ormai ex CDR, riconoscendoli quali semplici impianti di tritovagliatura di rifiuti indifferenziati.
Infatti, da un lato, con OPCM n. 3481 del 29 dicembre 2005, ha riconosciuto tale situazione, modificando radicalmente la natura e destinazione degli impianti CDR, trasformandoli in “Impianti Regionali di Selezione dei RSU”; dall’altra, con ordinanza n. 3523 del 30 giugno 2006, ha conferito al Commissario delegato ulteriori e più ampi poteri, autorizzandolo a procedere all’apertura di nuovi siti da adibire a discarica per i rifiuti solidi urbani. Risultanze della Commissione parlamentare di inchiesta Le conclusioni dell’organo parlamentare citato circa le cause del mancato superamento della crisi, confermano quanto esposto, e possono sintetizzarsi come segue. a) per quanto concerne la realizzazione dell’impiantistica, in particolare dei i termovalorizzatori, sono stati presentati progetti (con il sistema del project financing) , difformi dagli atti di gara; in sede di esame degli atti di gara, da parte dell’apposita commissione, non è stato attribuito il giusto rilievo al criterio del merito tecnico, rispetto a quello dei tempi di realizzazione, privilegiando la celerità nella realizzazione a scapito della qualità; in merito alla procedura Via[2] (Valutazione di impatto ambientale) dell’impianto di termovalorizzazione di Acerra vi sarebbe stato un altalenarsi di disposizioni contenute nelle ordinanze commissariali, facendo uso del potere di deroga. Ad una prima ordinanza che prevedeva espressamente l’esperimento della procedura Via, si è passato, prima, ad una mera “valutazione degli aspetti ambientali”, quale semplice parere costruttivo espresso dalla stessa Commissione Via, con sede presso il Ministero dell’Ambiente, si è ritornato nell’anno 2004, con le ordinanze n. 3369 del 13 agosto e n. 3370 del settembre, di nuovo a parlare di procedura Via, ma con un significato più ridotto; gli im pianti realizzati sono difformi dai progetti approvati:
b) è stato prodotto CDR (Combustibile da Rifiuto) di qualità diversa da quella fissata, con un potere calorifero inferiore al 25%, con un valore di piombo, arsenico e cloro, oltre i limiti consentiti, e quindi inutilizzabile per il funzionamento del termovalorizzatore. Esso è da definirsi semplicemente Rifiuto Solido Urbano, “tal quale” , da inviare a discarica;
c) il “compost” prodotto non è idoneo ad essere utilizzato per il recupero ambientale (ripristino e ricomposizione ambientale);
d) in varie circostanze, le ditte affidatarie hanno impedito o ritardato il conferimento dei rifiuti solidi urbani con i camion delle aziende di raccolta, costringendo il Commissario straordinario a disporre l’imballaggio degli stessi ed il trasporto in altre regioni o all’estero;
e) i trasporti e la gestione delle discariche sono stati subappaltati, con il rischio di alimentare le infiltrazioni camorristiche;
f) in attesa di realizzare i termovalorizzatori non è stato effettuato il recupero energetico delle balle (ecoballe) di CDR., in contrasto con quanto stabilito dai capitolati di appalto per la gestione dei CDR, che, in previsione del prolungarsi dei tempi relativi, l’affidataria avrebbe dovuto comunque provvedere alla valorizzazione del CDR prodotto in impianti alternativi: cosa che non è mai avvenuta. Conclusioni Allo stato appare ben difficile che possa essere superato lo stato di emergenza nei limiti temporali indicati (entro il 30 settembre 2008) per dare corso ad una gestione ordinaria del ciclo di smaltimento dei rifiuti in Campania, in quanto permangono tuttora le condizioni che hanno determinato il ricorso all’istituto della dichiarazione dell’emergenza di cui all’art. 5 della legge 225/1992, come ancora persistono le ragioni di ordine igienico sanitarie iniziali, perchè nulla è stato realizzato in termini strutturali, per la loro eliminazione.
Per quanto riguarda l’impiantistica, non è stata neppure ancora espletata la gara per l’affidamento dei lavori di completamente del termovalorizzatore di Acerra, né è stato dato l’avvio delle procedure per l’appalto di quello di S.Maria la Fossa.
Le ragioni non sono solo di ordine tecnico, ma, per Acerra, attengono anche alla circostanza che non sono stati del tutto chiariti i dubbi in ordine alla situazione ambientale del contesto in cui l’impianto deve funzionare.
In attesa che la magistratura, civile e penale, si pronunci in merito ai contratti a suo tempo stipulati con la ditta affidataria del servizio, e sulle responsabilità connesse, non è chiaro come si debba provvedere, tanto che il legislatore ha ritenuto di stabilire, nel frattempo, un discutibile regime transitorio, con l’art. 1 bis del D.L. 263 del 9 ottobre 2006, convertito con legge 290 del 6 dicembre 2006: “….le attuali affidatarie del servizio di smaltimento dei rifiuti nella Regione Campania sono tenute ad assicurare la prosecuzione e provvedono alla gestione delle imprese ed all’utilizzo dei beni nella loro disponibilità, nel puntuale rispetto dell’azione di coordinamento del Commissario delegato”.
Altresì, per l’avvio di un valido efficiente servizio di raccolta differenziata da parte dei soggetti competenti, non appaiono superati i dubbi interpretativi sorti in proposito.
Di recente, il Commissario ex OPCM 3653 del 30 gennaio 2008, con propria circolare n. 5524 del 19 marzo 2008, ha espresso la sua opinione, ribadendo l’esistenza di tale obbligo a carico dei Consorzi di bacino, in virtù dell’art. 4 del D.L. 11 maggio 2007 n. 61, convertito, con modificazioni, con la legge 5 luglio 2007 n. 87.
Bisogna, però, rilevare che l’OPCM dell’ 11 gennaio 2008 n. 3639 impone ai Comuni campani l’obbligo di elaborare, anche in forma associata, il piano per la organizzazione della raccolta differenziata, assegnando, allo scopo, 60 giorni, ed il compito di avviarne la realizzazione nei successivi trenta giorni, prevedendo, in caso di inadempienza, la nomina di un commissario ad acta, per l’esercizio di poteri sostitutivi.
A rendere ancora più problematico il quadro normativo di riferimento, da cui far discendere l’individuazione del soggetto competente ad organizzare ed attuare la raccolta differenziata, sono le norme di recente adottate dalla Regione Campania.
In data 28 marzo 2008, il Consiglio regionale della Campania nell’approvare alcune modifiche da apportare alla legge regionale 28 marzo 2007 “Norme in materia di gestione, trasformazione e riutilizzo dei rifiuti e bonifica dei siti inquinati”, ha disposto che i Consorzi obbligatori per lo smaltimento dei rifiuti cessano dalle loro funzioni ed i loro poteri sono trasferiti alle province.
Al momento, il collasso di un sistema- la cui realizzazione era appena agli inizi- comporta l’affannosa e continua ricerca di nuovi siti, dove stoccare le balle provenienti dagli impianti di produzione CDR, in attesa di essere smaltite in un modo o nell’altro, mentre l’inarrestabile produzione giornaliera dei rifiuti impone di nuovo il ricorso alle discariche pubbliche, con grave rischio sia per l’ambiente che per la salute del cittadino, che oggi dovevano rappresentare solo un lontano ricordo.
Non c’è che dire! Lo scenario che si presenta gli occhi del cittadino campano è esattamente quello di 14 anni fa, ed è forse più grave di allora.

[1] Il principio di precauzione viene previsto e regolamentato dall’art. 301 del D.Lgs 3 aprile 2006 n. 152, in attuazione di quanto previsto dall’art. 174, paragrafo 2, del Trattato CE. In base a tale principio , in caso di pericoli, anche solo potenziali per la salute umana e per l’ambiente, individuati dall’operatore interessato, a seguito di una preliminare valutazione scientifica obiettiva, devono essere adottate immediatamente le misure necessarie, intese ad assicurare un alto livello di protezione al bene tutelato (salute e ambiente ). L’operatore è altresì tenuto ad informarne, senza indugio, le seguenti autorità: il Sindaco del Comune, il Presidente della Regione ( o della Provincia autonoma ) , nel cui territorio si è verificato l’evento, nonché il Prefetto della Provincia, che deve darne informazioni, nelle ventiquattro ore successive, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, il quale ha facoltà di adottare, n qualsiasi momento, misure di prevenzione, ai sensi del successivo art. 304, aggiornabili alla luce di nuovi dati scientifici. “La prima elaborazione concettuale del principio di precauzione risale alla fine degli anni ottanta, nell’ambito della discussione sullo sviluppo sostenibile e sulla prevenzione degli episodi di inquinamento ambientale; in particolare, trovava origine durante i lavori della Seconda e Terza Conferenza sulla Protezione del Mare del Nord, rispettivamente del 1987 e del 1990. Sancito dalla Convenzione d Rio de Janeiro su “Ambente e sviluppo”, in particolare, inserito al punto 15 della “Dichiarazione di Rio” nel 1992, veniva ampliato e sviluppato nella “Convenzione d Parigi per la protezione dell’ambiente marino dell’Atlantico del nord-est” del settembre 1992 e nel “ Protocollo di biosicurezza “ adottato a Montreal il 28 gennaio 2000. Il trattato di Amsterdam del 1999, riprendendo le disposizioni già introdotte da Trattato di Maastricht del 1992, poi trasfuso nel Trattato Ce del 1994, nell’art. 174 prima parte, stabilisce: “La politica della Comunità in materia ambientale mira ad un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga” “ (L.D. Attori- F.R. Fragile- C. Guerrieri - A. Martelli- G. Zennaro : “Il Testo Unico Ambiente- Commento al D.Lgs 3 aprile 2006, n. 152 “, pagg. 258-259, Edizioni Giuridiche Simone.)
[2] Il procedimento VIA (Valutazione di impatto ambientale) costituisce una istruttoria a carattere tecnico- scientifico, eseguito da una apposita commissione del Ministero dell’Ambiente, effettuata con la partecipazione del pubblico che esprime le sue valutazioni, a seguito di un’istruttoria a carattere tecnico- scientifico e interdisciplinare ,intesa a stabilire la compatibilità ambientale di un progetto (pubblico o privato) che appare suscettibile di provocare effetti rilevanti sull’ambiente. La VIA era prevista dalla direttiva CEE n. 337 del 27 giugno 1985, che fu recepita dallo Stato italiano, mediante l’introduzione di n regime transitorio regolato dalla legge 349/1986.
Oggi è regolata dal d.lgs 3 aprile 2006 n. 152, che disciplina pure la procedura Vas (Valutazione ambientale strategica) per i piani e programmi, e la AII (Autorizzazione ambientale strategica, definita pure IPPC, acronimo di Integrated Pollution Prevention and Control) per i progetti.

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