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MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
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Ambiente. L’impronta che lasciamo

L’impronta ecologica serve a misurare i consumi e a comprendere che stiamo intaccando il capitale naturale

Maria Antonietta La Torre

(pubblicato in “Noi donne”, settembre 2013, pp.8-9)

Da alcuni anni si tenta di dare concretezza alla preoccupazione per il consumo di risorse ambientali elaborando sistemi di misurazione che possano proporre un'idea chiara ai singoli cittadini del loro effettivo uso di risorse ed energia e, di conseguenza, del loro impatto sul pianeta. Questa strategia appare utile a rendere meno astratta la questione ecologica, a fornire a ciascuno un'immagine reale del proprio livello di consumo e, elemento particolarmente importante, a consentire di porre a confronto i consumi dei paesi sviluppati con quelli meno sviluppati.
Nel 1996 il volume di Wackemagel e Rees, Our Ecological Footprint: reducing Human Impact on the Earth, introdusse il concetto di "impronta ecologica" ad indicare la misurazione dell'area necessaria a sostenere i consumi e smaltire i rifiuti prodotti da una popolazione, una città, un individuo; essa "misura quanta superficie in termini di terra e acqua la popolazione umana necessita per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per assorbire i rifiuti prodotti". È un modo efficace che consente di "visualizzare" quanto "pesa" sul pianeta il nostro stile di vita. In particolare, poi, l'urban ecological footprint propone una rappresentazione del carico ecologico degli agglomerati urbani, i quali sono sostanzialmente parassitari nei riguardi dell'ambiente, in quanto attingono risorse e "in cambio" producono rifiuti, per lo più xenobiotici, e come tali non riciclabili in natura. Il WWF ha ripreso questo modello ed elabora periodicamente proprio sulla base di esso un Rapporto sullo stato del pianeta. Il Global Footprint Network, un'associazione sorta nel 2003 con l'obiettivo di promuovere l'adozione di questo indicatore per la realizzazione di economie e società sostenibili, costruendo anche città e edifici che siano commisurati alle risorse che il pianeta può offrire, attualmente calcola la biocapacità di 200 nazioni per mostrare la compatibilità delle loro scelte con la tutela del patrimonio naturale e sollecita le amministrazioni a tener conto di questi dati, a raccoglierli, a contribuire a misurare l'impronta ecologica.
Tuttavia l'impronta ecologica appare ormai un indicatore generico, che riunisce in un unico modello territori con diverse caratteristiche e potenzialità, e non fa differenza, ad esempio, tra consumo di risorse rinnovabili e non rinnovabili. Perciò si studia come affinare e conseguire una maggior precisione ed efficacia nelle misurazioni e si è passati a proporre altri e più precisi e peculiari indicatori e standard da condividere. Ad esempio si propone ora il calcolo dell'impronta di carbonio, o carbon footprint, cioè "la quantità totale di gas serra prodotta durante le attività umane", che è uno degli elementi che compongono l'impronta ecologica. La carbon footprint di un individuo è la somma di tutte le emissioni equivalenti o traducibili in anidride carbonica riconducibili alle sue attività in un certo periodo di tempo, espressa in "tonnellate equivalenti di anidride carbonica". Ad esempio l'uso di un litro di benzina equivale all'emissione di 2,4 kg di Co2, così è possibile calcolare approssimativamente la carbon footprint personale e rendersi conto della propria incidenza sulla salute del pianeta. Il WWF, particolarmente interessato alle emissioni e alla questione climatica ad esse connessa, mette a disposizione un calcolatore dell'impronta di carbonio (http://www.improntawwf.it/), attraverso il quale ciascuno può verificare (disponendo dei propri dati di consumo di gas metano, combustibili, energia) quanto è grande l'impronta lasciata.
L'impronta ecologica globale del continente africano, secondo gli ultimi dati sistematici disponibili (2008), è di 1,4 (dato che risulta da un calcolo complessivo, ma dietro il quale vi sono lo 0,5 del Malawi, lo 0,8 del Rwanda e il 4,3 della Libia), mentre l’impronta del Nord America è di 9,2 e quella dell'Unione Europea di 4,7 (dal 2,7 della Bulgaria all' 8,0 della Danimarca). L'Italia è al 4,8: ciò significa che consuma una porzione di risorse sul pianeta di gran lunga maggiore di quella dei paesi africani o asiatici (l'Asia si attesta tra l'1,6 e il 2,3 di media per area). Avere un'impronta ecologica elevata significa essere in debito col capitale naturale a propria disposizione e dunque fa comprendere a tutti con piena evidenza che per mantenere certi livelli di consumo si utilizzano risorse che non sono di diritto a propria disposizione, ma che spetterebbero ad altre popolazioni. Se possiamo mantenere un certo standard di benessere è solo perché molti altri non hanno questa opportunità; pertanto, se tutti aspirassero agli stessi consumi, le risorse planetarie non sarebbero sufficienti: ci vorrebbe un altro pianeta a cui attingere risorse! Questo calcolo serve a comprendere che stiamo vivendo al di sopra delle possibilità che la terra fornisce, che stiamo cioè intaccando il capitale naturale e non limitandoci a utilizzare "gli interessi": il contrario, insomma, della gestione del "buon padre di famiglia". Il nostro futuro dipende dalla nostra capacità di invertire questa tendenza.

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