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MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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Pre Festival di Bioetica 2024

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Alcune riflessioni sugli OT (OGM)(*)

Donato Matassino, Mariaconsiglia Occidente

Relazione svolta al X Corso di formazione in Bioetica dell'Istituto Italiano di Bioetica Campania

Sommario

1.Introduzione. 2. Transgenia. 2.1. Applicazioni e potenzialità degli OT. 3. Alcune problematiche e analisi dei potenziali rischi. 3.1. Impatto sulla salute umana. 3.1.1. Tracciabilità e rintracciabilità 3.1.2. Complessità. 3.2. Impatto ambientale. 3.3. Impatto economico-sociale. 3.3.1. Brevettabiltà. 4. Alcuni documenti di riflessione. 5. Conclusioni. 6. Approfondimenti e/o Bibliografia.

GRAFICI E TABELLE

1. Introduzione
I vorticosi progressi della biologia e, soprattutto il loro significato operativo, date le notevoli implicazioni sociali, etiche, economiche e ambientali, lasciano ‘disorientati’ non solo i cosiddetti ‘uomini della strada’, ma anche gli stessi ricercatori e scienziati sollecitando l’opinione pubblica a un ampio dibattito sul significato e sul valore, per il benessere fisico, psichico e sociale dell’uomo, del sapere e del progresso scientifico, nel tentativo di trovare una mediazione tra ‘libertà della ricerca scientifica’ ed ‘esigenza di regolamentazione’.
La corretta informazione scientifica dei risultati della ricerca e la corretta utilizzazione operativa degli stessi sono due condizioni necessarie affinché l'umanità possa usufruire delle innovazioni ai fini del miglioramento del proprio 'status' di vivente.
Il sistema educativo, a qualsiasi livello, costituisce lo strumento principe per permettere una continua elaborazione 'culturale' in grado di facilitare l'immissione dell'individuo, con notevole capacità critica, nei dinamici cambiamenti che sempre piú caratterizzeranno l'attuale millennio. La 'flessibilità' 'culturale' e la riqualificazione permanente potranno facilitare notevolmente l'individuo nella sua 'affannosa' ricerca di capire il 'perché' degli eventi 'culturali' e/o 'biologici'. Necessita, pertanto, un'informazione corretta, seria e disinteressata, quindi non di parte senza 'demonizzare', né 'santificare' le biotecnologie.
Per inciso, si ricorda che la libertà della scienza ha il suo fondamento giuridico a livello di 'rango costituzionale' (art. 33). Ritengo che il vivo interesse di conoscere sia un elemento fondamentale proprio per la stessa dignità umana e per una sua sempre piú marcata valorizzazione. In altre parole, la conoscenza ha un valore etico sempre superiore all'ignoranza. Pertanto, l'assiduo appassionato desiderio di sapere e il continuo progredire della conoscenza non sono assolutamente sindacabili dal punto di vista etico; viceversa, l'applicazione dei risultati della ricerca può essere orientata ad alterare gli equilibri di un sistema complesso come il pianeta 'terra' e, quindi, può essere foriera di gravi effetti sugli essere umani come quelli causabili da gravi ingerenze e/o interferenze con la dignità umana. E' a questo secondo livello che il problema etico si pone in tutta la sua valenza; ciò acquista sempre piú rilevanza nella società in quanto ci avviamo velocemente verso una globalizzazione totale dell'attività antropica, ma con una forte accentuazione di una società a civiltà multiple quindi multiculturale , multietnica e multietica.
La realtà è sondabile all'infinito, ma la scepsi deve sempre guidare l''uomo-scienziato', che, specialmente se opera nel campo biologico (considerata la complessità dei rapporti fra le varie componenti di tale sistema), deve sempre assumere un atteggiamento (un comportamento) di dubbio verso i risultati ottenuti da qualsiasi processo cognitivo.
Credo che si possa affermare facilmente che ogni essere vivente destinato a fornire alimenti, servizi, attività professionali, ecc. all'uomo sia sempre un passo piú in là rispetto alle nostre conoscenze”. Da ciò è facile dedurre che la impossibilità di controllare totalmente la complessità biologica di un essere vivente deve condurre a una maggiore attenzione e a una maggiore prudenza.
Simon, nel 1976 e nel 1985, di fronte allo studio di fenomeni complessi, quali quelli interessanti gli agroecosistemi, per i quali i risultati conseguiti in laboratorio possono essere ben lontani da quelli reali, suggerisce la sostituzione, nella ricerca, del concetto di ‘razionalità oggettiva’ con quello di ‘razionalità procedurale’; in tale contesto sono nati gli approcci multicriteriali (multiobiettivo) che mirano a considerare allo stesso tempo piú attributi di un sistema in relazione alle prospettive di attori differenti.
In una visione democratica degli eventi di vita reale, la 'sicurezza d'uso in funzione della salute' deve costituire l'imperativo unico da perseguire. Questa sicurezza può scaturire solo da una ricerca disinteressata, fortemente interdisciplinare e sistemica. Il percorrere altre strade significa 'mistificazione'.

2. Transgenia
La 'transgenia' è un evento naturalissimo: a esempio, il mulo (prodotto dall'accoppiamento fra un asino e una cavalla) altro non è che un animale 'transgenico', poiché ha in sé geni della specie asinina e geni della specie equina. Tutti gli individui esistenti sul pianeta terra, definibili biologicamente 'ibridi', sono organismi geneticamente diversi dai genitori che li hanno prodotti e si identificano, sempre biologicamente, con quelli che comunemente si chiamano, oggi, organismi transgenici (OT). In definitiva, possiamo dire che la differenza fra un individuo ‘transgenico’ 'naturale' e uno 'culturale', cioè prodotto dall'uomo, è sostanzialmente di natura temporale, nel senso che il primo è il risultato di trasferimenti genici non dipendenti - ordinariamente - da una scelta antropica; in piú, i diversi trasferimenti 'naturali' di geni sono sottoposti a 'verifiche combinatorie' di lunga durata; durante queste 'verifiche' alcuni individui si riproducono altri no per incompatibilità biologica. La ‘transgenia’ consente di superare le barriere di incompatibilità sessuale tra specie diverse determinatesi con l'evoluzione.
Sempre per una corretta e disinteressata informazione, sorge spontanea una domanda: come l'uomo ha gestito gli altri esseri viventi dall'inizio della sua comparsa sul pianeta terra? La risposta è solamente ipotizzabile per un lunghissimo periodo (2-3 milioni di anni), mentre è storicamente documentata per gli ultimi 13-15 mila anni. Durante questo ultimo periodo, egli ha sempre effettuato una serie di scelte che si sono concretizzate in vere e proprie manipolazioni geniche, favorendo o limitando o eliminando, inconsciamente, 'geni'. Gli effetti di queste 'manipolazioni' sono stati 'verificati' con l''orologio biologico' dei 'processi naturali'.
La produzione di OT è possibile grazie all'universalità del codice genetico che è scritto sul DNA. La legge fondamentale che regola il funzionamento di questo DNA è biologicamente la stessa qualunque sia l'essere vivente interessato.
Tecnicamente l’ottenimento degli OT è reso possibile dall’ingegneria genetica che, anziché dipendere dalla ricombinazione casuale tra un grande numero di geni, consente di ottenere un organismo con nuove associazioni geniche, denominato ‘transgenico’, attraverso l’inserimento, nell’insieme delle informazioni genetiche di un organismo (genoma), di costrutti genici portatori di specifici caratteri.
Attualmente, stante alle nostre conoscenze, sono piú di 5.000 gli OT 'rilasciati' negli USA e circa 1.800 nella UE. Il 98% circa di questi OT sono vegetali, lo 0,16% sono animali e la restante percentuale è costituita da batteri (0,83), funghi (0,13) e virus (0,23). Il numero delle notificazioni per il rilascio nell'ambiente di OT, pervenute dal 21 ottobre 1991 al 17 aprile 2003, alla Commissione Europea da parte degli Stati membri dell'UE, ai sensi della Direttiva 2001/18/CE, che regolamenta l'immissione nell’ambiente degli OT, è pari a 1.869 e il primato spetta alla Francia.
I prodotti transgenici, il cui uso è autorizzato nella UE sono attualmente 18.
Le stime di Assobiotech circa il fatturato delle imprese biotecnologiche, formulate in base al valore presunto del fatturato dei prodotti biotecnologici relativo al 1994 (11,9 miliardi di euro), prevedono per il 2005 un valore, a livello di Pianeta terra, di 128 miliardi di euro e per l’Italia di 2,8 miliardi di euro con la quota maggiore spettante al settore ‘salute umana’.
Secondo l’ultimo rapporto del Servizio Internazionale per l’acquisizione delle Applicazioni AgroBiotecnologiche (ISAA), a livello globale si è avuto nel 2002 un incremento delle superfici adibite a coltivazioni transgeniche del 12%, rispetto al 2001. Sono quasi 6 milioni (nel 2001 erano 5 milioni) gli agricoltori che hanno scelto di passare dalle coltivazioni ‘tradizionali’ a quelle ‘transgeniche’ e, piú di ¾ di essi appartengono ai paesi meno sviluppati (Least developed Countries, Ldc). Il maggior tasso di incremento (27%) si è avuto per il mais, con una superficie totale di area coltivata pari a 12,4 milioni di ettari, a cui seguono la colza (incremento pari all’11% con 3 milioni di ettari) e la soia (incremento del 10% con 36,5 milioni di ettari), mentre restano invariati i valori delle coltivazioni di cotone (6,8 milioni di ettari).
La Spagna ha raddoppiato le superfici coltivate a mais Bt, mentre in Romania sono triplicate quelle di soia ‘biotech’.
I maggiori produttori di OT sono gli USA, Argentina, Canada e Cina. Nel 2002, per la prima volta, in Asia, e precisamente nelle Filippine, è stata approvata a uso alimentare una varietà di mais transgenico; colture transgeniche sono state rilevate anche in India, Colombia e Honduras.
Lo stato brasiliano del Paranà, il 14 ottobre 2003, ha approvato una legge che vieta, fino al 2006, di piantare e di commercializzare soia transgenica; per lo stesso periodo sarà anche vietato utilizzare i porti di Paranagua e di Antonina per l’esportazione di soia transgenica attraverso il Brasile o in altri paesi.
Il 23 gennaio 2002, la Commissione europea, con la Comunicazione n. 27 23.I.02, ha promosso un programma completo per lo sviluppo delle scienze della vita e delle biotecnologie in Europa, evidenziando che l’Europa ha superato gli Stati Uniti quanto a numero di imprese impiegate nell’uso di biotecniche innovative (BI) (1.570 contro 1.273) e che solo la Germania investe nelle biotecnologie 330 milioni di euro all’anno. Tuttavia, in Europa le imprese ‘biotech’ sono di dimensioni ridotte e i posti di lavoro sono circa 61.000, contro i 162.000 degli USA.
L’Italia sta recuperando il gap rispetto al resto dell’Europa e, secondo le stime di Assobiotech, riferite nell’assemblea annuale svoltasi a giugno di quest’anno, le imprese ‘biotech’ dovrebbero raddoppiare, passando da 100 a 200 con un incremento notevole del numero degli addetti.

2.1. Applicazioni e potenzialità degli OT
Le biotecnologie vanno discriminate in relazione alla loro utilizzazione; infatti, esse possono interessare i piú svariati campi:
(a) medicina umana e animale; recentemente è stato messo a punto un metodo per modificare geneticamente un virus in modo tale da renderlo in grado di replicarsi selettivamente nelle cellule cancerose inattivandole; in questo modo si svincola il paziente dall’impiego dei chemioterapici, questi ultimi associati a notevoli effetti collaterali indesiderati
(b) ambiente; a esempio microrganismi ingegnerizzati utili per accelerare decontaminazioni
(c) produzione di alimenti per l’uomo e per l’animale, con particolare riferimento alla produzione di molecole a elevata funzione terapeutica (nutraceutica, alimenti funzionali)
Nel settore vegetale l’impiego degli OT ha come scopi:
(a) aumento della produttività attraverso:
(i) induzione della resistenza ai parassiti
(ii) induzione della resistenza a stress ambientali
(iii) ottenimento di varietà resistenti agli erbicidi
(iv) aumento delle rese per unità di terreno coltivato
(v) riduzione della taglia (es. cereali)
(b) miglioramento della qualità dei prodotti attraverso:
(i) aumento del contenuto di componenti essenziali (aminoacidi, proteine e sali minerali) e di vitamine e/o di molecole bioattive con valore ‘extranutrizionale’ (nutraceutica)
(ii) esaltazione del contenuto di molecole (flavonoidi, terpenoidi, esteri, ecc.) responsabili della tipicità dei prodotti
(c) miglioramento dei processi di trasformazione microbica delle derrate agricole
(d) ottenimento di piante da utilizzare come ‘biofabbriche’ di vaccini (subunità b della tossina LT (heat-labile toxin) di Escherichia coli; antigene di superficie del virus dell’epatite B; la proteina F del virus sinciziale respiratorio; la proteina del capside del virus norwalk); le piante piú usate a tale scopo sono: il tabacco, la patata, il pomodoro, la banana; la produzione di molecole immunogeniche per l’uomo attraverso la modificazione genetica di piante e di cloroplasti offre notevoli vantaggi operativi per le popolazioni degli Ldc: sicurezza intrinseca del prodotto; basso costo ed elevata efficienza di produzione; eliminazione delle costose catene del freddo per la conservazione dei vaccini
(e) produzione di anticorpi; recentemente è stata inserita nella pianta del tabacco la sequenza di DNA responsabile della produzione di anticorpi umani contro la rabbia; ciò consentirà di far fronte alla drammatica carenza di questi anticorpi, attualmente ottenuti da cavalli oppure da esseri umani che hanno già contratto la rabbia
(f) riduzione di allergeni naturali
(g) bonifica di terreni contaminati da sostanze esplosive; i Dipartimenti della Difesa del Canada e degli Stati Uniti, in collaborazione con l’Università di Alberta, hanno avviato un programma di ricerca finalizzato allo sviluppo di piante transgeniche nelle quali siano stati inseriti geni di origine batterica che conferiscono alla pianta la capacità di cambiare colorazione in presenza di tritolo o di altre sostanze esplosive.
Il National Center for Food and Agricultural Policy (NCAFP) statunitense ha divulgato, nel 2002, i risultati di uno studio avente lo scopo di stimare l’impatto dell’ applicazione degli OT in agricoltura, in termini di utilizzo di pesticidi e in chiave economica (resa produttiva, costo di produzione, utile di gestione, ecc.) negli USA, esaminando 40 casi. I parametri tecnico-economici considerati hanno riguardato: la tolleranza agli erbicidi (herbicide tolerance, HT); la resistenza ai batteri (bacteria resistance, BR) , ai funghi (fungus resistance, FR), agli insetti (insect resistance, IR), ai Nematodi (nematode resistance, NR) e ai virus (virus resistance, VR). L’indagine è stata condotta sulle seguenti colture transgeniche, di cui alcune ancora in fase di sperimentazione: papaia VR; zucca VR, arachide VR e IR, pomodoro VR e HT, lattuga HT, fragola HT, ananas NR, broccoli IR, agrumi VR e BR, mais dolce IR e HT, pesca VR, lampone VR, patata IR-VR e HT, barbabietola da zucchero HT, uva BR, mela BR, girasole FR, canola HT, soia IR e HT, riso HT, mais da foraggio (interessanti 3 aree geografiche diverse), cotone IR e HT, erba medica HT, orzo FR, frumento HT e VR, melanzana IR, canna da zucchero HT. I risultati, a livello di tutto il territorio USA, hanno evidenziato che: la produzione sarebbe aumentata di 19,74 miliardi di euro all’anno; la riduzione nell’uso di pesticidi sarebbe pari a un valore di 229,830 miliardi di euro all’anno. Recentemente, l’NCAFP ha ricevuto finanziamenti da alcune multinazionali (Monsanto, Syngenta e BIO) per estendere l’indagine all’Europa sulle seguenti colture transgeniche: mais IR, barbabietola HT patata FR.
La ricerca biotecnologica nel settore alimentare è sostanzialmente focalizzata all'identificazione di processi di trasformazione sempre piú selettivi e mirati a ridurre i danni meccanici, chimici e tecnici nonché a ottenere alimenti con caratteristiche ben definite e stabili.
Numerose sono le ricerche per modificare alcuni costituenti del latte con effetti positivi sull’attitudine alla caseificazione e sulle caratteristiche nutrizionali; un progetto molto ambizioso dell'industria biotecnologica dei transgeni è quello di 'umanizzare' il latte bovino inserendo nei geni per le proteine del latte sequenze tipiche dei geni umani.
Nel settore animale, gli OT interessano soprattutto:
(a) la produzione di farmaci per uso umano in fluidi o prodotti di origine animale; a esempio:
(i) gene pharming: tale campo di applicazione, consistente nella produzione di ‘molecole-farmaco’ nel latte, è in rapida espansione e a oggi, sono circa 20 le proteine umane ricombinanti prodotte dalle specie d’interesse zootecnico e di esse, 11 sono espresse a livelli utili dal punto di vista commerciale (≥ 1g/l);
(ii) è stato sviluppato un sistema per inserire geni nella quaglia (Coturnix coturnix) in modo tale da renderla capace di produrre proteine o peptidi farmacologicamente attivi nelle uova; le stesse procedure potrebbero essere applicate anche ai polli e ciò consentirebbe di produrre farmaci ricombinanti a un costo decisamente inferiore rispetto a quello attuale;
(iii) proteine ricombinanti farmacologicamente attive sono state ottenute anche nel fluido seminale di suini, attraverso la tecnica della semenesi; quest’ultima consente di modificare geneticamente il suino in modo da fargli produrre proteine ricombinanti complesse, come quelle coinvolte nella carbossilazione, nella glicosilazione e nella metilazione, difficili da ottenere in altri sistemi; queste molecole vengono successivamente recuperate con particolari metodiche
(b) ottenimento di animali con caratteristiche produttive e riproduttive migliorate (esempio: pecore con migliorata capacità di produrre lana, polli contenenti un gene di alligatore che, attraverso il controllo della temperatura consente di produrre soltanto femmine)
(c) ottenimento di animali con migliorata resistenza alle malattie; anche la profilassi nei confronti della encefalopatia spongiforme bovina (BSE, bovine spongiform encephalopathy) potrebbe trarre giovamento attraverso la clonazione a partire da cellule modificate in cui sia stato eliminato il gene della proteina prionica cellulare (PrPc, prion proteincellular)
(d) un animale d’interesse zootecnico geneticamente modificato in modo tale che i suoi organi siano compatibili con il sistema immunitario dell'uomo, da utilizzare con successo per il trapianto trans-specifico o 'xenotrapianto'
(e) ottenimento di animali transgenici, quali modelli per lo studio di malattie umane; a esempio, sono stati ottenuti topi che manifestano i sintomi della schizofrenia, utili per il monitoraggio dell’azione di alcuni farmaci; di particolare interesse è il topo di ceppo C57BL6-apoEtm.Unc, cioè carente in apolipoproteina E e quindi in grado di sviluppare lesioni aterosclerotiche sovrapponibili ad alcune lesioni dell’uomo; una delle piú promettenti applicazioni degli animali transgenici è lo studio dell’oncogenesi.
Inoltre, gli animali transgenici potrebbero svolgere un ruolo importante nella ricerca di base, attraverso:
(a) la messa a punto di modelli animali per lo studio degli elementi di regolazione dell'espressione genica nel corso dello sviluppo embrionale e della vita adulta
(b) utilizzo di OT per valutare la capacità del transgene di ripristinare il fenotipo normale in un animale knock out, in modo da verificare che il fenotipo prodotto sia dovuto al gene stesso e non all’alterazione o all’espressione di altri geni che si trovano nelle vicinanze del locus inattivato.
Interessanti sono le applicazioni delle BI finalizzate al miglioramento dello stato dell’ambiente, aventi, fra l’altro, come obiettivi:
(a) decontaminazione dei suoli e delle acque
(b) fissazione dell’azoto
(c) solubilizzazione dei fosfati
(d) aggregazione dei suoli
(e) composting
(f) trattamento di depurazione
(g) produzione di biogas
(h) produzione di plastiche biodegradabili
(i) piante o animali come biosensori per contaminanti.
Attraverso l'uso di tecniche e di biotecniche innovative a sfondo ambientalistico si contribuirebbe tangibilmente all' aumento della produttività secondo i canoni propri di uno sviluppo sostenibile.
3. Alcune problematiche e analisi dei potenziali rischi
Un tentativo di analisi oggettiva degli OT, come di qualsiasi intervento antropico sulla natura, non può essere disgiunto dalla valutazione del ‘rapporto rischi/benefici’, nel senso di ‘correlare ciascuna attività antropica al livello di tolleranza del rischio che viene accettato in confronto con i benefici che derivano dall’attività stessa’. La determinazione del ‘rapporto rischi/benefici’, che ha come principale destinatario l’uomo, deve essere estesa a tutti gli organismi viventi e all’ambiente nel suo complesso prendendo sempre in considerazione il ‘principio della conservazione degli equilibri biologici basati sulla esistenza della biodiversità’.
L’immissione nell’ambiente degli OT pone interrogativi di natura:
(a) biologica [rischi per la salute umana (tossicità e nocività)]
(b) ambientale (effetti sulla biodiversità, interferenze con la sostenibilità agricola)
(c) economico-sociale (proprietà intellettuale; scelte del consumatore; effetti sull’economia degli Ldc, equità nell’accesso ai risultati e nella distribuzione degli utili e dei vantaggi prodotti dalle biotecnologie)
(d) etica (nel caso degli xenotrapianti, accettabilità dell’intervento dell’uomo sull’”ordine naturale”, praticabilità etica dell’utilizzo degli animali per migliorare la sopravvivenza dell’uomo, eventuale impatto che un organo o un tessuto di origine animale può avere sull’identità del soggetto umano che lo riceve).
Ritengo che solo un confronto serio, su base scientifica, potrà favorire alcune soluzioni possibili.

3.1. Impatto sulla salute umana
Per quanto concerne i rischi nell’uso di OT sulla salute umana, particolare attenzione è rivolta al principio della ‘equivalenza sostanziale’ tra alimento ‘transgenico’ e alimento ‘tradizionale’, introdotto nel 1993 dall’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo (OECD) e approvato da una consultazione congiunta Food and Agriculture Organization (FAO)/World Health Organization (WHO) nel 1996. Tale principio, ampiamente applicato in USA, è stato giudicato ‘ai limiti della pseudoscienza’ dalla rivista Nature (vol. 401, 525, 1999), e ‘approccio soggettivo e inconsistente’ dalla Royal Society canadese nel report intitolato ‘Elements of Precaution: Recommendations for the Regulation of Food Biotechnology in Canada’, pubblicato nel febbraio 2001. Nel rapporto FAO/WHO 2000, in seguito a una revisione critica, sono stati riconosciuti i principali limiti del principio di ‘sostanziale equivalenza’, quali: subordinazione all’esistenza dell’elemento ‘comparatore’, la cui sicurezza sia stata ampiamente provata; assenza di valutazione del rischio a medio e lungo termine (nocività); assenza di approcci analitici mirati all’identificazione del profilo dei nutrienti e al saggio dell’impatto degli eventuali cambiamenti nutrizionali inattesi dell’alimento ‘in toto’ sullo stato nutrizionale della popolazione. Tuttavia, nel rapporto FAO/WHO 2000, il principio della ‘sostanziale equivalenza’ viene ancora considerato come criterio fondamentale nella valutazione della sicurezza degli OT o dei prodotti da essi derivati, data l’assenza di strategie alternative capaci di fornire garanzie di sicurezza. Secondo quanto riportato dalla Royal Society canadese nel report del 2001, l’equivalenza sostanziale potrebbe essere sostituita dal ‘principio di precauzione’ in attesa dei risultati scaturenti da ricerche inerenti a:
(a) struttura del DNA
(b) modalità di espressione genica o trascrittomica
(c) profilo delle proteine o proteomica
(d) profilo metabolico o metabolomica
Pertanto, il ‘principio di precauzione’, elemento fondamentale per ‘sistemi complessi in divenire’, ai quali sono connessi ampi margini di ‘incertezza dovuta a ignoranza’, non deve essere considerato come fattore di limitazione per la ricerca, ma come punto di partenza per il suo sviluppo, in modo da giungere alla totale sicurezza ambientale e alimentare (full environmental safety).
Il ‘principio di precauzione’ è stato accolto anche dai 12 esperti del Consiglio nazionale delle ricerche statunitense per l’elaborazione del rapporto sui rischi dovuti all’impiego degli OT in campo animale, commissionato dalla Food and Drug Administration, l’organo che certifica la sicurezza di farmaci e alimenti; il suddetto Consiglio ha anche insistito sulla valutazione delle applicazioni ‘caso per caso’.
In merito al ‘principio di precauzione’, uno studio finanziato dall’Unione europea sottolineando la difficoltà nell’adozione di tale principio , propone 5 regimi di ‘gestione del rischio’, classificati in base al ‘livello’ e al ‘tipo di rischio’:
(a) gestione del rischio ordinario (routine risk management), da applicarsi nel caso dei rischi piú frequenti
(b) gestione basata sulla valutazione del rischio (risk-based management), da praticarsi per rischi complessi e sofisticati, per i quali si rende necessario un alto livello di modellizzazione (esempi: rischi da industrie che trattano materiali pericolosi, malattie infettive)
(c) gestione precauzionale (precaution – based management) quando un rischio comporta un elevato grado di incertezza (esempi: nuove epidemie, malattie come la BSE)
(d) gestione basata sul dialogo (discourse – based management) nel caso in cui il rischio sia altamente controverso (esempi: ingegneria genetica, biochip per applicazioni in campo umano)
(e) prevenzione (prevention) da adottarsi nelle situazioni di grave pericolo
Tale studio ha, inoltre, sottolineato l’importanza di discriminare tre tipi di rischi:
(a) ‘rischio’ dovuto a ‘complessità’;
(b) ‘rischio’ dovuto a ‘incertezza’, quest’ultima dovuta a risultati variabili, a errori, a ignoranza;
(c) ‘rischio’ dovuto ad ‘ambiguità’, quest’ultima riferita al risultato ‘intenzionale’.
In tale contesto, il ‘principio di precauzione’ viene considerato come una risposta ‘razionale’ alla ‘complessità’, alla ‘incertezza’ e alla ‘ambiguità’.
Infine, è stata sottolineata l’importanza del coinvolgimento del ‘consumatore’ affinché ‘questi raggiunga la piena consapevolezza di tutti gli aspetti di una problematica’ al fine di condividere o di rifiutare le proposte e le decisioni imposte dalle istituzioni.
La percezione e la comprensione, da parte del consumatore, delle problematiche relative all’impiego delle biotecniche innovative variano in relazione all’area geografica essendo variabile il substrato socio-economico e culturale e notevole è l’influenza dall’informazione, nonché del grado di fiducia nelle istituzioni.
La problematica dell’informazione e del coinvolgimento del consumatore, con particolare riferimento al rapporto tra ‘stili di vita’ e ‘prevenzione delle malattie’, è oggetto di notevole attenzione da parte della Comunità europea, come testimoniato dalla recente Conferenza su ‘Stili di vita salutari – Educazione, Informazione e Comunicazione’, promossa dal Ministero della salute nell’ambito del semestre di presidenza italiana della UE, svoltasi a Milano il 3-4 settembre 2003.
La notevole attenzione per la suddetta problematica, di indubbio valore positivo, tuttavia, suscita alcune puntualizzazioni e riflessioni:
(a) il benessere dell’uomo è influenzato da vari fattori che interagiscono tra loro, quali i fattori genetici e quelli legati ai consumi
(b) la tendenza a imporre ai consumatori regole precise comporta il rischio dell’omologazione e dell’annullamento delle specificità culturali (‘radicalismo salutistico’ culturale e istituzionale).
Per tale motivo è necessario sviluppare e non perdere di vista i seguenti due principi:
(a) ‘autoregolazione individuale’, intesa come sviluppo nel consumatore della capacità di decidere e di scegliere a partire dalle conoscenze e dalle informazioni messe a disposizione di tutti
(b) ‘alleanza sistemica’, intesa come tutto quanto nella società fa da contorno sia agli stili di vita sia a ciò che è in relazione con il benessere fisico psichico e sociale della persona umana.
Particolare attenzione va anche rivolta alla problematica della sicurezza nutrizionale degli alimenti transgenici nel lungo periodo (‘nocività’), che è stata oggetto di discussione della consultazione FAO/WHO del 2001. Da tale consultazione è scaturita l’utilità, se non la necessità, di condurre ricerche sui ‘rischi’ (‘nocività’) per il benessere (fisico, psichico, sociale) della persona umana a livello sia degli alimenti ‘transgenici’ che di quelli ‘convenzionali’. Particolare attenzione va posta nel considerare la variabilità genetica presente nelle popolazioni umane in quanto essa può essere responsabile della differente risposta individuale agli effetti indotti dagli alimenti. La futura ricerca sulla nutrizione, anche indipendentemente dall’uso degli OT, dovrà sempre di piú concentrarsi sul modo in cui l’alimentazione condiziona i nostri geni e, in tale contesto, notevole importanza assume la ‘nutrigenomica’ (genetica applicata alla scienza della nutrizione), il cui scopo è quello di disegnare regimi alimentari ‘su misura’ partendo dall’analisi del DNA del singolo individuo.
E’ opportuno precisare che la valutazione della sicurezza ’nutrizionale’ ed ‘extranutrizionale’ degli alimenti costituisce l’elemento chiave per qualsiasi tipo di alimento, anche per quelli ‘convenzionali’, inclusi i prodotti ‘tradizionali’ e quelli ‘biologici’.
Un aspetto importante da prendere in considerazione nella valutazione delle proprietà ‘nutrizionali’ ed ‘extranutrizionali’ degli alimenti è quello di effettuare i rilievi sia sull’alimento ‘crudo’ sia su quello presente sul ‘desco’ del consumatore, cioè quello ‘ingerito’ dal momento che sono la quantità e la qualità delle molecole contenute nell’alimento all’atto del consumo che, in ultima analisi, alla fine influenzano il ‘benessere dell’uomo’.
Attraverso l’integrazione tra proteomica (studio di tutte le proteine espresse da una cellula in ogni momento del suo ciclo vitale) e trascrittomica (studio dell’insieme dei trascritti presenti in una cellula in ogni momento del suo ciclo vitale), entrambi aspetti della ‘post genomica’, è possibile individuare e caratterizzare marcatori molecolari da utilizzare come parametri di qualità, salubrità e tipicità degli alimenti.
Indubbiamente, i risultati di queste ricerche necessitano di un’ampia divulgazione, quindi di un’educazione alimentare da promuovere sin dalle prime fasi della trasmissione delle conoscenze.

3.1.1. Tracciabilità e rintracciabilità
E’ necessario evidenziare che qualsiasi prodotto destinato all’alimentazione umana deve essere etichettato in modo che sia individuabile nella ‘tracciabilità’ e nella ‘rintracciabiltà’ sua o dei suoi derivati.
L’etichettatura è una componente indispensabile per la tutela della libertà di scelta da parte del consumatore. Poiché gli attuali metodi di campionamento e le attuali tecniche per la determinazione dei transgeni non consentono di rilevare valori assoluti di presenza – assenza, si rende necessaria l’accettazione del principio ‘de minimis’.
Le posizioni assunte sul problema dell’etichettatura variano da paese a paese. Gli Stati Uniti producono ed esportano vegetali transgenici senza alcun obbligo di etichettatura . Il Giappone ha imposto la soglia del 5%, seguito dalla Corea con il 3%. La Cina non ha ancora stabilito linee guida chiare per la produzione e l’etichettatura degli alimenti transgenici. Australia, Nuova Zelanda e Russia hanno stabilito la soglia dell’1%. L’Argentina ha adottato un sistema volontario di etichettatura; anche il Canada si sta orientando in questa direzione.
Per quanto attiene all’Unione europea, è in corso di definizione la decisione di adottare nuove regole sull’etichettatura, nonché sulla rintracciabilità e sulla tracciabilità dei prodotti transgenici. Secondo la nuova normativa, che entrerà in vigore dal prossimo autunno, sarà obbligatorio indicare sulle etichette dei prodotti alimentari la presenza di OT, quando questa ecceda lo 0,9 % degli ingredienti; tale obbligo vale anche per gli alimenti d’uso zootecnico, ma non interessa le carni di animali nutriti con cereali transgenici. Al di sotto della soglia prevista, la presenza di OT sarà considerata accidentale. Contrari a questa normativa sono la Gran Bretagna, L’Austria e il Lussemburgo: la prima considera il suddetto limite troppo restrittivo, mentre l’Austria e il Lussemburgo valutano tale soglia troppo tollerante.
La decisione recentissima da parte della Monsanto di abbandonare i mercati europei potrebbe essere collegata alla difficoltà nel rispettare i nuovi limiti imposti dalla nuova normativa sull’etichettatura e, precisamente, alla impossibilità, da parte della multinazionale, di controllare la filiera alimentare e di tenere separati i prodotti convenzionali da quelli transgenici.
Gruère e Carter hanno condotto un’analisi economica critica in materia di etichettatura degli alimenti transgenici, valutando attraverso un modello analitico i rischi e i benefici economici che potrebbero derivare da una politica di armonizzazione delle varie iniziative sull’etichettatura degli alimenti transgenici. Da tale studio è emerso che le preferenze dei vari paesi sono ampiamente divergenti e che nessuno schema di armonizzazione si rivela ideale. Una possibilità è uno scenario misto in cui gli importatori uniformerebbero gli standard legislativi ‘obbligatori’ e gli esportatori si atterrebbero a una politica ‘volontaria’.

3.1.2. Complessità
La 'complessità' identificabile con qualsiasi essere vivente, è stata oggetto di numerose definizioni:
- 'La complessità è la proprietà di un sistema modellizzabile suscettibile di mostrare dei comportamenti che non siano tutti pre-determinabili (necessari) anche se potenzialmente anticipabili (possibili) da un osservatore intenzionale di questo sistema' (P. Valéris, letterato);
- 'La complessità non è quel male assoluto che la bella razionalità francese bracca nel nome della chiarezza, dell'omogeneità e dell'universalismo. Al contrario, è il riconoscimento della ricchezza della diversità delle organizzazioni di ogni dimensione e natura' (J. Melise).
Morin afferma che la 'complessità' è l'origine delle teorie scientifiche e, secondo Küng, 'le teorie scientifiche sono organizzate a partire da principi che non dipendono assolutamente dall'esperienza'
La 'complessità' è un vero e proprio 'sistema complesso' in quanto:
(a) è da delimitare, di volta in volta, nei suoi confini
(b) è da conoscere nelle sue componenti qualitative e quantitative e nelle loro interrelazioni
(c) è flessibile e variabile spazialmente e temporalmente perché strutturalmente instabile
(d) ha capacità al costruttivismo differenziata per effetto del grado di informazione del tempo e dello spazio
(e) è fortemente autoregolatore, omeostatico, per cui può produrre nuove combinazioni fra le parti costituenti che possono dare origine a dinamici peculiari 'status' le cui regole di funzionamento possono mutare nel tempo e nello spazio come, a esempio, il sistema 'genoma' per effetto delle continue nuove combinazioni geniche (grazie anche ai geni trasposoni) e delle mutazioni selettive
(f) non è un modello lineare: assenza di proporzione tra causa ed effetto
(g) alla luce delle precedenti caratterizzazioni, è 'imprevedibile' nel senso che esso non è totalmente 'computabile', perché può essere considerato una vera e propria 'struttura caotica deterministica'
(h) ha una sua 'singolarità': è un 'universo soggettivo' non riducibile a mero oggetto di riduzionismo, ma discernibile e con una sua propria 'alterità';
(i) ha una sua specifica pertinenza: 'dialogare' tra le parti componenti.
Non bisogna dimenticare che la nostra ignoranza è somma nel settore della conoscenza delle informazioni genetiche e dei meccanismi che regolano la espressione dei geni. Questi ultimi, come tutti i sistemi biologici, quasi certamente, operano in modo sistemico identificabile con una vera e propria rete biologica cibernetica. In piú, al fine di favorire il mantenimento di grandi 'riserve profetiche' solo una parte delle sequenze nucleotidiche si esprime, mentre la maggioranza è silente. Le recenti acquisizioni sul genoma umano evidenziano che ben il 98% del DNA che costituisce il genoma non viene espresso in proteine; di esso, circa il 50% è rappresentato dal cosiddetto 'DNA ripetitivo' e circa il 23% da introni e pseudogeni. Del DNA, ripetitivo, denominato anche ‘DNA spazzatura’, non sono note né l’origine né le funzioni; alcuni studi preliminari evidenziano che esso contribuisce a fornire spiegazioni soprattutto in merito ai meccanismi evolutivi degli organismi viventi nonché a quelli di regolazione dell’espressione genica; questi ultimi esplicati attraverso la sintesi di molecole di RNA coinvolte nell’attivazione e nella disattivazione dei geni. E' da aggiungere la presenza dei cosiddetti geni 'ballerini' (trasposoni) cioè segmenti di DNA senza fissa dimora, che rientrano nella famiglia del ‘DNA ripetitivo’ e rappresentano circa il 45% del DNA genomico. Indubbiamente, questi trasposoni svolgono un ruolo molto importante nella conservazione della diversità genetica, cioè biologica. E' ipotizzabile che questo meccanismo comportamentale favorisca la ‘transgenia’ 'naturale', quindi l'incremento, se non il mantenimento, di una variabilità genetica 'soglia' nelle popolazioni numericamente modeste viventi in determinati microecosistemi. Un recente studio ha evidenziato nel lievito che una particolare categoria di trasposoni è in grado di spostarsi lungo i filamenti di DNA che presentano rotture e di contribuire alla riparazione

Rifkin riferisce che negli USA e nel mondo, a causa dell’imprevedibilità nell’impiego degli OT, le compagnie di assicurazione negli USA e nel mondo si rifiutano di assicurare le aziende che producono e commerciano OT, sottolineando che la manipolazione genetica comporta rischi ben diversi da tutte le precedenti forme di dominio dell’uomo sulla natura dovuti al fatto che: “il risultato non si ferma al cambiamento genetico, ma va in direzioni difficili da prevedere, legate alle possibili interazioni tra il prodotto del transgene e le proteine dell’ospite, queste ultime considerate in chiave di rete metabolica”.
Le recenti acquisizioni sui ‘genomi’ di varie specie evidenziano che la complessità di un organismo non dipende dalla sua ‘dotazione genomica’, come dimostrato dal fatto che l’uomo, sulla base del genoma ‘codificante’ che è stato possibile determinare, possiede solo il doppio dei geni di una banana; il nematode Caenorhabditis elegans, composto solo di 959 cellule, dispone di ben 19 mila geni.
I risultati preliminari scaturiti dal sequenziamento e dalle analisi comparative del genoma di topo hanno evidenziato che il genoma murino sarebbe solo del 14% piú piccolo rispetto a quello umano [2,5 miliardi di paia di basi (gigabasi, Gb) vs 2,9 Gb] e che l’uomo condivide con il topo circa il 99% del genoma in termini di omologia di sequenza e circa il 90% in termini di gruppi di sintenia (geni posti sullo stesso cromosoma).
Rispetto allo scimpanzé, recenti acquisizioni hanno evidenziato che l’uomo ha in comune, il 95 % del genoma in termini di sequenza e non il 98,5 % come era emerso da studi precedenti; tale differenza sarebbe dovuta al fatto che nel recente lavoro, per il calcolo del grado di ‘divergenza – similitudine’, sono state prese in considerazione non solo le differenze dovute a sostituzioni di basi, ma anche quelle dovute a ‘inserzioni – delezioni’.
Le suddette conoscenze, che però sono in continuo aggiornamento (sulla base delle continue acquisizioni di risultati di ricerche in atto o da realizzare), indicano che i geni, come tali, sono solo i portatori dell’informazione; pertanto, è il numero di proteine prodotte che caratterizza la complessità di un essere vivente: la realizzazione delle diverse attività vitali richiede la partecipazione di proteine variabili nel numero, nella qualità e nella quantità combinatoria (specialmente in chiave di rapporto fra di loro). Le proteine vanno studiate soprattutto in quanto componenti di una rete costituita dalle interazioni fisiche e funzionali tra le varie proteine; interazioni che sono fondamentali per la fisiologia della cellula, dei tessuti e quindi dell’intero organismo. Di qui l’importanza della proteomica che consente di ‘fotografare’ e di ‘catalogare’ tutte le proteine espresse da una cellula in ogni momento del suo ciclo vitale, indipendentemente dalla conoscenza dei geni.
In tale contesto rivestono particolare significato tutti quegli approcci metodologici non invasivi, che nel loro insieme costituiscono le basi per una nuova era, quella ‘post-genomica’, il cui scopo è quello di colmare il ‘gap’ profondo esistente tra sequenza del DNA e fisiologia della cellula.
Da ciò è facile dedurre che la impossibilità di controllare totalmente la complessità biologica di un essere vivente deve condurre a una maggiore attenzione e a una maggiore prudenza.

3.2. Impatto ambientale
La struttura dinamica degli ecosistemi è la ragione per cui i livelli di prevedibilità delle applicazioni delle BI sono bassi e richiedono la necessità di forti sistemi di controllo. Ciò che può essere facilmente sotto controllo a una certa scala spazio-temporale , a esempio in laboratorio, può dar luogo a effetti imprevedibili a livello di ecosistema ‘in senso lato’, un sistema complesso che opera in parallelo su multiple scale spazio-temporali.
Inquinamento genetico del suolo. Una questione ampiamente dibattuta concernente l’impatto ambientale degli OT, riguarda l’inquinamento genetico del suolo; suolo che va considerato come un vero e proprio ‘sistema dinamico’ che include componenti viventi e non, di natura organica e inorganica organizzate in ‘strutture complesse’, definite ‘aggregati’; questi ultimi sono formati dall’interazione di particelle organiche e inorganiche e sono caratterizzati dalla presenza di cavità contenenti aria e/o acqua, microrganismi e radici di piante. Data la presenza nel suolo di una moltitudine di specie viventi, vi è anche la presenza di materiale genetico estremamente differenziato, noto con il termine di ‘metagenoma’; tuttavia, molecole di DNA possono anche trovarsi al di fuori della cellula nell’ambiente interagendo direttamente con i componenti del suolo, in particolare con quelli di natura colloidale e argillosa, con tempi di permanenza che variano da poche ore ad alcuni anni; 1 g di argilla può adsorbire fino a 30 mg di DNA. L’adsorbimento del DNA sui materiali argillosi è influenzato dai cicli di essiccamento e di inumidimento del suolo, nonché dai valori di temperatura di quest’ultimo. Le zone del suolo in cui la comunità microbica è altamente rappresentata sono costituite dalla parete radicale (rizoplano), dal volume di suolo situato adiacente le radici e da esse influenzato a livello fisico, chimico e biologico (rizosfera), dai residui vegetali (residuosfera) e, soprattutto dall’interno della pianta qualora si verifichi un attacco patogeno. Una delle maggiori problematiche legate all’uso di piante transgeniche è data dall’eventuale possibilità di trasferimento di materiale genetico tra specie differenti (trasferimento orizzontale dell’informazione genetica), con particolare riferimento alla comunità microbica del suolo. Gli esigui dati esistenti al riguardo evidenziano che non esiste alcuna dimostrazione scientifica che ciò avvenga in natura almeno con una efficienza tale da interferire con la specificità delle specie (espressione e affermazione dei geni estranei), anche se è possibile ottenere in laboratorio il trasferimento genico orizzontale da una pianta a un batterio. Tuttavia, analisi comparative di sequenze genomiche e proteiche hanno evidenziato come nel corso dell’evoluzione siano avvenuti trasferimenti di materiale genetico sia tra procarioti che tra procarioti ed eucarioti (a esempio, tra batteri e piante). Inoltre, va precisato che l’incorporazione di geni esogeni è un meccanismo evolutivo proprio dei microrganismi: in Escherichia coli il 16 % del genoma deriva da trasferimento genico orizzontale attraverso i meccanismi della coniugazione, traduzione e trasformazione e ceppi patogeni possono originarsi con queste modalità. Affinché possano verificarsi tali eventi, è necessario che si realizzino determinate condizioni sia a livello della cellula ricevente che della sequenza estranea; inoltre, una volta che il DNA esogeno si è integrato nel genoma dell’ospite, non è detto che si attivi (gene silente). Tuttavia, sulla base di effetti epigenetici, la cui importanza verrà in seguito sottolineata quale causa determinante del margine di imprevedibilità nell’uso delle biotecniche innovative, i geni ‘silenti’ potrebbero attivarsi. In particolare, per quanto attiene alla trasformazione, essa, oltre a consentire lo scambio tra materiale genetico a basso grado di omologia, non prevede il contatto fisico tra cellula ricevente e donatrice, permettendo alla cellula ricevente di incorporare anche DNA extracellulare presente nell’ambiente. Tuttavia, la frequenza e l’efficienza di trasformazione in natura è molto bassa per il fatto che il batterio ricevente, per poter accettare il DNA estraneo, deve sviluppare la condizione fisiologica di ‘competenza’ e, in natura, solo il 10% dei batteri a oggi noti presentano tale condizione. Inoltre, particolare importanza assume ai fini dell’efficienza di trasformazione anche la dimensione del frammento di DNA estraneo. Ancora non è stato possibile dimostrare lo sviluppo della competenza nel suolo.
Tra le possibili conseguenze negative dell’inquinamento genetico del suolo va ricordato l’ ‘effetto deriva’, dovuto alle conseguenze che eventuali metaboliti prodotti dall’OT e presenti negli essudati radicali possono avere sulle popolazioni microbiche del suolo, favorendo alcune specie di microrganismi a scapito di altri. Un esempio è rappresentato dalla tossina Bt, prodotta dal mais Bt , rilasciata dalle radici della pianta; essa si lega a particelle del suolo che proteggono la tossina stessa dalla degradazione.
La valutazione dei rischi legati all’inquinamento genetico del sistema suolo è complicata dalla dinamicità che caratterizza tale sistema e dalla molteplicità di sollecitazioni che il sistema riceve; tutto ciò rende difficile stabilire se le fluttuazioni osservate sono dovute all’immissione dell’OT oppure ad altre cause.
La Commissione mista dell’Accademia nazionale delle Scienze e dell’Accademia nazionale dei Lincei in merito a tale problematica, propone che vengano registrati, anche nel lungo periodo, gli effetti degli OT sui cicli biogeochimici, soprattutto nei casi in cui il prodotto del transgene ha una elevata persistenza ambientale.
Impatto delle colture transgeniche resistenti agli erbicidi sulle erbe infestanti e sulla fauna connessa. La pubblicazione recentissima, da parte della Royal Society britannica, di 8 lavori che riportano i risultati di uno studio comparativo avente lo scopo di valutare le differenze di impatto tra colture ‘transgeniche’ resistenti agli erbicidi e colture ‘convenzionali’ su alcuni parametri agronomici relativi alle piante infestanti e sulla biodiversità della fauna a esse associata, riveste grande interesse per i suoi risultati. La ricerca, avviata agli inizi dell’anno 2000, ha interessato le seguenti colture transgeniche: la barbabietola (Beta vulgaris L.) resistente al glifosate, la colza da olio (Brassica napus L.) (varietà primaverile-estiva) e il mais (Zea mais L.) resistenti al glufosinate.
Le valutazioni sono state condotte prendendo in esame un totale di circa 60 siti per ciascuna delle tre colture e ciascun campo sperimentale è stato suddiviso in due metà, di cui una coltivata con la pianta ‘transgenica’ e l’altra con la corrispettiva ‘convenzionale’.
I principali erbicidi usati nella sperimentazione sono stati:
(a) per la barbabietola: il phenmedipham, etofumesate e metamitron nel caso della coltura ‘convenzionale’ e il glifosate per quella ‘transgenica’
(b) per il mais: l’atrazina e il bromoxynil nel caso della coltura ‘convenzionale’ e il glufosinate per quella ‘transgenica’
(c) per la colza: il glifosate e il trifluralin nel caso della coltura ‘convenzionale’ e il glufosinate per quella ‘transgenica’.
Il numero di applicazioni e la quantità dell’erbicida impiegato sono stati inferiori nelle colture ‘transgeniche’ rispetto a quelli previsti per le corrispettive colture ‘convenzionali’.
Valutazione della flora infestante. I parametri presi in considerazione per la valutazione dello stato della ‘flora infestante’ sono stati:
(a) classificazione tassonomica e densità delle piante infestanti (numero di piante per unità di superficie), valutate:
(i) antecedentemente al primo trattamento con erbicida
(ii) dopo l’ultimo trattamento con erbicida
(iii) prima della raccolta delle piante
(b) biomassa (peso delle piante raccolte in un’area di dimensione fissa) campionata nel mese che precedeva la raccolta
(c) ‘seed rain’ (numero dei semi caduti al suolo e loro classificazione tassonomica), valutato a partire da un pool di semi campionati durante l’intero ciclo produttivo e, a eccezione della barbabietola, anche dopo il raccolto
(d) ‘seedbank’: numero e identificazione tassonomica dei semi che rimangono nel suolo alla fine di ciascun ciclo produttivo allo scopo di stimare la ‘dinamica temporale’ delle piante infestanti; esso è stato valutato: prima dell’inizio dell’esperimento, dopo un anno e dopo due anni dall’inizio.
Principali risultati a carico della flora infestante:
(a) per la barbabietola e per la colza:
(i) la densità delle piante infestanti, subito dopo la semina, è risultata piú elevata nel caso delle colture ‘transgeniche’, rispetto alle corrispettive ‘convenzionali’ (58,6 vs 41,6 per la barbabietola; 50,1 vs 29,4 per la colza); dopo l’applicazione dell’erbicida, l’effetto si è invertito: la densità delle piante infestanti è diminuita nelle colture ‘transgeniche’;
(ii) la biomassa e il ‘seed rain’, al momento della raccolta, nel caso delle colture ‘transgeniche’, hanno presentato valori inferiori in un range compreso tra un sesto e un terzo rispetto a quelli rilevati per le colture ‘convenzionali’
(iii) l’ effetto persisteva anche a carico de ‘seedbank’ che, nel caso delle colture ‘transgeniche’, è risultato del 20% inferiore rispetto a quello delle colture ‘convenzionali’.
(b) per il mais è stato rilevato un diverso comportamento:
(i) densità delle piante infestanti, per le colture ‘transgeniche’ si è mantenuta piú elevata, rispetto alle colture ‘convenzionali’, durante l’intero ciclo produttivo
(ii) il valore della biomassa e quello del ‘seed rain’ nel caso della coltura ‘transgenica’, sono risultati per l’82% e per l’87% piú elevati, rispettivamente, rispetto a quelli registrati per la coltura ‘convenzionale’; il valore della biomassa estremamente basso rilevato nella coltura di mais ‘convenzionale’ (10,1 g/m2), pari a circa la metà rispetto a quello della barbabietola ‘convenzionale’ (23,2 g/m2) e a circa un quarto rispetto a quello della colza convenzionale (40,8 g/m2), potrebbe essere imputato all’utilizzo come diserbante, nel caso del mais ‘convenzionale’, dell’atrazina (usata in circa il 75 % dei campi sperimentali), in quanto quest’erbicida, rispetto al glifosate e al glufosinate, è caratterizzato da una maggiore persistenza nel suolo; pertanto, viene ipotizzato che l’atrazina favorisca un maggiore sviluppo del mais, riducendo quello delle piante infestanti
(iii) nel lungo periodo, i valori relativi al ‘seedbank’ non hanno fatto registrare differenze di rilievo tra coltura ‘transgenica’ e quella ‘convenzionale’.
Gli effetti a carico della flora presente nelle aree poste ai margini dei campi sperimentali riflettono quelli osservati entro il campo sperimentale, per cui gli erbicidi impiegati influenzano anche la predetta flora.
Pertanto, l’adozione delle colture ‘transgeniche’, nel caso della barbabietola e della colza rende piú efficiente il controllo delle erbe infestanti accelerando il declino del ‘seedbank’, fenomeno, che, tra l’altro, si verifica anche per effetto della continua lavorazione del suolo. Tale impoverimento, nel lungo periodo, potrebbe produrre uno scompenso di specie a carico della densità delle piante infestanti.
Valutazione della fauna associata alla flora infestante. I parametri presi in considerazione per la valutazione dello stato della ‘fauna’ sono stati:
(a) numero degli individui e diversità degli invertebrati presenti alla superficie del suolo; la diversità veniva misurata sia come numero delle specie presenti, sia come rapporto tra il numero di individui della specie piú numerosa e numero totale degli individui campionati
(b) numerosità degli artropodi epigei e di quelli con attitudine al volo
(c) ‘seed rain’.
Principali risultati a carico della fauna:
(a) fauna ipogea: la numerosità di molti invertebrati viventi nel suolo è stata influenzata in modo molto variabile dall’impiego delle colture ‘transgeniche’ a seconda: del tipo di pianta coltivata e delle caratteristiche fenologiche ed ecologiche delle specie esaminate; in generale, rispetto alle colture ‘convenzionali’, la ricerca ha evidenziato una tendenza alla riduzione della fauna per la coltivazione della barbabietola e della colza ‘transgeniche’ e all’incremento nella coltivazione del mais ‘transgenico’; in particolare :
(i) le due suddette tendenze si sono evidenziate soprattutto per la specie Harpalus rufipes (Carabide)
(ii) nella coltura ‘transgenica’ della colza si è avuto anche un effetto di ‘dominanza’ inteso come rapporto tra il numero di individui della specie piú numerosa e numero totale degli individui campionati nell’ambito dei Carabidi durante l’intero ciclo produttivo, ma con una significatività nei mesi di luglio e di agosto
(iii) la numerosità degli Araneidi, dei Gasteropodi e degli Stafilinidi non è stata influenzata del tipo di erbicida
(b) fauna epigea e aericola:
(i) Lepidotteri: nella colza e nella barbabietola è stato rilevato un numero inferiore di individui nella coltura ‘transgenica’, mentre non sono state rilevate differenze significative nel mais
(ii) Apidi ed Eterotteri: nella barbabietola ‘transgenica’ è stato rilevato un numero inferiore di individui, mentre non sono state rilevate differenze significative nella colza e nel mais.
E’ interessante rilevare che per tutti e tre i tipi di coltura esaminati, nel caso delle colture ‘transgeniche’, è stato rilevato un numero piú elevato di Collemboli, un particolare tipo di detritivori, noti come ‘code di primavera’, che si nutrono delle erbe infestanti distrutte dagli erbicidi. Ciò è dovuto al fatto che gli erbicidi, nel caso delle colture ‘transgeniche’, vengono impiegati piú tardi rispetto alle colture ‘convenzionali’, per cui le piante infestanti hanno la possibilità di incrementare la loro biomassa, costituendo, cosí, un abbondante substrato alimentare per i detritivori.
Prendendo in considerazione i ‘gruppi trofici’, cioè raggruppamenti di insetti fatti sulla base delle loro preferenze alimentari, è stato osservato:
(a) barbabietola: una minore numerosità a carico dei ‘consumatori primari’ e dei ‘parassiti’ nella coltura ‘transgenica’; riduzione attribuibile alla minore disponibilità di biomassa fornita dalle piante infestanti
(b) mais: tutti i gruppi trofici esaminati [‘consumatori primari’ (inclusi gli impollinatori: ape, farfalla, ecc.), gli insetti ‘consumatori secondari’, parassiti e detritivori] hanno presentato una tendenza verso l’aumento della numerosità degli individui nella coltura ‘transgenica’ specialmente alla fine della stagione produttiva, allorquando la biomassa delle piante infestanti è notevolmente incrementata
(c) colza: nella coltura ‘transgenica’ vi è stato un significativo decremento numerico dei ‘consumatori primari’, ma limitatamente alla fase iniziale del ciclo produttivo; mentre, per i ‘consumatori secondari’ e per i ‘parassiti’, il decremento ha interessato l’intero ciclo produttivo.
Concludendo sui risultati dello studio della Royal Society, si può sinteticamente affermare:
(a) le piante infestanti svolgono un ruolo primario nel sostenere nel sostenere la comunità biotica
(b) i risultati hanno, logicamente, validità nell’ambito della ricerca effettuata
(c) è necessaria una continua ricerca per potere, ‘caso per caso’, disporre di risultati validi; questa validità, a causa della ‘complessità’ dei sistemi produttivi, può avere significato solo entro il campo di osservazione.
Flussi genici da piante OT a specie selvatiche. Con riferimento a tale problematica, nel documento scaturito dall’incontro tra le Associazioni Legambiente e Ambiente e lavoro e rappresentanti della Società Italiana di Genetica Agraria, della Federazione Italiana Scienze della Vita, dell’Accademia delle Scienze e altre Società scientifiche, per quanto attiene al rischio legato all’imprevedibilità da immissione di piante transgeniche, viene evidenziato che, nel caso in cui il gene estraneo proviene dalla stessa specie o da specie affini, il livello di imprevedibilità è simile a quello atteso nel caso della tecnica dell’incrocio; invece, nel caso in cui il gene proviene da specie diversa o addirittura da un regno diverso, si distinguono 3 livelli di rischio potenziale per l’ambiente:
(a) rischio basso,se la pianta OT viene coltivata in zone in cui non esistono specie selvatiche affini
(b) rischio medio se la pianta viene coltivata dove esistono specie selvatiche affini, ma non ha un vantaggio selettivo rispetto a queste ultime
(c) rischio alto se la pianta coltivata viene coltivata dove esistono specie selvatiche affini e ha un vantaggio selettivo rispetto a queste ultime.
Coesistenza tra colture transgeniche e convenzionali. L’Unione europea, in data 29.VII.03, ha pubblicato la ‘Raccomandazione della Commissione del 23.VII.03 recante orientamenti per lo sviluppo di strategie nazionali e migliori pratiche per garantire la coesistenza tra colture transgeniche, convenzionali e biologiche’.
La Raccomandazione è il frutto di una Tavola rotonda del 24 aprile 2003 che la Commissione ha ospitato a Bruxelles al fine “di fornire una base scientifica e tecnica basata sulla esperienza pratica degli agricoltori, per tutte le misure agronomiche o di altra natura che si rivelino necessarie per agevolare una coesistenza sostenibile delle varie filiere di produzione agricola”.
Nella stessa Raccomandazione viene precisato, al punto 1.5. che trattasi di orientamenti “non vincolanti” per gli Stati membri ed essi “vanno letti proprio in questo contesto: il loro campo di applicazione si estende dalla produzione agricola a livello dell’azienda fini al primo punto di vendita, ossia dal ‘seme’ al ‘silo’.” Si precisa che “Gli orientamenti riguardano la produzione commerciale di sementi e le colture. Non sono prese in considerazione le emissioni sperimentali di piante geneticamente modificate”.
La necessità di evidenziare, in ben oltre 40 capitoli, anche se in forma brillantemente sintetica, le complesse problematiche inerenti alla possibilità di coesistenza fra una coltura tradizionale e/o biologica e una coltura transgenica, sta a dimostrare che i singoli Paesi, nel dover legiferare in materia, dovranno risolvere una serie quasi infinita di problemi di carattere economico, ambientale e sanitario, secondo criteri di trasparenza e di condivisione economica di tutti i soggetti interessati: dal produttore al consumatore.
Si sottolinea, fra l’altro, al punto 2.1.12. ‘Ricerca e condivisione dei risultati della ricerca’, che “E’ opportuno che gli Stati membri incoraggino e sostengano, in collaborazione con i soggetti interessati, le attività di ricerca volte a migliorare la conoscenza delle modalità piú idonee a garantire la coesistenza”…….. “è opportuno, altresì, incoraggiare caldamente la condivisione dei risultati della ricerca tra gli Stati membri.”
Al punto 2.1.8. ‘Strumenti strategici’ si precisa: “A priori non esiste uno strumento specifico che possa essere raccomandato per affrontare la problematica della coesistenza”. In particolare, viene evidenziata l’opportunità di “lasciare agli Stati membri la possibilità di ricorrere a vari tipi di strumenti”, particolarmente quelli di “accordi volontari”, “disposizioni non giuridicamente vincolanti” o “normative piú rigide” e di scegliere la “combinazione di strumenti” e “il livello regolamentare che ritengono piú idoneo per garantire un’attenzione, un monitoraggio, una valutazione e un controllo efficaci delle misure”.
La ricerca finalizzata alla riduzione dell’impatto ambientale degli OT deve essere orientata, fra l’altro, verso: ricerca delle ‘specie recipienti involontarie del transgene’; biogeografia dell’area interessata alla coltivazione dell’OT; approfondimento della biologia molecolare e ambientale del gene da trasferire (ricorso a fasi sperimentali preliminari per rendere evidente la comparsa eventuale di effetti pleiotropici indotti dal gene trasferito); protocolli di valutazione del rischio che prevedano: passaggi progressivi (serra –campo), saggio dei livelli di infestanza, dei livelli di ibridazione, confronti con non OT.
Da quanto detto finora è possibile dedurre che un esame critico dell’impatto degli OT sugli ecosistemi ‘in senso lato’ non è assolutamente rinviabile; né la semplice costituzione di ‘aree rifugio’ può essere la soluzione ottimale.
Il mantenimento della biodiversità animale (includente anche gli organismi acquatici), fungina, microbica e vegetale rappresenta la condizione essenziale per assicurare alle generazioni future ‘fonti naturali’ e ‘diversificate’ di ‘alimenti salutistici’.
Lo sviluppo dell’ agricoltura da ‘tradizionale’ a ‘multifunzionale sostenibile’ necessita di qualità e di innovazione. Lo sviluppo piú 'sostenibile' è quello in cui le innovazioni tecniche e biotecniche siano inglobate e incorporate nei sistemi produttivi, sociali e culturali esistenti, senza determinare la sostituzione di questi.
Anche le applicazioni delle biotecniche raggiungono il requisito di sostenibilità quando a livello locale, esse non determinano:
(a) la perdita della biodiversità animale, fungina, microbica e vegetale;
(b) la degradazione della qualità dei suoli e delle acque.

3.3. Impatto economico-sociale
Dire che le biotecnologie, intese come lo 'studio delle applicazioni dei processi biologici nel campo della tecnica' (e, nella fattispecie, utilizzazione di OT) risolveranno il problema della 'fame' del pianeta Terra è una mistificazione; infatti, i fisiologi nutrizionali umani consigliano un’ingestione media per persona di 60 g di proteina al giorno (30 g di origine animale e 30 g di origine vegetale), per cui:
(a) per l’anno 1985, su una popolazione umana stimata ufficialmente pari a 4,855 miliardi si è avuto:
(i) un deficit pari a ben 9,746 milioni di t di proteina di origine animale (POA)
(ii) un surplus pari a 27,290 milioni di t di proteina di origine vegetale (POV)
(b) per l’anno 1990, su una popolazione umana stimata ufficialmente pari a 5,255 miliardi si è avuto:
(i) un deficit pari a 8,782 milioni di t di POA
(ii) un surplus pari a 22,329 milioni di t di POV
(c) per l’anno 2000, su una popolazione umana stimata ufficialmente pari a 6,057 miliardi si è avuto:
(i) un deficit pari a 4,200 milioni di t di POA
(ii) un surplus pari a 38,487 milioni di t di POV
(d) sulla base di uno studio predittivo, nel 2010 la popolazione totale umana sul pianeta Terra ammonterebbe a circa 7,2 miliardi; per tale popolazione occorreranno 78,7 milioni di t sia di POA che di POV; nell’anno 2000, la produzione di POA è risultata pari a 62,120 milioni di t e quella di POV è risultata pari a 105,2 milioni di t; pertanto, considerando la produzione dell’anno 2000, vi sarebbero, nell’anno 2010, un deficit di POA di 16,6 milioni di t e ancora un eccesso di 26,3 milioni di t di POV.
I dati di cui sopra evidenziano in modo incontrovertibile che vi è e vi sarà una seria e profonda carenza di disponibilità proteica di origine animale. Conseguentemente sorge la indilazionabilità di uno studio da parte degli Organismi internazionali preposti, e segnatamente da parte della FAO e della FEZ, per una revisione profonda, in chiave globale sull’intero pianeta Terra, con particolare riferimento agli Ldc, dei sistemi produttivi agricoli, per privilegiare assolutamente la produzione vegetale occorrente per soddisfare le esigenze alimentari delle diverse specie animali terrestri di interesse zootecnico, in particolare necessarie per un riequilibrio delle proteine atte a soddisfare le esigenze dell’uomo. In piú, sarebbe oltremodo da realizzare un’intensificazione nella utilizzazione zootecnica di specie acquatiche. Queste ultime potrebbero svolgere un ruolo importante e integrativo nella soluzione del problema principe quale la individuazione di nuove fonti di proteine di origine animale. Inoltre, l’ utilizzazione zootecnica di nuove specie potrebbe portare alla individuazione e all’ottenimento di ‘biomolecole’ anche con funzione ‘extranutrizionale’.
Una intensificazione dei tipi genetici autoctoni (TGA) animali, fornirebbe un importante contributo alla riduzione del deficit di produzione di proteine di origine animale, ampiamente evidenziato in precedenza, con particolare riguardo agli Ldc.
I TGA animali potranno svolgere una vera e propria funzione di ‘banca genica’ da cui attingere informazioni per ottenere prodotti diversificati per la quantità e per la qualità dei nutrienti, tali da soddisfare le diverse esigenze ‘nutrizionali’ ed ‘extranutrizionali’ dell'uomo in relazione al suo status fisiologico.
I TGA animali, utilizzando alimenti prodotti in loco, con particolare riferimento al pascolo, giocano un ruolo importante di ‘traduttori biologici’ in quanto capaci di trasformare le molecole presenti nell’alimento, a esempio nel foraggio, in molecole ‘biodisponibili’ di elevato valore ‘nutrizionale’ ed ‘extranutrizionale’ per l’uomo stesso.
Cosí operando, è possibile dare nuovo impulso all'economia locale e allo sviluppo sostenibile in armonia con una condizione ottimale di utilizzazione delle risorse autoctone.
Rifkin ha evidenziato la divergenza esistente, per quanto attiene al consumo dei prodotti di origine animale, tra gli Ldc e i Paesi sviluppati (Developed Countries, Dc), sottolineando che “oggi, molti degli Ldc destinano 1/3 delle produzioni di cereali al consumo animale al fine di fornire carne ai paesi piú ricchi”, anziché destinarli all’ottenimento di prodotti di origine animale da utilizzare per l’alimentazione delle popolazioni locali. Tale politica ha contribuito, da un lato a incrementare il consumo di prodotti di origine animale nei Dc con conseguenti fenomeni di ‘ipernutrizione’ e diffusione delle cosiddette ‘malattie del benessere’ e, dall’altro a una carenza del consumo di prodotti di origine animale negli Ldc con fenomeni di ‘malnutrizione’ in questi ultimi. La disparità nel consumo di prodotti di origine animale tra Ldc e Dc si protrarrà anche nei prossimi anni, come dimostrato da una studio predittivo effettuato a partire da dati relativi al 1993 e al 1997; tale elaborazione ha evidenziato che nell’anno 2020, pur essendovi negli Ldc un trend positivo verso un lieve aumento del consumo di prodotti di origine animale, quest’ultimo rimarrà sempre inferiore rispetto a quello dei Dc. In particolare, secondo il predetto studio, nell’Africa Sud Sahariana nel 2020, il consumo medio di carne e di latte sarà di 30 g e di 82 g al giorno, rispettivamente, il che corrisponde a soli 8 g/d di proteina di origine animale
L’iperconsumo di prodotti di origine animale sta comportando, nei paesi industrializzati, un incremento della ricerca finalizzata a minimizzare gli effetti negativi sulla salute umana e a individuare e a esaltare l’uso di quegli alimenti ricchi in biomolecole con valore ‘nutrizionale’ ed ‘extranutrizionale’. Particolare attenzione viene rivolta agli studi sulla composizione acidica del grasso, specialmente della carne al fine di attuare strategie riguardanti sia il miglioramento genetico sia il sistema di allevamento per ottenere prodotti piú consoni al miglioramento del benessere dell’uomo.
Al fine di far fronte a questa frattura tra Ldc e Dc, sarebbe opportuno destinare l’eventuale eccesso di proteina vegetale all’alimentazione della risorsa animale autoctona degli Ldc per l’ottenimento di prodotti di origine animale fruibili dagli stessi Ldc per il riequilibrio dei regimi dietetici delle popolazioni interessate al problema della ‘malnutrizione’.
Inoltre, sorge l’esigenza di una revisione degli ordinamenti colturali anche alla luce dell’importanza determinante che gli alimenti di origine animale hanno svolto nell’evoluzione dell’encefalo umano e, segnatamente, delle aree coinvolte nella comunicazione e nell’apprendimento. L’alimentazione ha svolto un ruolo determinante per la storia evolutiva dei primati iniziata oltre 55 milioni di anni fa successivamente alla diffusione delle foreste di angiosperme verificatasi nel tardo Cretaceo. Infatti, lo sviluppo e l’evoluzione dell’encefalo possono essere considerati strettamente associati alla necessità, nel corso dell’evoluzione, di acquisire una fonte sicura e qualitativamente migliore di cibo, rappresentata dalle proteine di origine animale, in condizioni ambientali (riduzione delle foreste tropicali verificatasi nel Pleistocene periodo compreso tra 2 milioni di anni fa e 10.000 anni fa) che avevano reso inadeguato e problematico l’approvvigionamento di alimenti vegetali. L’introduzione della carne nel regime alimentare ha selezionato, positivamente, negli antenati dell’uomo ‘capacità intellettive’ per la ripartizione del lavoro: individui dediti alla raccolta delle piante e altri impegnati nella caccia per l’approvvigionamento degli animali e dei loro prodotti.
Il premio Nobel per la pace Norman Borlaug, nel corso del Congresso svoltosi a Bologna al 28 al 31 maggio 2003, su: ‘In the Wake of the Double Helix: from the Green Revolution to the Gene Revolution’, ha affermato che per soddisfare le accresciute esigenze alimentari dei prossimi anni sarà necessario ricorrere a un “approccio olistico utilizzando saggiamente le conoscenze scientifiche e le biotecniche innovative, unitamente alle risorse naturali, integrando le pratiche colturali con le istanze socio-economiche”. A tal fine sarà necessario adottare un approccio multidisciplinare che richiederà:
(a) programmi di ricerca pubblici allo scopo di migliorare le conoscenze nella genomica delle specie coltivate e sostenuti da politiche che garantiscano l’accesso alle risorse
(b) supporto agli Ldc al fine di acquisire le competenze e le infrastrutture necessarie: (i) per realizzare prodotti mediante l’ausilio delle biotecniche innovative; (ii) per applicare metodi moderni di miglioramento genetico; (iii) per stabilire regolamenti appropriati al fine di valutare i nuovi caratteri inseriti nelle varietà coltivate
(c) riesame degli obiettivi e delle modalità di utilizzo dei diritti della proprietà intellettuale, al fine di salvaguardare il bene collettivo e gli obiettivi umanitari a valenza internazionale.
La Federazione Italiana Dottori in Agraria e Forestali (FIDAF), nel documento elaborato in occasione del ‘World Food Summit – Five years later’, svoltosi a Roma in data 10÷13 2002, sotto gli auspici della FAO, afferma che la conoscenza scientifica e tecnologica, pur essendo, a oggi, la piú vasta e profonda di tutta la storia dell’umanità, non è ancora sufficiente per assicurare a tutta la popolazione del pianeta Terra, presente e futura, il loro diritto primario, rappresentato dall’equità di accesso alle risorse vitali. Pertanto, le attività agricole debbono essere sostenute da un’adeguata innovazione nell’uso di tecniche e biotecniche innovative in grado di migliorare soprattutto qualitativamente le produzioni e di conservare al contempo le risorse naturali locali. La qualità delle produzioni va intesa, come già affermato precedentemente, in chiave di qualità ‘nutrizionale’ ed ‘extranutrizionale’ nel contesto della rinnovata visione del rapporto ‘alimentazione-salute-benessere dell’uomo’, in cui il territorio svolge un ruolo chiave per la diversificazione dell’offerta.
I territori, in virtú delle proprie diversità, possono contribuire alla ‘diversificazione nutrizionale ed extranutrizionale’ degli alimenti; in tale contesto, il prodotto ‘tradizionale tipizzato’ assume un ruolo fondamentale per la sostenibilità salutistica e sanitaria, sia per l'uomo che perl’ambiente, nonché per il territorio, con riflessi positivi anche sulla sostenibilità economica.

3.3.1. Brevettabiltà
Complessa è la problematica della brevettazione, oggetto di controversie: alcuni la ritengono fondamentale per lo sviluppo del potenziale scientifico di un paese e per trarre profitto dalle applicazioni della ricerca; altri temono che essa possa diventare un mezzo per trasformare la conoscenza da patrimonio comune dell’umanità a bene di consumo, controllato da interessi privati. Negli Stati Uniti, quale conseguenza del pluralismo e della competizione delle fonti di finanziamento e dell’intensificazione dei rapporti ‘università-industria’, è diffuso un atteggiamento favorevole alla brevettazione, anche a livello di ricerca accademica; in Europa, l’atteggiamento è molto meno permissivo e permangono forti divergenze e dubbi sulla Direttiva 98/44/CE. Tuttavia, opportuna discussione e successive normative potranno contribuire significativamente a redimere le innumerevoli controversie fra gli interessati; per esempio, una giusta integrazione fra Enti di ricerca pubblica e ricerca privata è auspicabile; è necessario, in Italia, che il privato imprenditore maturi ampiamente l’utilità di dovere contribuire con i propri mezzi finanziari alla ricerca, cioè egli deve diventare un vero e proprio committente di ricerca agli Enti pubblici, individuando le opportune e reciproche regole di comportamento nelle varie fasi della ricerca e nella utilizzazione opportuna dei risultati.
Alcune riflessioni sulla direttiva europea n. 44 del 12.V.1998 sulla brevettabilità delle innovazioni biotecnologiche, che definisce "materiale biologico: un materiale contenente informazioni genetiche, autoriproducibile o capace di riprodursi in un sistema biologico". Essa presuppone, credo volutamente, una perfetta sinonimia fra 'scoperta' e 'invenzione'.
Non condivido:
(a) il comma 2 dell'art. 3 là dove recita: 'Un materiale biologico che viene isolato dal suo ambiente naturale' è brevettabile
(b) il comma 2 dell'art. 5 là dove recita: 'Un elemento isolato dal corpo umano, o diversamente prodotto, mediante un procedimento tecnico, ivi compresa la sequenza o la sequenza parziale di un gene può costituire un'invenzione brevettabile, anche se la struttura di detto elemento è identica a quella di un elemento naturale'.
Tutto l'impianto della direttiva risente, logicamente, dell'impostazione della predetta 'sinonimia'.
A esempio, sono accettabili l'invenzione e l'uso del sistema biologico 'terminator' che può essere impiegato per rendere 'biologicamente sterile' un seme prodotto da determinati 'organismi geneticamente modificati'? per il momento vegetali e un domani animali (?).
Un invito, poi, a riflettere sul principio generale enunciato nel comma 2. dell'art. 3 per tutte le conseguenze che esso avrà sul livello di biodiversità (animale, fungina, microbica, vegetale, ecc.) specialmente nei PVS.

4. Alcuni documenti di riflessione
L’Accademia Nazionale delle Scienze, congiuntamente all’Accademia dei Lincei ha elaborato, sulla base di dati scientifici altamente qualificati, un rapporto, disponibile sul sito internet (www.accademiaxl.it), che offre un’ampia base documentale per una disamina dei problemi relativi agli OT vegetali. Tale documento, con riferimento alla necessità di proteggere gli ecosistemi naturali e la salute umana e di promuovere uno sviluppo rurale sostenibile, induce alle seguenti riflessioni:
(a) l’agricoltura, anche senza far ricorso agli OT, a causa della sua multifunzionalità e dinamicità non è un’attività a rischio zero;
(b) le agrotecnologie debbono adeguarsi e rinnovarsi; pertanto, sono richiesti poderosi investimenti per studi e ricerche interdisciplinari aventi come scopo soprattutto la conoscenza del ‘contenitore dell’attività agricola’, rappresentato dai sistemi floristici e faunistici naturali, utilizzando soprattutto metodi di diagnostica molecolare; in tale contesto, le riflessioni sulla transgenesi offrono l’opportunità di riconsiderare i ‘rapporti tra: ricerca, agricoltura e ambiente’
(c) gli OT debbono essere sottoposti a una valutazione accurata: controllo del rischio ambientale; principio dell’azione preventiva; adozione di decisioni caso per caso; monitoraggio post-rilascio; immissione graduale degli OT nell’ambiente; verifica degli effetti degli OT prima della autorizzazione alla vendita; obblighi di rintracciabilità; concessione delle autorizzazioni per periodi limitati di tempo, ecc..
Di fronte alle problematiche legate all’impiego degli OT in agricoltura, con particolare riferimento al possibile impatto sulla biodiversità, sulla sicurezza alimentare e sulla salute umana e animale, nonché alle implicazioni economiche e politiche derivanti dalla brevettazione delle ‘invenzioni genetiche’, il Consiglio dei diritti genetici (Cdg) ha elaborato nel marzo 2003, un ‘documento–appello’, rivolto ai governi e alla Commissione della Unione europea; in tale documento, già sottoscritto da 100 studiosi di varie discipline, a testimonianza dell’interdisciplinarietà della problematica, si rivolge un invito a prestare particolare attenzione scientifica ai seguenti aspetti:
(a) ibridazione naturale tra colture OT e specie selvatiche affini
(b) bioaccumulo delle proteine prodotte dagli OT nella catena alimentare degli insetti e pericoli per la stabilità dell’ecosistema ‘suolo’
(c) ripercussioni sulla salute dell’uomo e degli animali conseguenti all’ingestione di OT o dei prodotti di OT
(d) trasferimento orizzontale dei geni
(e) rischio di sviluppo di virus con caratteristiche biologiche nuove a seguito dell’introduzione di piante transgeniche virus-resistenti; ciò, a oggi, è stato dimostrato in laboratorio.
Inoltre, il documento invita alle seguenti riflessioni:
(a) le recenti acquisizioni scientifiche evidenziano in modo sempre piú incontrovertibile l’importanza dell’epigenetica, contrastando l’assunzione del ‘determinismo genetico’; quest’ultimo considerato quale presupposto dell’ingegneria genetica
(b) la brevettazione, cosí come è stata proposta dall’Organizzazione mondiale del Commercio (OMS) (World Trade Organization, WTO), rischia di avere conseguenze negative sul futuro dell’agricoltura, che diventerebbe sempre piú assoggettata alle logiche di approvvigionamento delle imprese multinazionali
(c) la politica di brevettazione comporta il rischio di affermazione di una posizione ‘oligopolista’ sul mercato a livello mondiale con profitti per un ristretto numero di privati; tale condizione andrebbe soprattutto a svantaggio degli Ldc, che vedrebbero accentuate le problematiche dell’impoverimento delle ‘risorse endogene’ e della ‘malnutrizione’.
Come già sottolineato in precedenza, è necessario evidenziare che la ‘malnutrizione’ non dipende dalla carenza di disponibilità di prodotti, ma dall’iniqua distribuzione degli stessi.
Il Consiglio, sulla base delle precedenti considerazioni, ritiene indispensabile:
(a) garantire che l’eventuale utilizzo degli OT in agricoltura non comprometta in alcun modo il mantenimento delle forme di ‘agricoltura convenzionale’ e ‘biologica’, assicurando, conseguentemente, la tutela del diritto di impresa degli agricoltori e di scelta del consumatore
(b) assicurare che ogni OT, prima di essere autorizzato al rilascio nell’ambiente, sia sottoposto all’accurato esame da parte di organismi pubblici indipendenti, nel cui ambito sia sempre garantita la maggioritaria rappresentanza di scienziati indipendenti, in nessun modo legati alla ricerca privata.
Il documento, tuttavia, sottolinea che le “rilevanti incertezze che ancora oggi permangono in merito all’impiego degli OT, non debbono costituire un freno, ma viceversa, uno stimolo alla ricerca scientifica che deve essere sempre piú finalizzata alla verifica dei costi e dei benefici conseguenti all’utilizzo degli OT in campo agroalimentare”.

5. Conclusioni
1. L’uso delle biotecnologie è primariamente un ‘problema sociale’ e con l’avanzare delle conoscenze delle leggi regolanti i fenomeni della vita biologica in tutte le sue articolazioni categoriali o tassonomiche, interesserà sempre di più la comunità umana.
2. La valutazione che l’opinione pubblica, specialmente europea, esprime sull’uso delle biotecniche innovative è fortemente diversificata:
(a) forte accettazione di quelle inerenti alla medicina
(b) grande resistenza per quelle riguardanti la produzione di ‘alimenti innovativi’
Quali possono essere le motivazioni del secondo comportamento umano? La risposta è complessa, ma sostanzialmente la ragione del ‘rifiuto’ è dovuta alla carenza di una informazione seria e disinteressata.
3. Scientificamente concordo con il Massironi quando dice “qualunque modello di gestione del ‘problema’ biotecnologia deve tenere conto dell’erroneità della convinzione di avere in mano, con le conoscenze biomolecolari, tutte le chiavi per comprendere e controllare gli organismi viventi”. Se cosí fosse, potremmo parlare di ‘riduzionismo’, quindi di limite nella capacità di esprimere un giudizio.
4. La ‘struttura dinamica’ degli ecosistemi e la ‘complessità’ degli organismi viventi costituiscono la ragione per cui i livelli di prevedibilità delle applicazioni delle BI sono bassi e richiedono la necessità di forti sistemi di controllo; ciò trova conferma nei risultati dell’ampio studio della Royal Society britannica, dai quali è scaturito che l’impiego delle colture resistenti ai diserbanti interferisce con i delicati e complessi meccanismi omeostatici a carico della ‘catena trofica’ alimentata dalle piante infestanti.
5. L’esigenza di ricerca è una condizione necessaria e cogente per disporre continuamente di nuove conoscenze sui ‘complessi meccanismi biologici’ che regolano l’espressione genica al variare delle condizioni del microambiente in cui opera il gene, con particolare attenzione alla conoscenza dei fenomeni che regolano le interconnessioni e le interrelazioni fra i geni e fra i geni e il microambiente in cui essi sono inseriti.
6. Indispensabile è un potenziamento del coordinamento della ricerca, anche nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni, ove gli Enti pubblici di ricerca dovranno svolgere un ruolo di equo protagonismo.
7. Le riflessioni sulla transgenesi debbono costituire l’opportunità per riconsiderare e valutare i rapporti tra ricerca, agricoltura, ambiente e benessere dell’uomo; non bisogna dimenticare che l’agricoltura, anche senza far ricorso agli OT, ha prodotto e può produrre effetti indesiderati.
8. La ‘equivalenza sostanziale’ tra un alimento proveniente da un ‘organismo transgenico’ prodotto dall’uomo e un alimento cosiddetto ‘tradizionale’ viene ancora considerata un criterio fondamentale nella valutazione della sicurezza dell’uso degli organismi transgenici o dei prodotti da essi derivati, data l’assenza di strategie alternative capaci di fornire garanzie di sicurezza; tuttavia, l’equivalenza sostanziale potrebbe essere sostituita dal ‘principio di precauzione’ in attesa dei risultati scaturenti da ricerche inerenti a: (i) struttura del DNA; (ii) modalità di espressione genica o trascrittomica; (iii) profilo delle proteine o proteomica¸(iv) profilo metabolico o metabolomica
9. La valutazione dei potenziali ‘rischi’ degli alimenti transgenici per la salute umana deve sempre piú tenere conto della variabilità genetica presente nella popolazione umana responsabile della differente risposta degli individui ai singoli alimenti o ai regimi alimentari.
10. L'obiettivo 'principe' della ricerca pubblica deve essere quello di evidenziare la differenza fra tossicità e nocività di qualsiasi alimento, sia esso 'naturale' (nel significato tradizionale) che 'biotec'; a ciò bisogna aggiungere la necessità di conoscere i riflessi della coltivazione o dell'allevamento di OT sull'equilibrio dei vari agroecosistemi interessati.
11. E’ necessario che i rischi vengano valutati ‘caso per caso’ con approccio sistemico tenendo conto dei rischi ‘mediati’ per l’ambiente e per la produzione , valutati sulla base di una corretta sperimentazione scientifica.
12. La formulazione delle regole e la valutazione del rischio debbono essere basate sul prodotto e sulle sue caratteristiche piuttosto che sul processo produttivo.
13. La decisione della Monsanto di abbandonare i mercati europei potrebbe essere collegata alla difficoltà, da parte della multinazionale, di controllare la filiera alimentare e di tenere separati i prodotti convenzionali da quelli transgenici.
14. Rischi e benefici degli OT non sono né certi né universali: possono variare nel tempo, con le diverse situazioni geografiche e ‘caso per caso’.
15. La ‘Raccomandazione della Commissione dell’Unione europea del 23.VII.03 sulla coesistenza tra colture transgeniche, convenzionali e biologiche’ è molto articolata ed evidenzia, in tutta la sua complessità, la problematica di questa coesistenza; in particolare, viene evidenziata la necessità che ciascuno Stato membro, nel legiferare sulla materia, consideri:
(a) capacità “dell’agricoltore di operare una libera scelta tra agricoltura convenzionale o biologica o transgenica nel rispetto degli obblighi legali in materia di etichettatura e di norme di purezza”;
(b) gestione delle misure piú idonee per minimizzare il rischio di commistione; l’ “efficacia economica delle misure relative alla coesistenza sarà fortemente influenzata dalla notevole diversità Regionale dell’Unione europea;
(c) la necessità che le migliori pratiche siano elaborate in coopereazione con tutti i soggetti interessati e secondo ‘criteri di trasparenza’.
16. E’ auspicabile che l’uso delle biotecnologie si realizzi in funzione di alcune diversità che sono determinanti di uno sviluppo sostenibile che comprende anche quello socio-economico; per esempio, alcuni indicatori per ciascun Paese del pianeta Terra sono:
(a) politica agraria
(b) caratteristiche degli agroecosistemi
(c) struttura fondiaria
(d) tradizioni e culture specifiche
17. Tutti gli esseri umani e le loro comunità hanno il diritto di proteggere, sviluppare e arricchire le proprie diverse identità culturali, delle quali il cibo e la produzione di cibo costituiscono una particolare forma di espressione. Pertanto, l’uso delle BI deve conciliarsi, pur nell’ambito della globalizzazione in corso, con le esigenze sociali, fortemente diversificate sul pianeta terra, tendenti a salvaguardare i connotati specifici delle diverse civiltà, frutto di tradizioni e di storie differenti. La 'competitività del settore agroalimentare italiano’ è legata, piú che a una crescita quantitativa delle produzioni, molto di piú alla tutela e alla valorizzazione dei caratteri di tipicità, di tradizione e qualità della nostra agricoltura. In tale contesto, sarà necessario valorizzare quelle BI che, mentre permettono di accelerare la selezione per la qualità, con particolare riferimento alla qualità ‘nutrizionale’ ed ‘extranutrizionale’ degli alimenti, sono di grande ausilio per la messa a punto di sistemi di ‘tracciabilità’ e di valorizzazione dei prodotti tradizionali.
18. L’impiego delle BI non potrà essere l’approccio risolutivo per la soluzione del problema della ‘fame nel mondo’: il cibo che è disponibile è già sufficiente: il vero problema è quello della disparità tra paesi sviluppati e paesi meno sviluppati nell’accesso alle risorse e della iniqua distribuzione delle stesse. Infatti, nell’anno 2000 si è avuto: un deficit pari a 4,200 milioni di t di proteine di proteina di origine animale e un surplus pari a 38,487 milioni di t di proteina di origine vegetale; nell’anno 2010, si prevedono ancora un deficit di proteina di origine animale pari a 16,6 milioni di t e un eccesso di proteina di origine vegetale pari a 26,3 milioni di t. La carenza di proteina di origine animale comporta la necessità di individuare innovative strategie nella gestione dei sistemi produttivi in genere e di quelli animali in particolare; strategie che si dovrebbero concretizzare in una profonda e globalizzante revisione degli ordinamenti colturali al fine di favorire una maggiore produzione di alimenti da destinare all’alimentazione degli animali in produzione zootecnica occorrenti per un riequilibrio delle proteine necessarie a soddisfare le esigenze dell’uomo. Esigenze che vanno considerate alla luce dell’importanza determinante che gli alimenti di origine animale hanno svolto nell’evoluzione dell’encefalo umano e, segnatamente, delle aree coinvolte nella comunicazione e nell’apprendimento.
19. Il dibattito sulle BI non sta facendo altro che distogliere l’attenzione dalla comprensione delle vere cause della ‘fame nel mondo’ e dalle possibili soluzioni alternative all’ingegneria genetica per la risoluzione del problema; soluzioni rappresentate da: metodi di ibridazione tradizionale, nuove politiche sugli scambi commerciali, infrastrutture e riforme agricole nei paesi meno sviluppati.
20. E’ necessario potenziare le applicazioni delle BI a sostegno della tutela della biodiversità animale (inclusi gli organismi acquatici), fungina, microbica e vegetale e della dell’ ambiente
21. L’obiettivo del coinvolgimento del ‘consumatore’, affinché ‘questi raggiunga la piena consapevolezza di tutti gli aspetti delle problematiche legate agli OT’, deve essere perseguito nel pieno rispetto dei principi dell’‘autoregolazione individuale’ e dell’‘alleanza sistemica’, evitando di cadere nel ‘radicalismo salutistico’ culturale e istituzionale.
22. L’impostazione sistemica deve costituire: (a) il canone, (b) il prodromo e (c) la guida se si vuole affrontare concretamente e seriamente qualsiasi discorso inerente alla gestione delle BI. E’ la conoscenza del sistema in tutte le sue variabili: semantiche e/o episemantiche e/o le loro interazioni, la sola in grado di fornire elementi e indicazioni per una corretta e dinamica gestione del pianeta terra.
23. Si ribadiscono la consapevolezza e la convinzione che ‘la conoscenza ha un valore etico sempre superiore alla ignoranza’ e che la vera autonomia della ricerca scientifica non consiste nella ‘libertà di fare tutto ciò che è tecnicamente possibile’, ma nel continuo confronto con altri sistemi: sistema dei valori ‘etici’, sistema ‘sociale’, sistema delle ‘istituzioni’, sistema ‘legislativo’.

Approfondimenti e/o Bibliografia
Per approfondimenti in merito alle problematiche trattate si rimanda alle pubblicazioni di seguito riportate.

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