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MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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L'affrancamento morale dalla natura e l'etica ambientale

Maria Antonietta La Torre

(tratto da Le ragioni morali dell’ambientalismo, ESI, Napoli 1998)

Alla luce degli squilibri ecologici ormai ben noti, la necessità di una correzione nella gestione delle risorse e in generale nella relazione col mondo della natura non è in realtà più in questione; ciò che va valutato è quanto questi cambiamenti dovranno incidere sulla nostra visione del mondo, sulle nostre abitudini, al fine di chiarire se sia richiesta unicamente una maggiore oculatezza, in vista del nostro utile, oppure un sovvertimento della concezione del posto dell'uomo nella biosfera e quindi della sua scala di valori. La coscienza ecologica pone infatti in discussione proprio il ruolo dell'umanità come si è venuto delineando nelle società di tipo occidentale e con esso taluni paradigmi consolidati, tra i quali, oltre allo scientismo, nella forma in cui s'è detto, l'idea che nella ricerca scientifica tutto sia lecito, poiché essa persegue la verità e non ha obblighi connessi a valori, o, ancora, la convinzione che lo sviluppo industriale e tecnologico detengano un valore in se stessi, indipendentemente dalle possibili conseguenze, coerentemente con il mito illuministico del progresso come qualcosa di desiderabile in maniera assoluta e, anzi, di inevitabile, opinione che conferisce alla ricerca una sorta di "neutralità" etica. Ora, certamente questo modo di vedere ha prodotto i danni che oggi scopriamo, ma l'umanità ha iniziato ad esercitare un'azione sull'ecosistema sin dal suo primo apparire e la pretesa che tale cammino possa essere radicalmente e bruscamente invertito, semplicemente attraverso una presa di coscienza generalizzata o una "rieducazione" ambientale, sembra utopica: non è ipotizzabile una "neutralità" della presenza delle comunità umane rispetto alla natura. Scrive Hargrove che "quando interferiamo con la natura, indipendentemente dal fatto che le nostre intenzioni siano buone o no, creiamo una frattura in tale storia naturale. Non possiamo aiutare la natura nei suoi piani in quanto essa non ha piani. Quando noi facciamo piani per migliorare la natura, i piani non sono della natura, ma nostri e il risultato è l'irrigidimento della creatività naturale, è la trasformazione degli oggetti naturali, così influenzati, in manufatti dell'uomo. Anche se possono sembrare naturali, non sono più originali, non sono più autentici: la loro condizione ontologica è stata alterata."[i] In un certo senso, la pressione delle società tecnologicamente avanzate è un prolungamento o un perfezionamento dell'azione del coltivatore neolitico, che iniziava a sfruttare il territorio. Pertanto, è evidente il carattere mitologico dell'idea del "buon selvaggio" come artefice di un comportamento ecologicamente corretto[ii] e quindi l'inconsistenza dell'atteggiamento "primitivistico", ossia del rimpianto per una condizione quasi-edenica di armonia dell'intero habitat. In una simile prospettiva, il processo di civilizzazione è considerato nel suo complesso responsabile dei problemi attuali,[iii] conseguenze della decisione dell'uomo di infrangere le leggi di natura; una di queste, ad esempio, prescrive che i predatori siano in numero limitato, per evitare l'estinzione delle prede, ma da questo punto di vista, la natura sembra non aver provveduto l'uomo di un istinto fondamentale: quello alla sopravvivenza e all'autotutela; perciò, l'evoluzione culturale dovrebbe compiere un cammino "rivoluzionario" almeno pari a quella trasformazione cruciale che fu determinata dall'introduzione dell'agricoltura.[iv] I "primitivisti" sostengono che la degradazione della terra ebbe inizio quando Adamo ed Eva furono cacciati NEL giardino (piuttosto che DAL giardino), poiché ciò diede origine, appunto, all'agricoltura e quindi, a seguire, all'industria, ossia ad una spirale di distruzione che impoverisce la terra.
Ora, certamente lo sciamano delle società primitive potrebbe essere considerato un ecologista ante litteram, poiché fungeva da intermediario, per così dire, tra la comunità umana e l'ambiente e i suoi rituali assicuravano un equilibrio nel rapporto con la comunità allargata costituita da tutti gli esseri viventi, nel senso che non si "prendeva" mai più di quanto si "restituiva". La nostra relazione è invece tutt'altro che bilanciata. Tuttavia, la tecnologia è la modalità propria con cui l'uomo si rapporta alla natura, rappresenta in un certo senso un'"estensione" dell'umanità. La difficoltà sorge perché nel mondo occidentale la cosiddetta "lotta per l'esistenza", che accomuna tutte le specie viventi, si è trasformata per lo più in una lotta contro la natura, sostenuta dalla convinzione che l'essere umano detenga di diritto un potere su di essa, atto a giustificarne sia l'uso necessario alla sopravvivenza, sia lo sfruttamento indiscriminato. Il conseguimento del controllo sulla natura è, d'altronde, una componente essenziale del progetto moderno di società. La scienza, a partire da Bacone, si sostituisce alle arti magiche con l'obiettivo di rendere migliore la vita umana proprio a partire da un programma di dominio sistematico del mondo naturale, poiché grazie ad essa l'umanità si emancipa, non più sottomessa ad una natura i cui meccanismi non conosceva appieno e che finalmente non appare più misteriosa, e quindi dà libero sfogo alla propria volontà prometeica di affermazione. In tal modo ci si allontana sempre più dal tempo biologico, per vivere entro un tempo scandito secondo ritmi programmati in relazione alle proprie opzioni. Non è un caso se le cosiddette "ecofemministe" trovano proprio qui l'origine del soggiogamento "maschilista" della natura: C. Merchant, ad esempio, sottolinea come la scienza meccanicistica si eserciti primariamente sottomettendo e sfruttando la natura, con lo stesso atteggiamento che le società a conduzione maschile hanno adottato nei riguardi delle minoranze, delle parti deboli, delle donne.[v]
Questo atteggiamento ha determinato, in primo luogo, un sentimento di estraneità nei riguardi del mondo naturale e, in secondo luogo, la convinzione, che si è consolidata sino a configurarsi come uno dei cardini del pensiero moderno, che vi sia una sostanziale separazione tra la conoscenza naturale e la sfera della morale: la distinzione tra fatti e valori indica che le questioni di valore occupano uno spazio separato da quello della conoscenza. Ridotta la natura ad oggetto manipolabile, a strumento, il suo utilizzo deve sottostare esclusivamente a valutazioni di ordine quantitativo-economico-utilitaristico. "La svalutazione etica del mondo naturale appare come una diretta conseguenza della metafisica cartesiana e del materialismo scientifico che, riducendo gli organismi viventi a semplici meccanismi, perdono di vista le caratteristiche fondamentali della vita animale e organica."[vi] Sia la concezione della natura come limite, ossia come ostacolo al dispiegamento delle attività umane, del quale si mira quindi ad avere il controllo (nel regnum ominis di Bacone la liberazione dai vincoli imposti dalla natura costituisce la condizione stessa perché si dia una società umana), sia quella che la intende come mero oggetto, in quanto tale utilizzabile senza alcuna restrizione, elemento a disposizione dell'umanità per i suoi scopi, hanno contribuito all'affrancamento dalla natura. Da un lato appare evidente che la relazione con un siffatto oggetto non è sottoposta a vincoli di natura morale, dall'altro si legittima una valenza non solo pratica ma etica dello stesso sapere scientifico, che, in quanto mezzo per il conseguimento della felicità, trova in se stesso le proprie giustificazioni. È poi soprattutto nella tradizione kantiana (prevalente rispetto, ad esempio, a quella aristotelica, che invece indicava proprio nell'assecondare l'ordine della natura la principale regola per il perseguimento del bene) che l'etica viene disgiunta radicalmente dalla natura ed anzi viene considerato morale ciò che reprime gli istinti naturali, poiché la morale è fondata nella volontà dell'individuo razionale.
Ma vi sono nella nostra tradizione anche segni di una terza tendenza: quella a considerare l'uomo come parte della natura,[vii] della quale l'attuale consapevolezza dei danni inferti all'ambiente e delle responsabilità morali a questo connesse rappresenta in un certo senso lo sviluppo, connesso al riconoscimento che la natura non è più mero limite, in quanto l'uomo ha imparato a controllarne in buona parte i fenomeni, e può egli stesso influire in maniera decisiva sulla sua evoluzione, e non è neppure mero oggetto, dopo la crisi del paradigma stesso dell'oggettività, che impedisce di considerarla semplicemente come "altro" rispetto all'umanità. D'altronde, continuando a porre in maniera acritica questo genere di alternative, si perpetua la tendenza dicotomica propria della cultura occidentale, che segue da sempre una logica binaria (vero/falso, bene/male, etc.) e che ha arbitrariamente posto fratture tra il mondo naturale e quello culturale, tra natura e società e in maniera analoga oggi sembra incapace di rinvenire una terza via rispetto alla scelta tra dominare la natura o seguirne i ritmi sul modello delle società primitive. Ora, l'uomo non è responsabile dell'esistenza della natura in senso proprio, non ne è l'artefice. È evidente, però, che la sua presenza sul pianeta ha un'incidenza di gran lunga maggiore, e per giunta crescente in relazione all'evoluzione delle capacità tecniche, di quella degli altri viventi, che risulta al contrario pressoché costante: carattere distintivo dell'umanità rispetto alle altre specie è la sua capacità di modificare l'equilibrio naturale, cosicché l'azione dell'uomo non rientra nella normale competizione biologica tra le specie. Ma soprattutto l'umanità può divenire, come di fatto sta accadendo, consapevole di tale azione e regolamentarla. "È perfettamente vero che l'uomo può sopravvivere, come ogni altra specie, solo sacrificando altre specie, ma l'uomo vede quello che sta accadendo; può osservare la scomparsa delle specie concorrenti; può calcolare gli effetti che causerà l'estinzione di una specie; può, almeno in linea di principio, preservare una specie e mutare il suo atteggiamento per renderlo meno distruttivo."[viii] E ciò perché gli esseri umani sono in fondo, nel medesimo tempo, insieme alla natura ed anche altro dalla natura, poiché la cultura, intesa nel senso più ampio del termine come l'insieme delle conoscenze, delle credenze, delle attitudini acquisite, dei prodotti delle attività umane, delle risposte comuni all'ambiente e della capacità di costruire un proprio mondo, li rende certamente in qualche misura non-naturali. Ad esempio, "molte specie animali si preparano per il futuro, ma, a differenza degli esseri umani, non possono non prepararsi. Quando il loro orologio interno dice 'migrare', si mettono a volare, che abbia senso o no. Le specie più avanzate possono modificare il loro comportamento reagendo a condizioni ambientali imprevedibili, ma sempre entro orizzonti temporali che, a paragone di quelli dell'uomo, rimangono fortemente limitati. Molte specie possono comunicare paure e progetti, ma, tranne pochi esempi di portata limitata, non possono generare né ricevere comunicazioni sul passato."[ix] L'umanità invece può rivedere, problematizzandola, la propria condotta, e poiché comprende di essere coinvolta nel destino della natura, ne riceve un obbligo a sollevare una questione in merito all'uso di essa: ciò implica che gli individui umani devono assumere una speciale forma di responsabilità verso le altre specie e verso l'ambiente, oltre che verso i propri simili, e che da questa responsabilità scaturiscano dei doveri ecologici?

[i] E.C.HARGROVE, op.cit., p.263.
[ii] Cfr. K.H.REDFORD, The Ecologically Noble Savage, "Orion Nature Quarterly" 3 (1990) pp.25-9 e R.EDGERTON, Sick Societies: Challenging the Myth of Primitive Harmony, New York, Free Press 1992.
[iii] D.ABRAM, The Ecology of Magic, "Orion Nature Quarterly" Summer 1991. Cfr. anche C.POINTING, A Green History of the World, New York, St.Martin's Press 1992.
[iv] C.TUDGE, The Rise and Fall of Homo Sapiens Sapiens, "Philosophical Transactions of the Royal Society", London, B 325 (1989) pp.479-488.
[v] C. MERCHANT, The Death of Nature: Women, Ecology, and the Scientific Revolution, New York, Harper and Row 1980, tr. it. La morte della natura: Le donne, l'ecologia e la rivoluzione scientifica, Milano, Garzanti 1988. Il corollario è un invito a recuperare gli elementi "femminili", la capacità di rispetto, cura, sentimento, e ad identificare la terra stessa come "Madre", nutrice, alla quale volgersi con amore, per altro secondo stereotipi, a nostro avviso, ormai datati. Secondo le ecofemministe "questa 'ideologia patriarcale', come è talvolta chiamata, tendeva a celebrare il maschile sul femminile con modi che risalgono almeno a Platone, ben prima del sorgere del meccanicismo. L'uomo è razionale (ed è un bene), la donna è emotiva (ed è un male). L'uomo è obiettivo e analitico (ed è un bene), la donna è soggettiva e intuitiva (ed è un male). Lo scopo dell'uomo è di trascendere la natura attraverso la ragione, il destino della donna è di rimanere schiava della natura attraverso la sua immersione fisica in essa." (T.REGAN, Alcuni limiti dell'ecofemminismo e dell'ecologia profonda, in S.CASTIGNONE, (a cura) Etica dell'ambiente, Napoli, Guida 1994 p. 68.) Tuttavia, bisognerebbe "distinguere con cura le idee di Bacone dall'ideologia del baconismo, soprattutto se si pone mente a talune semplificazioni di gran parte della filosofia della tecnica di questo volger di secolo che, influenzata da uno heideggerismo di maniera, si è spesso tradotta in una condanna senza appello della scienza e della tecnica moderne e non soltanto dell'ideologia del baconismo." M.OSTINELLI, L'etica del futuro di Hans Jonas, in S.CASTIGNONE, op.cit., nota p.103.
[vi] L.BATTAGLIA, L'etica ecologica e il nuovo olismo, in S.CASTIGNONE, op.cit., p.156.
[vii] La tradizione kantiana definisce esplicitamente la natura a-morale, contrapponendola a ciò che è morale (che consente all'uomo di sollevarsi al di sopra della natura e degli istinti); ma vi sono anche la tradizione stoico-aristotelica, che invece considera la morale essa stessa naturale, nel senso che il bene consiste nel seguire i precetti della natura perché l'uomo è un essere naturale; oppure quella humeana e darwiniana, nella quale la morale è fondata sulla natura. Sulla tradizione dell'"uomo parte della natura" ci sia consentito rinviare a M.A.LA TORRE, Ecologia e morale. L'irruzione dell'istanza ecologica nell'etica dell'Occidente, Assisi, Cittadella 1990.
[viii] J.PASSMORE, Man's Responsibility for Nature, London, Duckworth 1974, 1980², tr.it. La nostra responsabilità per la natura, Milano, Feltrinelli 1986 p.213.
[ix] J.T.FRASER, Time. The Familiar Stranger, Amherst, University of Massachusetts Press 1987; tr. it. Il tempo: una presenza sconosciuta, Milano, Feltrinelli 1992² p.18.

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