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MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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Alla fine della vita

Accompagnare alla morte in una comunità agapica

Pasquale Giustiniani

La “fine della vita” nell’orizzonte di una comunità agapica L’espressione “ alla fine della vita” non riguarda soltanto il cosiddetto “paziente terminale” e neppure selettivamente il paziente oncologico o in stato vegetativo permanente irreversibile. La fine della vita concerne tutte quelle situazioni patologiche e non che, dal punto di vista socio-statistico, fanno presumere che il momento dell’exitus sia piuttosto vicino, ovvero che la salute di un soggetto umano, sia stata giudicata dagli esperti, in scienza e coscienza, ormai in imminente o assai probabile pericolo di morte, come è generalmente il caso di coloro che versano nello “stato vegetativo”,.
Spesso questa stagione finale dell’esistenza è accompagnata da sofferenza e dolore, per cui interroga sia il malato, soprattutto se cosciente, sia coloro che ne trattano la peculiare situazione, anche dal punto di vista sanitario. La formalizzazione di questi interrogativi apre al cosiddetto “mistero del dolore e della sofferenza” che assume configurazioni diverse caso per caso. In merito, le sempre più diffuse discipline analgesiche e palliative aiutano a distinguere opportunamente tra aspetti nocicettivi e percettivi del dolore (sul cui controllo e gestione possono oggi abbastanza le terapie antalgiche e sedative) ed ulteriori aspetti di tipo psico-fisico-relazionali: sono questi ultimi che, sommati a quelli nocicettivi, conducono in situazione di sofferenza il soggetto alla fine dei suoi giorni. Spesso egli, se cosciente, pone a sé e a coloro che lo circondano la domanda, a volte angosciosa, circa il senso del suo dolore, della sua sofferenza e della sua singolare malattia e richiede forme non usuali di risposta e di comunicazione. Tutto questo diventa, perciò, una serie di provocazioni sul senso stesso del soffrire che accompagna la vicenda di noi, esseri umani contingenti, chiamati da quel vero e proprio areopago contemporaneo, che è il mondo della comunicazione, a rendere ragione di questo senso, anche in vista del reperimento di strumenti di guida e di ispirazione per i comportamenti individuali, familiari, sociali. Talvolta la situazione patologica, oltre che procurare uno stato di ansia e di pena nel soggetto malato cosciente o incosciente, sollecita nel gruppo umano di riferimento l’esigenza di organizzare, oltre che una serie di azioni di cura e di assistenza, di reperire determinate terapie ad hoc, anche una vera e propria “comunità terapeutica”, costituita non soltanto da esponenti del mondo sanitario, bensì da un insieme di persone chiamate, per vocazione e status, a non tralasciare nulla di quanto possa essere fatto, tentato e sperimentato al fine di accompagnare il sofferente e il morente, comunicar con lui in forme tradizionali e non tradizionali, recar sollievo al corpo, di garantire le cure e le terapie minimali, quelle cioè che, normalmente e nelle condizioni abituali, sono destinate a mantenere in essere la vita (alimentazione, trasfusioni di sangue, iniezioni…), nonché a recare sollievo anche allo spirito di chi soffre nelle fasi prossime alla morte[1]. In tali momenti, infatti, soprattutto in presenza di soggetti in stato di incoscienza provocata dalla malattia o indotta tecnicamente, i rapporti interpersonali si configurano sempre di meno come dei “contratti terapeutici” e sempre di più come delle relazioni in cui dovrebbero armonicamente convivere specialismi e prossimità, terapia ed assistenza. In siffatta comunità, articolata al suo interno ben al di là delle figure parentali e professionali, gli esponenti del mondo sanitario, tuttavia, conservano il delicato compito di comunicare, in scienza e coscienza, quando occorra procedere ulteriormente con terapie e quando sia, invece, da considerare, in coscienza e scienza, inutile e dannoso l’ostinarsi a praticarle, pur senza mai negare l’assistenza, la quale, per unanime orientamento, non va mai sospesa. In merito, circa la particolare situazione di un paziente in situazione di nutrizione artificiale (in genere accompagnata da altri stati patologici quali lo stato vegetativo) mentre qualche esperto ricorda che «la comunità scientifica, ma anche quasi tutte le cosiddette persone di buonsenso o di opinione, concordano che in caso di accanimento terapeutico la nutrizione artificiale, come tutte le terapie, vada interrotta»[2], la Congregazione per la dottrina della fede, il 14 settembre 2007, nell’accompagnare la risposta al quesito dei Vescovi statunitensi, dopo il caso di Terri Schiavo, se l’alimentazione e l’idratazione di questi pazienti, soprattutto se somministrate per vie artificiali, non costituiscano un onere eccessivamente pesante per loro, per i parenti o per il sistema sanitario, fino al punto da poter essere considerate, anche alla luce della dottrina morale della Chiesa, un mezzo straordinario o sproporzionato, e quindi non moralmente obbligatorio, ha ribadito che la nutrizione - intesa come somministrazione artificiale di acqua o liquidi e cibo -, non è, né intende essere, una terapia risolutiva, ma soltanto una cura ordinaria per la conservazione della vita; per cui, anche quando avvenisse per vie artificiali, tale nutrizione rimarrebbe comunque un mezzo naturale di conservazione della vita e non un trattamento terapeutico, con la conseguenza che, dal punto di vista morale, non potrebbe essere mai interrotta, non potendosi far mancare, in linea di principio, le cure normali dovute all’ammalato, foss’anche in uno stato vegetativo che, per convenzione medica, viene denominato permanente[3].
Il richiamato dovere di sollevare il fisico del malato senza inutili accanimenti terapeutici e di confortarne lo spirito che soffre alla fine dei suoi giorni, implica, dal punto di vista dei doveri della comunità terapeutica, non soltanto una peculiare attenzione circa gli aspetti psicologici, ascetici e pastorali dell’assistenza e della cura, ma anche circa i presidi - farmacologici, nutrizionali, sociopsicologici, pedagogici, comunicativi in tutte le direzioni anche fisico-tattili e olfattive…-. Soprattutto, dal punto di vista dell’articolazione temporale, li sottintende non solamente nella delicata fase terminale della vita, oggi accompagnata da accesi dibattiti tra chi accentua gli aspetti del morire in pace, scegliendo liberamente, anche in maniera anticipata, le terapie da accettare o rifiutare e chi, invece, dà rilievo all’indisponibilità della vita umana nelle sue fasi terminali[4]. Infatti, il morire umano dipende non soltanto dalle peculiari condizioni socioculturali e sanitarie dei momenti ultimi, ma da come si è affrontata nell’intera esistenza, da parte del gruppo sociale e dei singoli, la grande domanda sul senso della vita e della morte, nonché sul senso della rilevanza etica delle credenze di fede, sul modo di compiere l’esercizio stesso del cristianesimo tra scienza e fede, nonché tra verità e relativismo. Quelli da porre in essere in una comunità terapeutica si configurano, dunque, come un insieme di gesti e di modi di essere che, nel corso dell’intera esistenza, contribuiscono ad un esercizio costante di educazione remota e prossima all’ultima ora. Coltivando, tuttavia, una gestione della vita che non è mai soltanto biologica, neppure soltanto intellettuale, neppure soltanto legata alle emozioni, decisioni e scelte. Difatti, «nei momenti cruciali della vita di una persona, la categoria della motivazione, per mezzo della quale ci spieghiamo i nostri comportamenti e le nostre convinzioni, le nostre risposte e anche le nostre emozioni, può fare cilecca. C’è una sfera, uno strato, un livello della vita personale che è, come la rosa di Silesio, senza perché […]. Vi appartengono le zone più profonde dell’esperienza estetica, l’insieme di tutto ciò che in etica è “surrogatorio” e non dovuto, l’amore stesso personale al suo livello più essenziale»[5]. Per questo, tali gesti e modi possono diventare, nel loro insieme, effettivamente lenitivi e palliativi, in quanto aiutano il soggetto malato, oltre che a sopportare validamente il suo male o il suo stato assai compromesso di benessere – nei momenti in cui attraversa i diversi e articolati stadi verso il morire, fino alla percezione o quasi consapevolezza che il momento finale stia effettivamente giungendo -, bensì anche a combatterlo per ripristinare eventualmente, se non proprio la salute e il benessere psicofisico, almeno l’accettazione consapevole del proprio status mediante quelle vie alogiche, ma non illogiche, che sanno percorrere i profondi sentieri dell’inconscio e del sentire simbolico piuttosto che rappresentativo e argomentativo. Siffatta “accettazione” permette, tra l’altro, al malato cosciente di aprirsi delle inedite possibilità antropologiche, oltre che religiose; di accettare progressivamente che, con l’evento della morte – che è un processo dinamico e non un momento puntuale -, non finisca del tutto l’esperienza relazionale del vivente umano.
Se poi la comunità terapeutica è gestita da credenti cristiani, essa assume la configurazione, come già osservava il filosofo Max Scheler nella parte centrale della sua riflessione scritta, quale vera e propria comunità di agàpe. In essa, infatti, dovrebbe essere ormai definitivamente avvenuto il passaggio dall’eros all’agape, con la conseguenza non soltanto di una profonda trasformazione dell’idea di Dio e del suo rapporto con l’essere umano, ma altresì dei modi stessi di desiderare, di conoscere e di amare. Nelle persone qualificate da nuove modalità di vivere l’eros e l’amore, infatti, non esiste più, come avveniva nel mondo greco classico, un amore del “bene” come oggetto esterno da desiderare e da afferrare, in quanto ora è l’amore stesso a divenire il soggetto del valore “buono”, nel senso che esso è amore sorgivo, indipendentemente da ciò che produce ed opera come possibili effetti del bene compiuto[6]. In prospettiva bioetica, una tale comunità agapica è in grado di porre in essere, a vantaggio del malato, un insieme di gesti funzionali di prossimità e di vicinanza, alla luce della precomprensione che la vita del soggetto, già vissuta attraverso gioie e dolori, speranze ed angosce, non possa mai chiudersi con una morte assurda e priva di senso; in particolare, senza prestare ossequio ad una forma di orgoglio luciferino, per cui i sopravvissuti debbano inutilmente continuare ad infierire, pur potendolo tecnologicamente, tale comunità non si accanisce mai su una vita allorché essa sia ormai irreversibilmente entrata nel tunnel della morte attraverso le fasi pre-agonica ed agonica.

Dialettica tra comunità terapeutica e storicizzazione delle decisioni terapeutiche La nozione di comunità terapeutica, così descritta sul piano morale, non trova ancora molti riscontri sul piano dell’organizzazione sociale, nonché su quello dell’organizzazione sanitaria. E ciò non soltanto per ostacoli tecnici o economici, ma soprattutto ideali. Essa suppone, infatti, una nuova concezione dell’amore e dell’impianto solidaristico nei rapporti tra persone e, principalmente, un superamento di una concezione individualistica e soggettivistica del benessere, della salute e, di conseguenza della stessa patologia[7]. Certe ipotesi eutanasiche o di suicidio assistito si spiegano assai meglio, infatti, alla luce di un quadro che, sul piano teoretico, è stato già denominato postmoderno e soggettivistico, in quanto caratterizzato da un troppo disinvolto scavalcamento della nozione di natura umana (che è natura da non confondere con cosmo regolato da leggi), a vantaggio di un riduzionismo che non soltanto storicizza quest’antica nozione filosofica di natura, fino a sostenere «che essa sia compiutamente culturale», cioè totalmente «dipendente dalle scelte, valori, decisioni degli uomini»[8], ma tende altresì ad esclusivizzare il principio della determinazione soggettiva: sarebbe il soggetto, e soltanto il soggetto senza raccordi con la “luce” etica pur proveniente dalla collettività o dalle comunità religiose, a scegliere di accettare o di rifiutare la prosecuzione della terapia e, nei casi estremi, anche di rifiutare di alimentarsi o di idratarsi. Questa storicizzazione sproporzionata della natura giunge, talvolta, a negare la possibilità stessa di valori universali e non contestuali, a cui invece continuano comunque a far riferimento sia Dichiarazioni universali dei diritti che le Carte deontologiche, che tendono, invece, a riconoscere come universali e necessari dei diritti umani, che risultano attribuiti alla persona in quanto tale, indipendentemente dalle sue condizioni storico-contestuali. Alcuni tratti di tale concezione che marca forse un po’ troppo, anche nella discussione di casi bioeticamente rilevanti, l’autonomia e la soggettività del morente, fanno prevalere, rispetto alle relazioni comunitarie, il suo legittimo desiderio di non essere ulteriormente di peso agli altri, fino a poter rifiutare le cure o di proseguire i mezzi ordinari e proporzionali di terapia, talvolta a scapito delle stesse esigenze agapiche o solidaristiche.
Certo il “discorso sull’autodeterminazione”[9] del soggetto malato circa l’adesione/non adesione alle terapie proposte, soprattutto se pensato come via alternativa responsabile alla soluzione dei problemi personali di tanti individui il cui destino finale sia diventato (oppure si presuma diverrà nel futuro) insopportabile[10], ha le sue buone argomentazioni e le sue buone ragioni. Le ha e le esibisce soprattutto quando ricorda, per esempio, che l’attuale assetto di gestione, soprattutto sanitaria, del morire è sempre meno un “affare” a cui viene chiesto direttamente a morente o al morituro di partecipare, dal momento che costui non sempre viene sentito (né può essere sentito se in situazione d’incoscienza) circa il tipo di morte che desidererebbe in presenza di determinati stati patologici e limitate possibilità di terapia. Davvero «sono tanti coloro che non possono decidere nulla, né della loro vita né della loro morte», anzi «milioni e milioni di uomini» sul globo terrestre non hanno oggi «la minima possibilità né di scegliere né di morire in modo degno dell’uomo»[11], tanto meno di determinare ora per allora la sospensione di certi trattamenti sanitari. In particolare, mentre in Occidente si discute molto circa il come e il quando procedere o fermare, per esempio la nutrizione artificiale in soggetti in stato vegetativo permanente, altrove si continua a morire senza nutrizione naturali e senza semplici presidi terapeutici di sostegno o salvavita, per l’impossibilità fisica di disporre di soluzioni, al punto che le stesse linee di principio morale, esibite per esempio da parte cattolica, si vedono costrette a dichiarare che, in circostanze simili a quelle evocate, ad impossibilia nemo tenetur.
Certo, alcune tendenze delle società opulente orientano la comunità terapeutica più a combattere e a differire a ogni costo la morte degli individui umani, anziché a gestire sensatamente e solidaristicamente le singole sorti dei morenti. Non è un caso che i nostri dibattiti bioetici indugino sugli aspetti di dedizione e assistenza socio-sanitaria piuttosto che su quegli altri, altrettanto rilevanti – seppur non sempre finanziabili dal sistema sanitario -, per il malato incurabile, il quale domanda comunque agli altri, con il suo stesso versare in condizione finale e incurabile, «una dedizione umana che duri sino alla fine […]. La massima attenzione accompagnata al minimo della terapia»[12]. Il che esigerebbe, ad esempio circa la dibattuta questione della nutrizione artificiale in soggetti in stato vegetativo, di distinguere non soltanto tra i diversi tipi di nutrizione artificiale: enterale se utilizza l’apparato gastroenterico; parenterale se utilizza vene periferica o centrale; mista in particolari condizioni; ma di stabilire anche le differenti situazioni di un paziente in terapia intensiva per il quale vi sia diagnosi di non guaribilità, che è ben diverso rispetto ad un paziente dimesso da terapia intensiva in stato vegetativo persistente (perdurante nel tempo, con la conseguenza che la patologia diverrà irreversibile e, dopo un certo numero convenzionale di mesi, permanente), ma anche rispetto ad un paziente oncologico incurabile, oppure ad un paziente affetto da altra patologia non più curabile (laddove incurabilità, da preferire forse a “terminalità”, corrisponde all’impossibilità oggettiva di una terapia allo stato delle conoscenze mediche), per non dire poi di un paziente in stato preagonico o agonico, il quale abbia cioè già iniziato il suo processo biologico di morte.
Tuttavia, le pur opportune indicazioni in vista di un approccio globale alla vita e alla malattia, che rimarcano la necessità d’instaurare in ogni caso un clima umano, una dedizione e un dialogo ininterrotto, di comunicare con modalità adeguate le verità al morente, di prendersi cura non soltanto della sofferenza del corpo ma anche dell’anima, di diffondere nelle aziende sanitarie la cultura degli hospice, mentre rivelano il desiderio della nostra società di rendere più lieve il morire del soggetto, spesso finiscono per porre al primo posto, forse proprio a motivo del puntare eccessivamente sul principio di autonomia del paziente -, la sola questione della soggettività dei morenti e delle loro personali decisioni di fine vita, perdendo di vista altre forme di accompagnamento e di comunicazione. I non più curabili si trovano, così, tutt’al più chiamati a gestire pressoché “in solitario” la propria fine, anche ora per allora mediante deliberazioni anticipate di trattamento ammesse ad hoc dalla legislazione di turno. Se, da un lato è vero che, a volte, «costoro non desiderano essere tranquillizzati o resi incoscienti mediante psicofarmaci o morfina», è anche vero che dal momento che non possono ancora morire, «domandano una morte dignitosa: chiedono di essere aiutati a morire»[13], ovvero richiedono alla comunità terapeutica non tanto di essere soppressi anticipatamente, bensì di essere accompagnati da opportuni ausili e presidi sia personali e sanitari, che relazionali e sociali. L’odiosità ancora riconosciuta per la soluzione eutanasica viene, così, riservata soltanto alla cosiddetta “eutanasia imposta per costrizione al soggetto”, supposto sempre arbitro insindacabile della gestione sanitaria e assistenziale del proprio benessere, fino al punto che anche delle pratiche “attive” sarebbero da derubricare da omicidio su consenziente ad «un atto volontario, un atto di pietà liberamente chiesto dal paziente»[14].
Tutto questo non chiama soltanto in causa una discussione filosofica ed etica, ma altresì teologica, poiché sollecita a non domandarsi tanto – come pure il magistero cattolico sembra oggi voler fare – se la vita sia un “valore non negoziabile”, e quindi del tutto indipendente dalle decisioni del soggetto circa la sua fine, bensì se l’essere umano abbia «in generale, anche per la concezione cristiana, il diritto di disporre da sé dell’essere o del non essere della propria vita»[15]. Le connesse possibili soluzioni etiche, fondate sulla nozione di autonomia e autodeterminazione del paziente, della decisione anticipata di escludere eventualmente, dalla propria stagione d’incurabilità finale, una medicina esclusivamente tecnica, cioè utile soltanto a ritardare o differire di poco la morte ormai imminente, sul piano teologico risollevano altrettanti problemi di più ampia portata: per esempio, quelli relativi alla corretta immagine del Dio da supporre in relazione al valore della vita umana; alla configurazione della vita e della sua gestione come dono prevalente della creazione divina piuttosto che della collaborazione dei genitori; al grado di pertinenza da assegnare al Creatore circa la fine meramente biologica di un’esistenza; alla tematica dell’adesione alla volontà divina da parte del malato in situazione drammatica di vita definitivamente distrutta e di dolore ormai non più umanamente sopportabile. L’alternativa teologica secca tra responsabilità esclusivamente divina e responsabilità esclusivamente libera dell’essere umano, oltre a porre, poi, delle serie questioni circa la rilevanza della funzione del medico nelle decisioni terapeutiche e sanitarie di fine vita, finisce per attutire quel senso più ampio di comunità terapeutica a cui si alludeva all’inizio, riducendo i momenti del morire di un soggetto a un problema etico individuale, in qualche modo analogo a quello della paternità responsabile (da gestire, cioè, all’interno dell’etica individuale o, tutt’al più, di coppia), ma di fatto emarginando da questo “affare” la stessa comunità terapeutica e agapica, costretta sempre più a dividersi «tra il rigorismo morale e il libertinismo amorale»[16]. Anche se il Dio misericordioso avesse «lasciato all’uomo che è in procinto di morire la responsabilità e la libertà di coscienza di decidere il modo e il tempo della sua morte»[17], lo stesso Dio non esonererebbe mai la comunità, almeno quella peculiare comunità pastorale e terapeutica che è la comunità ecclesiale, dal compito di comunicare in modi molteplici, non soltanto linguistici e verbali, con il paziente, di accompagnarlo cioè costantemente nella buona morte, con modi e forme, anche gestuali, mimiche e tattili, che esaltino il senso di prossimità e solidarietà, relazionalità e cura globale, ovvero con tutte quelle modalità elettivamente simboliche che dovrebbero contrassegnare una comunità agapica.
Per dare corpo a siffatta prospettiva, delle utili indicazioni provengono dalla storia del pensiero occidentale. Per esempio, il tema della definizione dell’essere umano, se ripensato alla luce di tutte queste considerazioni, spinge a qualificare la gestione del proprio morire e del morire altrui alla luce di ciò che caratterizza e distingue, pur senza specismi, l’animale umano dagli animali non-umani. Così, la stessa sprovvedutezza biologica dell’essere umano, il suo inadattamento a un particolare ambiente, su cui hanno tanto insistito certe antropologie filosofiche germanofone del secolo XX, sta lì a ribdaire la tipica condizione in cui versa un organismo cronicamente indefinito, qual è quello umano, che tuttavia, già a partire dal modo sensoriale di entrare in contatto col mondo, evidenzia una grande capacità simbolica non soltanto nei processi di apprendimento linguistico e concettuale, ma anche nell’esercizio della sensibilità: dimensione, questa. che assume una così grande rilevanza nei rapporti tra paziente incurabile alla fine dei suoi giorni e comunità terapeutica, la quale comunica e parla, appunto, prim’ancora che con linguaggi verbali, mediante gli ambienti, i protocolli sanitari, l’assetto dei luoghi e delle terapie, la capacità di assistenza e di interazione tattile, acustica, visiva, olfattiva. Così, le insistenze lockiane sull’idea di “solidità”, nettamente distinta dall’idea di spazio, legata al solo senso del tatto e senza equivalenti nella vista, o quelle di Herder sulle forme di connessione sinestetica, in cui ancora il tatto diventava il punto di partenza di una differenziazione percettiva complessa, e, al tempo stesso, la condizione di possibilità del linguaggio, al di là delle estremizzazioni sensistiche e materialistiche che corrono in filosofia dal primo Berkeley al secondo Condillac, segnalano alla riflessione bioetica sulla vita alla fine il grande potere percettivo e cognitivo dei sensi e delle altre forme “primitive” di comunicazione. In particolare, le insistenze di certe filosofie sensiste sul tatto, sono oggi probabilmente le più operative ed attive nel campo dei rapporti da stabilire tra comunità terapeutica e paziente morente, non senza riverberi sugli altri modi percettivi che entrano comunque in gioco nella relazione tra paziente e comunità di cura: dall’odorato che evidenzia il legame fisico tra il nostro corpo e gli altri corpi, nonché con l’ambiente e sostiene l’operazione del ricordo[18].

Percorsi pedagogico-bioetici verso una comunità terapeutica agapica

Una certa carenza, non tanto etica e bioetica sulle situazioni di fine vita, quanto pedagogica, nell’attuale società ipertecnologica e tecnoscientifica spiega anche un certo ondeggiare tra illusioni su una vita indefinita, se non proprio infinita, e situazioni di “fine vita” troppo stressate dalla medicina e dalla discussione bioetica. È in questi contesti di stress accentuati e di carenze pedagogiche comunitarie che la persona umana potrebbe sentirsi sospinta a vivere l’ineluttabilità umana della morte come “tragedia” piuttosto che come “transito”, ovviamente con notevoli riverberi negativi sia dal punto di vista medico-sanitario e psicologico, che sociale e culturale. La pedagogia della relazione interpersonale, in particolare, insiste invece su nuove possibilità da attribuire ai linguaggi altri e alla comunicazione non verbale (soprattutto iconica e, per quel che ci interessa, gestuale), con o senza la mediazione di strumenti informatici (che sono diventati in ogni caso “alla moda” in alcune situazioni patologiche estreme, accompagnate da richiesta di “sospensione dei trattamenti” o da “assistenza al suicidio”, comunicate mediante strumenti virtuali e informatici in assenza di linguaggi tradizionali), lanciando inedite possibilità alla stessa prassi che abbiamo chiamato agapica. Del resto, proprio una tale prospettiva, a motivo dei suoi rinvii esplicitamente religiosi, rinvia, ai fini del miglioramento della qualità dei rapporti umani nella fase conclusiva della vita, alla tenerezza paterna e materna dei soggetti che entrano in relazione, che a loro volta dovrebbero evocare la tenerezza paterna e materna di Dio[19]. Si tratterebbe di ri-abituare a conoscere e a riconoscere le persone e le cose con l’aiuto dei sensi, con la vista, l'udito, il tatto, con gli stessi strumenti meccanici, fisici, chimici o telescopici. D’altra parte, è proprio l’universo simbolico della liturgia cristiana - la cui simbolicità si svolge all’interno di una più ampia teoria dei segni e del linguaggio, nella prospettiva di stabilire ritualmente una connessione tra due mondi per definizione “altri”, così come, anticamente, indicava la metà di un oggetto che, spezzato in due, veniva dato come pegno di amicizia fra città e famiglie, oppure come mezzo d’identificazione per sconosciuti, come contras-segno[20] – a ribadire un fatto pedagogicamente rilevante: la capacità simbolica sta davvero alla base del funzionamento dell’intelligenza umana, per cui richiede di per sé «la collaborazione dei nostri sensi: la vista, l’udito, l’olfatto, il tatto. Essa ricorre al contributo delle icone, della musica, del canto, della luce, dei fiori, dei colori, della coreografia. La liturgia ha bisogno degli elementi del creato: il vino, l’acqua, il pane, il sale, il fuoco, la cenere, ecc. La liturgia sembra perciò voler raccogliere tutta la creazione e far propria la bellezza sparsa nel mondo. La lode che si innalza nella liturgia, quindi, non è un atto riservato solo all’uomo: tutta la creazione viene invitata ad unirsi a noi nel rendere gloria al Padre, per Cristo, nello Spirito Santo»[21].
È la simbolica del sacro la disciplina che, particolarmente attenta alla totale identità che qualunque simbolo è in grado di porre ed evocare tra significante e significato, ad aiutare a questo punto la nostra riflessione. In quest’ottica, infatti, «il simbolo […] è un significante performativo, ontico, insostituibile, incorporante in se stesso il significante»[22]. Di fronte a questo termine peculiare - “simbolo” -, in grado davvero - grazie alla sua potenzialità di ri-unificare mondi e sensi distanti - di “far cose con le parole” (potenzialità performativa del simbolo)[23], di elevare e trasformare il soggetto nel suo contesto vitale (potenzialità perlocutiva del simbolo); di fronte a questo veicolo linguistico e iconico verso un mondo altro che, in esso e per esso, si fa presente ed accade mediante la medesima parola simbolica (potenzialità ontologica e metafisica del simbolo), non è mai sufficiente una ragione argomentativa, deduttiva o induttiva che sia. Al simbolo, infatti, piuttosto che una ragione che “spezza” e divide (che diverrebbe diabolica piuttosto che simbolica), piuttosto che l’immaginario ed il fantastico, piuttosto che l’onirico ed il razionale argomentato, sa meglio accedere un conoscere per natura “complesso” e “caotico”, un sapere nelle sue forme primigenie sensibili e tattili, immaginative ed evocative. Si tratta dello “immaginale”, ovvero di quel tipo particolare di conoscere che è in grado di mettere pienamente in luce la funzione immaginativa della parola, del gesto, del segno sensibile, del linguaggio, dell’allusione e del rinvio, quindi pure di ogni mito e di ogni rito, che di queste funzioni immaginative si nutre e nelle quali si articola. L’immaginale funge, insomma, da vero mondo intermedio tra la sfera delle percezioni sensibili e quella della pura spiritualità superiore[24]. Si comporta da soglia che dà completa ragione del simbolico, in quanto è confine sul quale si confrontano, si fondono e si distinguono, esperienze sensoriali, olfattive e tattili, oltre che visive ed acustiche, insieme con elementi impercettibili, indeterminabili, forse perché risalenti sempre all’a-ragionevole ed all’inconscio, all’a-logico, che non è mai illogico e irrazionale pur dicendo in maniera “altra” il senso.
Com’è stato scritto, «l’immaginale che dà forma al simbolico comporta, per dar completa ragione del simbolico medesimo, di non essere inteso soltanto come una forma o una modalità espressiva e comunicativa di natura sensoriale (pur essendo anche sempre tale), bensì come la forma unica e la modalità unica di esprimere un simbolico vissuto e partecipato»[25]. Così, mentre articolano parole di vita e di morte, di passioni e di innamoramenti e di alterne vicende relazionali, i simboli vanno narrando, anche nella comunità terapeutica, non soltanto di esperienze dei fondatori e dei veggenti, degli dei e degli esseri venienti da altri mondi, ma pure dei rapporti storici, istituzionali e culturali, perfino sanitari e medici, che le comunità sacrali hanno intessuto e vanno intessendo con l’Assoluto e con il divino e, su quel modello, tra loro, generando futuro dal passato e persino presente dal futuro presagito e presentito.
In particolare, riterrei inevitabile, nell’ottica indicata, una rilettura della stessa ritualità liturgica cristiana. In prospettiva di “bioetica della vita alla fine”, mi sembra stimolante soprattutto il Rito liturgico dell’Unzione degli infermi[26]. Ritengo che esso, riletto nella chiave proposta, consentirebbe appunto la riscoperta e la valorizzazione di numerosi linguaggi “altri”; in particolare, conferirebbe il giusto valore simbolico al senso del tatto, forse quello maggiormente in grado di comunicare, nel contesto di chi lascia la vita terrena, in maniera emotivo-immaginifica e simbolica, piuttosto che argomentativa, induttiva e deduttiva, facendo riverberare l’immaginale nella comunità terapeutica e, soprattutto, aiutando in maniera alogica, ma non illogica, l’interlocutore, anche se privo di consapevolezza psicologica e gnoseologica, affinché si senta “in compagnia sensibile” con gli altri, con coloro che, rispetto a lui che è ormai in dipartita da questo mondo, vi restano comunque ancora attaccati con la “pesantezza” dei loro sensi e la “tattilità” dei loro sentimenti. Non è un caso che, nel toccare con olio il corpo dell’infermo, come prescrive la rubrica rituale, il ministro finisca per estrinsecare liturgicamente, e con linguaggi altri, il significato della premura che l’intera comunità vuole nutrire verso gli infermi. Tale premura si esplica, tra l’altro, mediante le cosiddette opere caritative e di mutuo aiuto, nelle quali vanno inventariate anche le prassi di cura, terapia ed assistenza, destinate ad alleviare ogni umano bisogno. Tuttavia, raggiunge il massimo grado di esplicitazione nella semplice presenza silenziosa e affettuosa. Gli stessi tentativi che la scienza va, frattanto, compiendo sul piano dei presidi terapeutici, anche quelli di tipo sedativo, palliativo e di abbassamento della soglia di nocicezione, possono essere vissuti come parte integrante dell’insieme di queste premure di “carattere materno” e paterno verso gli infermi, che la comunità apprezza ampiamente da chiunque siano esercitate, in quanto esse sono davvero considerabili come modalità educativa e preparazione ad accogliere la buona notizia di Cristo, nonché come partecipazione al ministero di colui che, in quanto guaritore ferito, è venuto appunto nel mondo per liberare dalla sofferenza e recare salute integrale. Inoltre, siffatta comunità, in nome del principio d’incarnazione, è particolarmente attenta alle forme di prossimità e di comunicazione mediante i sensi e la soglia dell’immaginale, nella convinzione «che il Dio rivelato in Gesù Cristo ha realmente riscattato e santificato la carne e tutto il mondo sensibile, cioè l’uomo con i suoi cinque sensi, al fine di permettergli “di rinnovarsi costantemente secondo l’immagine del suo Creatore” (Col 3, 10»[27].
Già il Decreto della sacra Congregazione per il culto divino[28] sottolineava questa sollecitudine da parte della comunità, la quale è chiamata appunto a prendersi cura degli infermi, «non solo visitando i malati, ma anche confortandoli con il sacramento dell'Unzione, sostenendoli, sia durante la malattia che in pericolo di morte, con il sacramento dell’eucaristia, e raccomandandoli con le sue preghiere a Dio, specialmente negli ultimi istanti della loro vita»[29]. Del resto, ungere le parti del corpo dell'infermo, secondo l’antichissima tradizione liturgica, in particolare a partire dal Medioevo, porre l’olio nelle sedi principali degli organi di senso, corrisponde, sul piano liminale, all’espressione simbolica della fiducia ragionevole che i sopravvissuti nutrono nel fatto che l’infermo, così risollevato, sopporti «meglio i fastidi e i travagli della malattia» e più facilmente resista «alle tentazioni del demonio», talvolta riacquistando «la stessa salute del corpo, quando ciò convenga alla salute dell'anima»[30]. Significativamente, poi, a partire dal Vaticano II, poi, viene unto non soltanto il moribondo, ma ogni fedele che, per malattia o per vecchiaia, cominci a essere in pericolo di morte, ovvero, come si dice nel gergo dei bioeticisti, sia stato giudicato trovarsi, con diagnosi certa, nella situazione di “non curabilità” o “con bassissima aspettativa di vita”[31]. Questo gesto, prevalentemente tattile, effettuato, secondo il Rito liturgico, sulla fronte e sulle mani dell’infermo comunica con linguaggi altri la volontà e il desiderio di recare sollievo, anzi di “salvare”, di contribuire affinché il morente si unisca spontaneamente alla passione e alla morte di Cristo[32]. Non sono da meno gli altri elementi rituali - quali il benedire il malato, imponendogli le mani, l’aspergerlo con l'acqua benedetta, lo stargli vicino nella fase preagonica ed agonica -.
Tutti parlano, e possono aiutare a parlare, in maniera immaginale, evocando in maniera non rappresentativa una comunità che finalmente tiene conto di ogni minima reazione del malato, che intende in qualche modo lenirne le sofferenze, offrendo modalità percettive e segni visivi, aromatici e rituali per recare sollievo nel dolore e conforto nelle sofferenze. Sarà forse anche questo il senso di una terapia palliativa nell’accompagnamento del morente?

NOTE
[1] In merito, esiste un costante insegnamento del Magistero cattolico. Cf Sacra Congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione sull’eutanasia (5.5.1980); Pontificio Consiglio Cor Unum, Questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti (27 giugno 1981); Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti ad un corso internazionale di aggiornamento sulle “preleucemie umane” (15.11.1985); Consiglio per la pastorale degli Operatori Sanitari, Carta degli Operatori Sanitari (1995); Giovanni Paolo II, Discorso di ad un gruppo di Vescovi degli Stati Uniti d’America in visita ad limina (2 ottobre 1998); Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Congresso internazionale su “i trattamenti di sostegno vitale e lo stato vegetativo. Progressi scientifici e dilemmi etici”, 17-20.3.2004, Augustinianum (20.3.2004); Congregazione per la dottrina della fede, Risposta a 2 quesiti della Conferenza episcopale statunitense circa l’alimentazione e l’idratazione artificiali (1.8.2007) e relativa Nota di commento
[2] F. Contaldo, La nutrizione ai confini della vita. Riflessioni dal caso Terri Schiavo: ovvero tra etica della comunità ed etica degli individui, Alfredo Guida Editore, Napoli 2006, 17. Per il medesimo Autore, «la terapia è un intervento medico che mira a curare una specifica patologia. Identificata la causa attraverso l’anamnesi, l’esame obiettivo e le varie indagini biochimiche e strumentali, inizia una terapia mirata che si ritiene efficace a contrastare il male: la terapia può essere medica e/o chirurgica. L’assistenza è invece tutto il corredo di presidi che devono consentire di effettuare la terapia e di fronteggiare tutti i bisogni del paziente, e non sono oggetto di un intervento terapeutico… In altre parole esiste la terapia e l’assistenza ed insieme costituiscono la cura» (ivi, 29).
[3] La nota di commento della Congregazione per la dottrina della fede ai quesiti posti nel luglio del 2005 dai vescovi statunitensi, precisa una differenza tra affermazione morale in linea di principio ed eventuali eccezioni o deroghe al principio stesso, da tollerare in riferimento a contesti privi di mezzi sanitari o a particolari casi di non tollerabilità da parte del paziente: «Nell’affermare che la somministrazione di cibo e acqua è moralmente obbligatoria in linea di principio, la Congregazione della Dottrina della Fede non esclude che in qualche regione molto isolata o di estrema povertà l’alimentazione e l’idratazione artificiali possano non essere fisicamente possibili, e allora ad impossibilia nemo tenetur, sussistendo però l’obbligo di offrire le cure minimali disponibili e di procurarsi, se possibile, i mezzi necessari per un adeguato sostegno vitale. Non si esclude neppure che, per complicazioni sopraggiunte, il paziente possa non riuscire ad assimilare il cibo e i liquidi, diventando così del tutto inutile la loro somministrazione. Infine, non si scarta assolutamente la possibilità che in qualche raro caso l’alimentazione e l’idratazione artificiali possano comportare per il paziente un’eccessiva gravosità o un rilevante disagio fisico legato, per esempio, a complicanze nell’uso di ausili strumentali» (cf Congregazione per la dottrina della fede, Risposta a 2 quesiti della Conferenza episcopale statunitense circa l’alimentazione e l’idratazione artificiali (1.8.2007) e relativa Nota di commento (14.9.2007): fonte vatican.va).
[4] R. De Monticelli, Sullo spirito e l’ideologia. Lettera ai cristiani, Baldini Castoldi Dalai Editore, Milano 2007, in maniera accorata, e in atteggiamento di credente “perplessa”. ricorda che «sedativi o no, grazie al cielo, c’è addirittura nella nostra costituzione un punto chiaro, la cui logica ed etica è semplicissima – nessuno può imporre a un altro la cura che non vuole, né di tenersi la vita che l’altro non desidera più» (p. 13). Riferendosi al caso Welby, all’interno del più generale rapporto tra pensiero cristiano e modernità, soprattutto filosofica, argomenta che se l’ultimo giudice in materia di coscienza morale resta la coscienza morale stessa, occorrerebbe riconoscerli, anche nelle sue decisioni di fine vita, la responsabilità delle sue convinzioni etiche, nel bene e nel male. Ciò al fine di non scivolare nella ideologia, ovvero «anzitutto una tendenza ad andare e a portare gli altri in qualche direzione» (p. 29).
[5] Ivi, 127.
[6] G. Ferretti, Amore del bene e bene come amore. Il rovesciamento (cristiano) del platonismo e la sua eredità nel pensiero di Max Scheler, in G. Cucinato (cur.), Max Scheler. Esistenza della persona e radicalizzazione della fenomenologia, Franco Angeli, Milano 2007, 9-32.
[7] In merito, si può ribadire che la differenza negli orientamenti bioetici è spesso prima teoretica che etica, in quanto al fondo essa si svolge, com’è stato scritto «nel confronto fra posizioni libertarie permissive, posizioni che pongono limiti ricorrendo alla leva di un’etica della responsabilità anche collettiva, posizioni ispirate da una morale utilitaristica in cui il fine giustifica i mezzi, posizioni ontologiche che individuano nuclei indisponibili i quali non possano essere assoggettati al criterio dell’utile e della convenienza terapeutica per altri» (V. Possenti, Il principio-persona, Armando editore, Roma 2006, 160).
[8] Ivi, 107, ma cf anche 99-121. L’intero volume poggia sulla seguente tesi: «Pur assegnando rilievo alla ricerca degli indizi che possano segnalare la presenza della persona, non ritiene che l’esser-persona o il divenirlo siano accertabili solo funzionalmente o empiricamente (e questo in particolare negli stati-limite), ma che siano argomentabili razionalmente entro una concezione dell’essere e dei suoi diversi gradi, capace di apprendere nella misura massima possibile dalle scoperte della scienza, non limitandosi però solo ad esse, piuttosto integrandole e interpretandole» (ivi, 123).
[9] Si ricordi che la Convenzione di Oviedo (Consiglio d’Europa, Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina, 1997) recepisce il principio che è la libertà dell’individuo a decidere delle proprie cure. La Legge italiana 28.3.2001, n. 145 recepisce la Convenzione di Oviedo (GU 24.4.2001).
[10] Cf H. Küng, La dignità della morte. Tesi sull’eutanasia: il teologo cristiano eterodosso in questi ultimi anni rivendica, d’accordo con W. Jens (eminente saggista, che ha insegnato fino al 1988 retorica all’Università di Tubinga), la possibilità di una riflessione teologico-morale che ricerchi una via alternativa responsabile alla sorte di tanti pazienti alla fine della vita, il cui «destino individuale, spesso insopportabile, rischia di essere sommerso dai toni altisonanti di un dibattito importante, che tocca temi etici, giuridici e teologici» (p. 75).
[11] Ivi, 10.
[12] Ivi, 32.
[13] Ivi, 35.
[14] Ivi, 41.
[15] Ivi, 42.
[16] Ivi, 61.
[17] Ivi, 63: è, questa, la tesi principale espressa nel recente pamphlet del teologo tedesco.
[18] In merito cf Le tattiche dei sensi, Manifestolibri, Roma 2000.
[19] Cf Catechismo della chiesa cattolica, 239: «Chiamando Dio con il nome di “Padre”, il linguaggio della fede mette in luce soprattutto due aspetti: che Dio è origine primaria di tutto e autorità trascendente, e che, al tempo stesso, è bontà e sollecitudine d'amore per tutti i suoi figli. Questa tenerezza paterna di Dio può anche essere espressa con l'immagine della maternità, che indica ancor meglio l'immanenza di Dio, l'intimità tra Dio e la sua creatura. Il linguaggio della fede si rifà così all'esperienza umana dei genitori che, in certo qual modo, sono per l'uomo i primi rappresentanti di Dio. Tale esperienza, però, mostra anche che i genitori umani possono sbagliare e sfigurare il volto della paternità e della maternità». Cf anche M. Orsatti, Un Padre dal cuore di madre. Meditazioni, Editrice Àncora, Milano 1998.
[20] Per questi sviluppi liturgico-filosofici del nostro tema, cf P. Giustiniani-C. Matarazzo (curr.), Giocare davanti a Dio. L’universo liturgico tra storia, culto e simbolo, Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Sezione san Tommaso d’Aquino-Campania Notizie srl, Napoli 2006.
[21] Nobilis Pulchritudo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005, 91-92.
[22] G.M. Chiodi, Propedeutica alla simbolica politica, I, Franco Angeli, Milano 2006, p. 38.
[23] Nella vasta letteratura a metà tra filosofia del linguaggio, filosofia analitica ed altri saperi, cf almeno W. Twining-D. Miers, Come far cose con regole. Interpretazione e applicazione del diritto, traduzione di C. Garbarino, presentazione di R. Guastino, A. Giuffré, Milano 1990.
[24] In merito, cf F. Asti, Dalla spiritualità alla mistica. Percorsi storici e nessi interdisciplinari, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2005.
[25] Ivi, p. 26.
[26] La versione italiana del «Sacramento dell'Unzione e cura pastorale degli infermi» fu approvata, secondo le delibere dell'Episcopato CEI e ricevette la conferma da parte della Sacra Congregazione per il Culto divino, con Decreto n. 1530/74 del 10 maggio 1974. L’edizione «tipica» del nuovo rito del «Sacramento dell'Unzione e cura pastorale degli infermi» per la lingua italiana, ufficiale per l'uso liturgico, è del 23 maggio 1974.
[27] Giovanni Paolo II, Lettere apostolica Duodecim saeculum all’episcopato della chiesa cattolica per il XII centenario del concilio di Nicea (4.12.1987), 9. La citazione, in verità, è qui riferita all’iconologia e all’arte.
[28] prot. 1501/72.
[29] Sacra Congregazione per il culto divino, Decreto del 7.12.72: fonte vatican.va.
[30] Cf CONC. TRID., Sess. XIV, De extrema unctione, cap. 2: CT, VII, 1, 356; Denz- Schön. 1696. CONC. TRID., Sess. XIV, De extrema unctione, cap. 2: CT, VII, 1, 356; Denz- Schön. 1696.
[31] « Per valutare la gravità del male, è sufficiente un giudizio prudente o probabile , senza inutili ansietà» (Sacramento dell’unzione e cura pastorale degli infermi, Introduzione, n.8.
[32] cfr. Rm 8, 17; Col 1, 24; 2 Tm 2,11-12; 1 Pt 4, 13. Nell’ottica liturgica, infatti, allorché siamo colpiti e oppressi da dolori e da prove, è Cristo che soffre in noi sue membra

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