Genova, P.zza Verdi 4/4 - 16121

 
MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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Luisella Battaglia, Bioetica senza dogmi, RUBBETTINO 2009 pp. 258
(tratta da “ANTROPOS & IATRIA” 1, XIV (2010) PP. 115-17)
Una bioetica liberale è una bioetica non dogmatica e rispettosa delle minoranze e delle loro preferenze morali, che possono essere argomentate secondo ragionevolezza. Il volume affronta in tale prospettiva numerose tematiche di grande interesse, che appare difficile sintetizzare efficacemente senza tralasciare spunti di rilievo. Esso è articolato in tre parti, dedicate la prima alla definizione e alle possibili radici di una bioetica liberale, la seconda alla bioetica in prospettiva di genere, con riferimento non solo ai temi bioetici specifici del corpo femminile, ma alla specificità stessa dell’approccio femminile ai problemi bioetici, e la terza all’analisi dell’approccio delle capacità; si tratta di temi ai quali l’A. dedica da tempo le proprie riflessioni, rispetto alle quali questo libro appare una compiuta e illuminante sintesi.
L’obiettivo dell’A. è riflettere su come garantire una biopolitica che non sia autoritaria, che non ingerisca nelle scelte individuali, ma consenta a ciascuno di operare le proprie scelte senza che la società se ne senta minacciata e senza che la tecnica venga demonizzata per la sua capacità di interferire con il corso della “natura”. Sono, su tale tema, pienamente condivisibili le critiche dell’autrice al riferimento alla “naturalità” quale criterio di scelta per il giudizio morale su talune pratiche, frutto spesso di un timore della tecnica o, meglio ancora, come l’A. scrive, di un “determinismo tecnologico” (p. 20), che sembra ritenere la tecnica onnipotente, mentre tante e diverse sono le condizioni di cui tenere conto (sociali, personali, ecc.) e che fanno la differenza: in ogni caso, la natura ha poco o nulla a che fare con la morale, come anche Mill ha sottolineato con chiarezza. Si tratta, per altro, di un tema di stringente attualità in considerazione delle tentazioni paternalistiche che attualmente connotano taluni tentativi di disciplinare questioni di rilevanza bioetica: mascherati da liberalismo, sottintendono una sfiducia nelle capacità di scelta autonoma del cittadino che pare dover essere guidato al di là delle sue preferenze individuali anche nelle scelte più intime e personali. Attualità non significa tuttavia estemporaneo e transitorio legame con la cronaca, ma volontà di affrontare nodi cruciali per la società che intendiamo costruire o difendere, in un’epoca critica proprio a causa di sviluppi tecnologici che pongono in discussione alcuni elementi costitutivi dell’essere umano e dell’essere in società.
Per quanto attiene la prima parte del volume, di Mill non viene ripresa semplicemente la lezione classica sul liberalismo, bensì se ne tenta una conciliazione con l’idea di “fioritura” di ascendenza aristotelica, ripresa di recente nelle etiche della virtù, intravedendo in essa un respiro più ampio della mera difesa dei diritti individuali, ma piuttosto, per così dire, un’apertura alla socialità. Attraverso la ripresa e l’analisi puntuale di alcuni passaggi cruciali di opere di Mill, quali il saggio su “La libertà” e i “Saggi sulla religione”, l’A. attualizza tali temi facendone intravedere la rilevanza per le tematiche bioetiche: ad esempio, il rischio della tirannia della maggioranza paventato da Mill e che sembra trovare una puntuale conferma nei tentativi, di cui si diceva, di imporre una e un’unica visione del mondo, in fondo per timore della devianza, la quale risulta socialmente destabilizzante. L’A. individua in Mill una domanda cruciale, ieri come oggi: la necessità di individuare “qual è il limite da porre all’azione legittima dell’opinione pubblica sull’indipendenza personale e difenderlo contro ogni usurpazione”. (p. 19) A ben vedere, il “principio del danno” di ascendenza milliana è pur sempre la miglior guida anche in bioetica: la società ha il diritto di intervenire soltanto per la propria autotutela, ossia solo per impedire quei comportamenti che possono comportare danni per altri in maniera diretta. Soprattutto, e questa tesi risulta particolarmente convincente, la legislazione non ha il compito di definire il bene morale, non può, in altri termini, decidere astrattamente, in maniera generale e univoca o omogenea cosa sia “bene” per ciascun individuo, il quale ha invece preferenze e bisogni peculiari.
Il conflitto, in materia etica, è inevitabile, ma esso è anche fecondo e dunque va addirittura valorizzato, come l’A. sostiene sulla scorta della lezione di Simmel; l’approccio liberale consente proprio di dirimere il tema, essenziale in bioetica, del conflitto e del limite tra possibile e lecito e di riconoscere il “carattere irriducibilmente personale delle scelte che ciascuno è chiamato a compiere, in relazione alla sua storia, alla sua cultura di appartenenza, ai valori e alle credenze che danno un senso alla sua esistenza”. (p.5)
L’A. applica, dunque, la lezione di Mill alle principali tematiche bioetiche, ad esempio le scelte procreative e l’analisi preimpianto degli embrioni, capovolgendo la prospettiva dei divieti e dei tentativi di controllo delle sfere di scelta più intima: ad esempio, non si vede perché una scelta procreativa supportata dalla tecnica dovrebbe essere meno responsabile; anzi, forse essa lo è di più, proprio perché fortemente voluta.
Lo sforzo apprezzabile è già nell’intento programmatico del volume: superare l’ormai trita dicotomia tra sacralità e qualità della vita. L’A. propone infatti un ideale di “buona vita”, ispirandosi ai percorsi di Amartya Sen e Martha Nussbaum, intendendo con esso la capacità di volgere lo sguardo a ciò che veramente conta per ciascuno; “buona vita” è un concetto che intende superare però anche l’approccio utilitaristico, ossia abbandonare il limitato obiettivo di eliminare le condizioni di sofferenza, per promuovere la salute intesa nel senso più ampio del termine e in definitiva, con ciò, la pienezza della realizzazione di ciascun individuo. Vi è, evidentemente, al fondo l’opzione per un’etica non conseguenzialistica né deontologica, ma piuttosto per un’etica della “fioritura”, ossia della piena realizzazione delle potenzialità di ciascuno. Alla luce di ciò, i temi bioetici possono essere affrontati non secondo pregiudizi ideologici dogmatici, ma secondo una prospettiva liberale, quella di Sen, ad esempio, che ha provato a superare la critica più frequente alle etiche della virtù di ascendenza McIntyriana, di potersi giustificare e radicare soltanto in una comunità specifica, con un approccio, appunto, globale e cosmopolitico. Lo scopo è conciliare l’universalismo con le differenze. D’altronde la valorizzazione della differenza è essa stessa una declinazione del principio di liberale di eguaglianza: un’eguaglianza che deve rispettare anche le differenze, come ormai anche in altri ambiti si riconosce (pensiamo alle problematiche connesse alla multiculturalità).
La seconda parte del volume è dedicata alla bioetica al femminile (cosa diversa, è forse opportuno sottolineare, dalla bioetica femminista) e dunque all’analisi di contributi di riflessione sulla specificità sia dei bisogni che degli approcci teorici femminili alle questioni bioetiche. L’A. adotta un approccio critico, che parte dalla domanda stessa se sia legittimo parlare di una “bioetica di genere” o non si rischi di proporre un universalismo che surrettiziamente introduce una nuova forma di omologazione, intendendo il femminile come un tutto omogeneo e rischiando in tal modo di riproporre una nuova, occulta, negazione delle differenze. La concezione che l’A. suggerisce dell’etica della cura, utilizzata in origine proprio dall’etica femminista, apre tuttavia una prospettiva interessante, poiché propone di conservare un riferimento all’etica liberale dei diritti, conciliandolo però con l’accento sulla relazionalità: proprio quello che un’etica della cura individua quale criterio fondamentale, che va ad affiancarsi ai principi classici della bioetica, i quali sembrano validi per un individuo non solo astratto, ma avulso dalla sua rete di rapporti, essenziale, invece, non solo per il suo modo di essere, ma anche per la definizione dei suoi bisogni. (p. 187) Si tenta, in sostanza, un superamento della contrapposizione tra etica della cura ed etica dei diritti o della giustizia, cosicché il sottolineare l’importanza dell’atteggiamento di cura non sia inteso come una svalutazione dell’autonomia individuale. Scrive infatti l’A. che “la valorizzazione della differenza si fonda, a ben vedere, sul principio normativo dell’eguaglianza”, (p. 9) un principio liberale e di diritto, e, ancora che il paradigma del prendersi cura può essere considerato complementare a quello dei diritti (p. 186); anzi, la cura va intesa come “un ideale politico, parte integrante di una teoria della giustizia e di un’etica pubblica”. (p. 217) Dunque, la cura ha una “dimensione sociale e pubblica”, (p. 238) piuttosto che la valenza sentimentalistica di certa riflessione femminista, la quale finisce con relegarla in ambito privato, perpetuando stereotipi del femminile come più predisposto all’empatia.
L’A. mette in pratica questo approccio affrontando tutti i temi fondamentali della bioetica, dalla nascita al rapporto medico/paziente, dal punto di vista femminile, ma entro un quadro di bioetica liberale, con posizioni equilibrate e di grande acutezza critica. Del resto molte delle questioni di giustizia in ambito bioetico, ma non solo, sono questioni di genere, o che comunque riguardano scelte che coinvolgono le donne, dalla famiglia, alla violenza, alla riproduzione, ecc.
Il riconoscimento dell’importanza dell’approccio dei diritti non impedisce tuttavia all’A. di dedicare uno speciale spazio a un’etica del dono, che non solo è orientata alla soddisfazione di bisogni piuttosto che al conseguimento di profitti, ma crea anche uno speciale legame tra gli attori della relazione, (p. 140) e acquista una valenza particolarmente problematica e innovativa nelle possibilità di “dono” che la tecnologia oggi consente: cellule, gameti, organi, ecc. Anche tale categoria va ripensata nel percorso di elaborazione di una bioetica liberale, al fine di affrontare questioni di particolare complessità: si pensi che vi è pure un filone della bioetica liberale che ritiene possibile consentire l’introduzione di regole di mercato anche nella gestione di questi “doni”.
La ricognizione degli elementi di giudizio per una “buona vita” va centrata, oltre che sulla definizione di ciò cui l’individuo attribuisce un valore, anche sulla categoria essenziale della vulnerabilità, che accomuna tutti i soggetti deboli e bisognosi di cura, ma infine connota, evidentemente, la condizione umana come tale. A questo è sostanzialmente dedicata la terza parte del volume, che allarga l’orizzonte della bioetica e dei cosiddetti diritti di quarta generazione, sotto un duplice aspetto: a) quello dei diritti i quali, pur già sanciti, acquisiscono una imprevista complessità, come il diritto alle migliori cure, ma anche a rifiutare le cure medesime, che deriva dall’art. 32 della Costituzione, diritto che acquisisce particolare pregnanza proprio a causa del progresso tecnico e della sua capacità di prolungare l’esistenza, che solleva questioni nuove, come quelle riassunte attualmente nel dibattito sulle Dichiarazioni anticipate di volontà: maggiori potenzialità comportano un più ampio numero di scelte, laddove in passato non vi erano alternative, e quindi nuovi problemi etici, ma anche resistenze ideologiche e timori “tecnofobici”, al punto che si rischia di mettere in discussione proprio taluni principi-base del liberalismo che pure informa la nostra Carta costituzionale, quale il diritto all’autodeterminazione; b) quello dei diritti come bisogni e come capacità secondo la lezione di Sen e Nussbaum, con ciò richiedendo alla bioetica uno sguardo anche planetario, un’attenzione ai bisogni delle popolazioni più deboli e delle donne in particolar modo: i diritti, infatti, sono il prodotto di una cultura, le capacità invece sono collegate ai bisogni individuali, che non possono essere artificiosamente elusi con appelli alle diversità culturali: una bioetica liberale aspira a una “versione pluralistica dell’eguaglianza”, (p.282) così da affrontare i problemi del multiculturalismo e delle diseguaglianze di genere.
Il contributo essenziale di una bioetica liberale, così come nel volume viene definendosi, è dunque in primo luogo riconoscere tutti gli individui “eguali nella dignità e nei diritti e differenti nei bisogni e nella capacità”, (p. 8) cosicché appaia necessario e possibile cercare attraverso il confronto ragionevole alla ricerca del consenso modalità per la tutela di queste diversità; in secondo luogo definire la vera giustizia in una società democratica come “difesa delle minoranze e non delle maggioranze”. (p. 95) Il principio unificatore, e a nostro avviso più significativo, è che “il parere della maggioranza non è, in campo etico e bioetico, in alcun modo garanzia di ‘verità’, né può essere addotto a prova della giustezza di un’opinione, se non unicamente del ‘fatto’ – rilevante solo sul piano sociologico – che essa è largamente condivisa.” (pp. 38-9) In altri termini, il giudizio sulle condotte moralmente giuste, su ciò che è bene e male per il singolo, non può essere formulato a maggioranza.
Maria Antonietta La Torre
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