Paolo Becchi - Pasquale Giustiniani ( a cura), La vita tra invenzione e senso. Per una teoresi della bioetica, Graf 2007
Il volume affronta alcuni dei problemi bioetici di maggiore attualità, in special modo quelli connessi alle trasformazioni del concetto di vita suscitate dalla sua crescente manipolabilità e le questioni connesse all’uscita dalla vita, e si propone esplicitamente di superare l’ormai sterile contrapposizione tra bioetica laica e bioetiche religiose, proponendo un’indagine sui valori che assuma interamente le incertezze suscitate dagli sviluppi della tecnoscienza, cercando di evitare soluzioni precostituite che pretendano di inserirsi entro schemi di pensiero già pensati, consolidati e per ciò stesso in qualche misura rassicuranti, ma talvolta limitanti. La pretesa di una “fondazione ontologica della scelta morale” che sia pregiudizialmente preliminare alla possibilità di affrontare le questioni bioetiche, rischia d’essere un abito troppo stretto per tematiche che presentano caratteri di novità non sempre riconducibili con facilità alle teorie preesistenti. Si richiama perciò l’esigenza, del resto ben presente nella riflessione filosofica degli ultimi due secoli, di una verifica critica delle teorie e soprattutto di un loro collegamento alla prassi, rifiutando le aspirazioni universalizzanti quando queste si rivelino velleitarie, ma anche in qualche modo “violente” rispetto alla molteplicità delle istanze nel contesto globalizzato e multiculturale nel quale ormai ci muoviamo. La mutevolezza delle definizioni, anche scientifiche, di concetti essenziali (l’interesse principale del libro è per quello basilare di “vita”) riconduce ad umiltà la pretesa di definizioni assolute e apre a una prospettiva “storica”, laddove tuttavia, e questa è la peculiare prospettiva del volume, ciò non significa relativistica e mutevole e pertanto priva di valori, ma anzi, proprio tesa a superare le sempre più invadenti pretese utilitaristiche. Le pur diverse prospettive adottate dai diversi autori che al volume contribuiscono, sono tutte animate dalla convinzione che sia davvero possibile riaprire la riflessione sul valore della vita in quanto tale e sui valori in generale: una riflessione a più voci, con l’intento di sgombrare il campo da contrapposizioni pretestuose inficiate da preconcetti ideologici.
I curatori paventano infatti, nell’ampia e approfondita introduzione, il rischio di una “soggettivizzazione dei valori” (p.10), non tanto nelle questioni connesse alla bioetica ambientale o animale, nelle quali il consenso è più facilmente conseguibile anche da posizioni eticamente opposte, ma, com’è ovvio, nella bioetica antropica, laddove sono in gioco valori che più direttamente aspirano al riferimento a evidenze etiche o a una “natura” (umana) universale dalla quale derivare indicazioni per la condotta. La prospettiva suggerita, pertanto, propone il superamento tanto del “razionalismo” esasperato che alimenta la pretesa di oggettività dei valori, che dell’irrazionalismo inteso come apertura debole e permeabile a qualsiasi istanza e per ciò stesso incapace di pervenire a un qualsivoglia orientamento valoriale, per assumere piuttosto la “trasmutazione valoriale in atto” (p.11) e farne occasione di confronto con le diverse visioni del mondo, senza rinunciare all’idea di un orientamento generale possibile. Il modello di riferimento è quello di un “principio-carità”, che aggiunge al principio-responsabilità di Jonas un senso del dono inteso come gratuità: questo potrebbe forse aiutare la “globalizzazione di tutte le ragioni morali, anche di quelle provenienti da ispirazioni religiose” (p.12), di valori, insomma, che non siano semplicemente il volere della maggioranza, ma il frutto di una condivisione di prospettive etiche di alto profilo. La bioetica, infatti, non coincide con la biopolitica, non si limita, cioè, a prendere atto delle tendenze prevalenti per cercare mediazioni giuridicamente accettabili, ma deve svolgere un ruolo propositivo finalizzato al dialogo autentico.
Il volume raccoglie dunque contributi di varia provenienza teoretica e tecnica, così da tentare da più punti di vista di individuare un percorso possibile per tale intento programmatico. Si inizia con quello di Matassino, che, da scienziato, offre contributi significativi sul tema della “vita” e della sua definizione, soprattutto in considerazione delle difficili questioni sollevate dalle ricerche biotecnologiche, ponendosi in un’ottica di “complessità”, ma pure evidenzia le molte domande alle quali la scienza da sola non può dare risposta definitiva, richiedendo una riflessione etica di “accompagnamento”, e affida alla bioetica il compito (arduo, in verità) di superare la contrapposizione tra antropocentrismo e biocentrismo (p.32), oltre che di stimolare la scienza a una riflessione ontologica e ad un’assunzione di responsabilità: posizione assai apprezzabile in uno scienziato, laddove tanti considerano ancora il principio di precauzione un ostacolo per la ricerca.
L’originalità del volume emerge poi in maniera peculiare in alcuni saggi di carattere storico, un approccio non frequente nel dibattito bioetico, a partire dal pregevole intervento di Giustiniani, il quale analizza l’evoluzione del concetto di “vita” tra antico e moderno, per affrontare il difficile tema della relazione tra libertà della ricerca e necessità di una sua regolamentazione secondo principi eticamente condivisi, ma soprattutto per dare a quel concetto una valenza ben più ampia di quella cui provano a ridurla alcune tendenze biologistiche, ritrovando nell’antica psyché i prodromi di una filosofia della vita, o di una “biofilosofia” (p.67) che non sia mero panteismo né meccanicismo, e che in tal modo possa aiutare ad evitare tentazioni relativistiche. L’invito è ad una “bioetica senza aggettivi” (p.95) ossia, ad esempio, né “laica” né “cattolica”, ma che sia autentica filosofia del bios. La scelta di Giustiniani è tuttavia per una bioetica che non sia mai “privatistica”, per così dire, che cioè non isoli l’individuo nella sua personale scelta, lasciandolo solo dinanzi a domande difficili, ma soprattutto consentendo così soltanto pacifiche convivenze e non l’opportunità di pervenire a valori comuni, e che piuttosto divenga “una questione di etica pubblica, ovvero di franco e pluridisciplinare confronto in un contesto pluralistico e complesso” (p.95): egli non condivide, insomma la rinuncia contemporanea alle cosiddette “grandi narrazioni”, restando convinto che sia possibile pervenire a verità morali.
D’Agostino riprende alcuni elementi della riflessione tomista, non di rado utilizzata nel dibattito bioetico, anche in tal caso in ausilio alla riflessione sul concetto di “vita”, per trarne, attraverso un’attenta ermeneutica, indicazioni sul valore della vita umana, in riferimento a questioni quali, ad esempio, l’eutanasia, e in generale sul rispetto ad essa dovuto, ma anche sul valore della conoscenza, sempre “perfettibile e riformulabile” (p.112), ritenendo che Tommaso d’Aquino possa realmente “aiutarci a dipanare anche le nostre attuali questioni” (p.99) bioetiche. Ancora con approccio storiografico, ma con un’attenzione per temi di attualità, come quelli connessi alla globalizzazione, purché però l’ampliamento delle comunicazioni non conduca a “un’accoglienza acritica del sapere tecnico e biotecnico” (p.121), il saggio di Gallinaro riflette sull’homo faber soprattutto nella sua connotazione di manipolatore della vita, che sposta la riflessione sui suoi fondamenti, ereditata dalla filosofia moderna, verso il tema della qualità della vita. Ripercorrendo i più fecondi sviluppi del cosiddetto pensiero della complessità, Gallinaro invita, discutendo sulla “vita”, a non trascurare l’ontologico a favore del meramente organico e, passando per Jonas, a saper vedere “la dimensione teleologica iscritta nella vita” (p.150), rinunciando a “pregiudizi speculativi”, pur assumendo interamente l’”inquietudine” che la riflessione su di essa comporta.
Al tema della vita nella sua declinazione ambientale è invece dedicato il contributo di Farisco, che valuta l’ipotesi di un ampliamento dell’orizzonte antropologico della responsabilità alle vite “altre”, animali e natura, almeno in quanto contesto dell’agire dell’uomo, e dunque oggetto di un dovere morale di tutela in quanto necessari al darsi futuro dell’umanità, propendendo per un’etica della responsabilità che non tenta di umanizzare il non-umano, ma senza dubbio rinuncia al rude antropocentrismo che fa del mondo un mero oggetto d’uso a disposizione dell’agire tecnico, proponendo “un radicamento dell’imperativo ecologico sulla stessa capacità etica dell’uomo.” (p.169) Egli propone una opportuna distinzione tra filosofia della natura e filosofia dell’ambiente, ove quest’ultima connota più specificamente la nuova consapevolezza etica connessa alla salvaguardia del pianeta e soprattutto il passaggio dalla physis all’oikos.
A quel particolare aspetto della riflessione bioetica sulla vita che sono le questioni di fine vita e dell’uscita da essa è dedicata la seconda parte del volume, con interventi di Becchi e Barcaro. Le molteplici declinazioni che la questione del morire sembra oggi assumere, dall’eutanasia al suicidio assistito, sono esaminate da Barcaro alla luce di quella che ella propone come un’alternativa alle richieste di scelte autonome di por fine alle sofferenze o al ricorrente tema della “dignità del morire”, ossia della medicina palliativa, quale soluzione possibile e certamente da incentivare con ogni mezzo per fornire risposta al prolungamento artificiale dell’esistenza, e con esso della sofferenza, consentito oggi da tecniche sempre più sofisticate. Barcaro difende quindi non posizioni “libertarie”, quanto percorsi di “assistenza personalizzata”, che definisce “olistica” (p.185), ossia capace di cogliere l’interezza dell’individuo nel suo percorso di dolore e in tal modo di accoglierlo realizzando una vera “cura”. Ponendo in discussione l’uso diffuso del termine “dignità” come assegnabile soltanto alla morte voluta, desiderata, procurata, ritiene al contrario, con riferimento al Magistero cattolico, che vada efficacemente promosso il modello dell’hospice come luogo di accompagnamento, questo, si, dignitoso, al morire. Dal canto suo, Becchi si sofferma sui molteplici equivoci terminologici connessi a tali spinose questioni, forieri di valutazioni e posizioni talvolta dubbie, ma che in ogni caso hanno “rivoluzionato il modo di concepire la vita e la morte” (p.202). Egli esamina la questione della definizione di morte cerebrale, soprattutto in quanto connessa alla questione del trapianto di organi, obiettivo che non è forse del tutto innocente in talune decisioni e definizioni, riprendendo il dibattito riaccesosi di recente, sollevando perplessità su una definizione che è meramente tecnica e dunque non può non suscitare qualche interrogativo etico, e domandandosi se davvero “la morte cerebrale sia un indicatore della morte ravvicinata dell’intero organismo” (p.225). Anche in tal caso centrale è la nozione di “vita” sulla quale è certo difficile trovare un accordo, se si riflette su come la scelta di considerare soltanto la vitalità corticale come segno di vita e non, come un tempo, il battito cardiaco sia in effetti il risultato di una mera decisione. Conclude il volume un saggio di Limone, che richiama i “paradigmi della ragione”, sempre ineludibili, anche nelle problematiche bioetiche, le quali sembrano invece particolarmente suscettibili a influenze emotive, a credenze irrazionali, e, soprattutto, dinanzi ai dibattiti che artificiosamente contrappongono, ad esempio, bios e individuo, invita a rimettere al centro del dibattito la persona, ossia “ l’uomo concreto, visto nella sua irriducibile singolarità” (p.262) e nella sua sostanziale relazionalità, prospettiva che getta una luce diversa su qualsiasi discussione in merito alla dignità della vita e sul dibattito pubblico che deve accompagnare le questioni bioetiche.
I curatori paventano infatti, nell’ampia e approfondita introduzione, il rischio di una “soggettivizzazione dei valori” (p.10), non tanto nelle questioni connesse alla bioetica ambientale o animale, nelle quali il consenso è più facilmente conseguibile anche da posizioni eticamente opposte, ma, com’è ovvio, nella bioetica antropica, laddove sono in gioco valori che più direttamente aspirano al riferimento a evidenze etiche o a una “natura” (umana) universale dalla quale derivare indicazioni per la condotta. La prospettiva suggerita, pertanto, propone il superamento tanto del “razionalismo” esasperato che alimenta la pretesa di oggettività dei valori, che dell’irrazionalismo inteso come apertura debole e permeabile a qualsiasi istanza e per ciò stesso incapace di pervenire a un qualsivoglia orientamento valoriale, per assumere piuttosto la “trasmutazione valoriale in atto” (p.11) e farne occasione di confronto con le diverse visioni del mondo, senza rinunciare all’idea di un orientamento generale possibile. Il modello di riferimento è quello di un “principio-carità”, che aggiunge al principio-responsabilità di Jonas un senso del dono inteso come gratuità: questo potrebbe forse aiutare la “globalizzazione di tutte le ragioni morali, anche di quelle provenienti da ispirazioni religiose” (p.12), di valori, insomma, che non siano semplicemente il volere della maggioranza, ma il frutto di una condivisione di prospettive etiche di alto profilo. La bioetica, infatti, non coincide con la biopolitica, non si limita, cioè, a prendere atto delle tendenze prevalenti per cercare mediazioni giuridicamente accettabili, ma deve svolgere un ruolo propositivo finalizzato al dialogo autentico.
Il volume raccoglie dunque contributi di varia provenienza teoretica e tecnica, così da tentare da più punti di vista di individuare un percorso possibile per tale intento programmatico. Si inizia con quello di Matassino, che, da scienziato, offre contributi significativi sul tema della “vita” e della sua definizione, soprattutto in considerazione delle difficili questioni sollevate dalle ricerche biotecnologiche, ponendosi in un’ottica di “complessità”, ma pure evidenzia le molte domande alle quali la scienza da sola non può dare risposta definitiva, richiedendo una riflessione etica di “accompagnamento”, e affida alla bioetica il compito (arduo, in verità) di superare la contrapposizione tra antropocentrismo e biocentrismo (p.32), oltre che di stimolare la scienza a una riflessione ontologica e ad un’assunzione di responsabilità: posizione assai apprezzabile in uno scienziato, laddove tanti considerano ancora il principio di precauzione un ostacolo per la ricerca.
L’originalità del volume emerge poi in maniera peculiare in alcuni saggi di carattere storico, un approccio non frequente nel dibattito bioetico, a partire dal pregevole intervento di Giustiniani, il quale analizza l’evoluzione del concetto di “vita” tra antico e moderno, per affrontare il difficile tema della relazione tra libertà della ricerca e necessità di una sua regolamentazione secondo principi eticamente condivisi, ma soprattutto per dare a quel concetto una valenza ben più ampia di quella cui provano a ridurla alcune tendenze biologistiche, ritrovando nell’antica psyché i prodromi di una filosofia della vita, o di una “biofilosofia” (p.67) che non sia mero panteismo né meccanicismo, e che in tal modo possa aiutare ad evitare tentazioni relativistiche. L’invito è ad una “bioetica senza aggettivi” (p.95) ossia, ad esempio, né “laica” né “cattolica”, ma che sia autentica filosofia del bios. La scelta di Giustiniani è tuttavia per una bioetica che non sia mai “privatistica”, per così dire, che cioè non isoli l’individuo nella sua personale scelta, lasciandolo solo dinanzi a domande difficili, ma soprattutto consentendo così soltanto pacifiche convivenze e non l’opportunità di pervenire a valori comuni, e che piuttosto divenga “una questione di etica pubblica, ovvero di franco e pluridisciplinare confronto in un contesto pluralistico e complesso” (p.95): egli non condivide, insomma la rinuncia contemporanea alle cosiddette “grandi narrazioni”, restando convinto che sia possibile pervenire a verità morali.
D’Agostino riprende alcuni elementi della riflessione tomista, non di rado utilizzata nel dibattito bioetico, anche in tal caso in ausilio alla riflessione sul concetto di “vita”, per trarne, attraverso un’attenta ermeneutica, indicazioni sul valore della vita umana, in riferimento a questioni quali, ad esempio, l’eutanasia, e in generale sul rispetto ad essa dovuto, ma anche sul valore della conoscenza, sempre “perfettibile e riformulabile” (p.112), ritenendo che Tommaso d’Aquino possa realmente “aiutarci a dipanare anche le nostre attuali questioni” (p.99) bioetiche. Ancora con approccio storiografico, ma con un’attenzione per temi di attualità, come quelli connessi alla globalizzazione, purché però l’ampliamento delle comunicazioni non conduca a “un’accoglienza acritica del sapere tecnico e biotecnico” (p.121), il saggio di Gallinaro riflette sull’homo faber soprattutto nella sua connotazione di manipolatore della vita, che sposta la riflessione sui suoi fondamenti, ereditata dalla filosofia moderna, verso il tema della qualità della vita. Ripercorrendo i più fecondi sviluppi del cosiddetto pensiero della complessità, Gallinaro invita, discutendo sulla “vita”, a non trascurare l’ontologico a favore del meramente organico e, passando per Jonas, a saper vedere “la dimensione teleologica iscritta nella vita” (p.150), rinunciando a “pregiudizi speculativi”, pur assumendo interamente l’”inquietudine” che la riflessione su di essa comporta.
Al tema della vita nella sua declinazione ambientale è invece dedicato il contributo di Farisco, che valuta l’ipotesi di un ampliamento dell’orizzonte antropologico della responsabilità alle vite “altre”, animali e natura, almeno in quanto contesto dell’agire dell’uomo, e dunque oggetto di un dovere morale di tutela in quanto necessari al darsi futuro dell’umanità, propendendo per un’etica della responsabilità che non tenta di umanizzare il non-umano, ma senza dubbio rinuncia al rude antropocentrismo che fa del mondo un mero oggetto d’uso a disposizione dell’agire tecnico, proponendo “un radicamento dell’imperativo ecologico sulla stessa capacità etica dell’uomo.” (p.169) Egli propone una opportuna distinzione tra filosofia della natura e filosofia dell’ambiente, ove quest’ultima connota più specificamente la nuova consapevolezza etica connessa alla salvaguardia del pianeta e soprattutto il passaggio dalla physis all’oikos.
A quel particolare aspetto della riflessione bioetica sulla vita che sono le questioni di fine vita e dell’uscita da essa è dedicata la seconda parte del volume, con interventi di Becchi e Barcaro. Le molteplici declinazioni che la questione del morire sembra oggi assumere, dall’eutanasia al suicidio assistito, sono esaminate da Barcaro alla luce di quella che ella propone come un’alternativa alle richieste di scelte autonome di por fine alle sofferenze o al ricorrente tema della “dignità del morire”, ossia della medicina palliativa, quale soluzione possibile e certamente da incentivare con ogni mezzo per fornire risposta al prolungamento artificiale dell’esistenza, e con esso della sofferenza, consentito oggi da tecniche sempre più sofisticate. Barcaro difende quindi non posizioni “libertarie”, quanto percorsi di “assistenza personalizzata”, che definisce “olistica” (p.185), ossia capace di cogliere l’interezza dell’individuo nel suo percorso di dolore e in tal modo di accoglierlo realizzando una vera “cura”. Ponendo in discussione l’uso diffuso del termine “dignità” come assegnabile soltanto alla morte voluta, desiderata, procurata, ritiene al contrario, con riferimento al Magistero cattolico, che vada efficacemente promosso il modello dell’hospice come luogo di accompagnamento, questo, si, dignitoso, al morire. Dal canto suo, Becchi si sofferma sui molteplici equivoci terminologici connessi a tali spinose questioni, forieri di valutazioni e posizioni talvolta dubbie, ma che in ogni caso hanno “rivoluzionato il modo di concepire la vita e la morte” (p.202). Egli esamina la questione della definizione di morte cerebrale, soprattutto in quanto connessa alla questione del trapianto di organi, obiettivo che non è forse del tutto innocente in talune decisioni e definizioni, riprendendo il dibattito riaccesosi di recente, sollevando perplessità su una definizione che è meramente tecnica e dunque non può non suscitare qualche interrogativo etico, e domandandosi se davvero “la morte cerebrale sia un indicatore della morte ravvicinata dell’intero organismo” (p.225). Anche in tal caso centrale è la nozione di “vita” sulla quale è certo difficile trovare un accordo, se si riflette su come la scelta di considerare soltanto la vitalità corticale come segno di vita e non, come un tempo, il battito cardiaco sia in effetti il risultato di una mera decisione. Conclude il volume un saggio di Limone, che richiama i “paradigmi della ragione”, sempre ineludibili, anche nelle problematiche bioetiche, le quali sembrano invece particolarmente suscettibili a influenze emotive, a credenze irrazionali, e, soprattutto, dinanzi ai dibattiti che artificiosamente contrappongono, ad esempio, bios e individuo, invita a rimettere al centro del dibattito la persona, ossia “ l’uomo concreto, visto nella sua irriducibile singolarità” (p.262) e nella sua sostanziale relazionalità, prospettiva che getta una luce diversa su qualsiasi discussione in merito alla dignità della vita e sul dibattito pubblico che deve accompagnare le questioni bioetiche.
Maria Antonietta La Torre